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DELLA

LETTERATURA ITALIANA

ᏢᎪᎡᎢ Ꭼ Ꭲ Ꭼ Ꭱ ᏃᎪ

CONTINUAZIONE DELLA STORIA LETTERARIA DEI ROMANI
FINO ALLA MORTE DI AUGUSTO.

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I

Origine

coltivaro

1. Se il diletto che reca la poesia, fu cagione ch'essa prima dell'eloquenza fosse coltivata in Roma, il vantaggio e del fervol'onore che a' Romani veniva dall' eloquenza, fu cagione che re con eni questa prima della poesia giungesse alla sua perfezione. Già i Romani abbiam veduto il felice progresso che essa avea fatto fino in- no l'elonanzi all' ultima guerra cartaginese. L'onore in cui erano quenza, gli oratori, il potere ch'essi aveano nella Repubblica, e le dignità a cui l'eloquenza li conduceva, determinarono molti tra' Romani a coltivarla con ardore e con impegno sempre maggiore. Ma dappoichè la conquista della Grecia, che non molto dopo la distruzion di Cartagine fecero i Romani, un libero e frequente commercio introdusse trà le due nazioni, gli oratori greci uditi con piacere e letti con maraviglia da' Romani, una lodevole emulazione risvegliarono in questi e un vivo desiderio di pareggiarne la gloria. Auditis, dice Cicerone (l. 1 de Orat. n. 4) oratoribus græcis, cognitisque eorum literis, adhibitisque doctoribus, incredibili quodam nostri homines dicendi studio flagraverunt. Excitabat eos magnitudo et varietas multitudoque in omni genere causarum, ut ad eam doctriram, quam suo quisque studio assequutus esset, adjungeretur usus frequens, qui omnium magistrorum præs cepta superaret. Erant autem huic studio maxima, Tom. I. P. II.

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II.

quæ nunc quoque sunt, proposita præmia vel ad gratiam, vel ad opes, vel ad dignitatem (*). Così da tutti questi motivi portati allo studio dell' eloquenza i Romani, non è maraviglia che vi giugnessero a tal perfezione che potesse destar timore ne' Greci di esserne superati. La bellissima ed esattissima storia che Cicerone, come nel Capo antecedente si è detto, ci ha lasciato della romana eloquenza nel suo libro de' celebri Oratori, fa che non mi sia qui necessario il distendermi a lungo. Tutti gli oratori che in Roma ebbero qualche nome, si trovano ivi annoverati, di tutti si forma il carattere, se ne rilevano i pregj, non se ne tacciono i difetti, Così ci fosser rimaste alcune delle migliori loro orazioni; che noi potremmo in esse vedere i principje i progressi dell'arte oratoria, e i diversi generi d'eloquenza, che a' diversi tempi usati furono in Roma. Io accennerò solamente alcuni di quelli che con maggiori encomj celebrati vengono da Cicerone

II. I due famosi tribuni della plebe Tiberio e Caio GracElogio chi sono da lui nominati tra' più valenti oratori. E certo il dell' elo- poter ch'essi ebbero presso la plebe, n'è una troppo chiara de' due riprova. Del primo, come pure di C. Carbone, dice TulGracchi. lio (De cl. Orat. n. 27), che se il loro animo nel ben

quenza

governar la Repubblica fosse stato uguale all' arte loro oratoria, niuno avrebbeli superati in onore e in fama. Ma poco tempo ebbe Tiberio Gracco a far pompa della sua eloquenza, ucciso l'an. 620 di Roma per sospetto di affettata tirannia. Del secondo de' Gracchi, che visse fino all' an. 632

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Alle cagioni che concorsero a fare che l'eloquenza avesse in Roma si pronti e si felici progressi, si può aggiungere ancor quella che recasi dall' ab. du Bos(Reflexions sur la Poésie, ec. t. 3, p. 134, ec. ). L' Eloquenza, dice egli, non sol conduceva alla più luminosa fortuna, ma era ancora, per così dire, il merito alla moda. Un giovane nobile, e di que' che talvolta , leggiadramente si dicono il fior più fino di corte, vantavasi di perorar bene e di difendere con applauso le cause degli amici ne' tribunali, come og"gi si vanta di avere un bell' equipaggio ed abiti di buon gusto, e ne' versi che in lode di lui si facevano, rammentavasi ancor l'arte di ben parlare. Ei ne cita in prova questi versi di Orazio con cui egli parlando a Venere di un cotal giovane, così le dice:

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Namque et nobilis et decens

Et pro sollicitis non tacitus reis,

Et centum puer artium

Late signa feret militiae tuae (Carm. 1. 8, od. 1).

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In tal maniera il genio ancora e la moda concorre a promuovere le scienze, e il desiderio di piacere rende dolce a soffrirsi quella fatica nel coltivarle, che altrimenti sembrerebbe gravosa troppo e insopportabile .

in cui fu ucciso egli pure in una popolar sedizione, grande
è l'elogio che fa Tullio, il quale uomo il chiama ( ib. n. 33 )
di rarissimo ingegno e di grande e continuo studio, e ag-
giugne che niuno ebbe maggior copia ed eloquenza di fa-
vellare; che grande danno ebbe la romana letteratura dalla
sua morte; che forse niuno avrebbe potuto a lui uguagliarsi
nel ragionare, se avesse avuta più lunga vita; che maestoso
egli era nell'espressione, ingegnoso ne'sentimenti e grave in
tutta la dicitura; e che, benchè le sue orazioni non potesse-
ro dirsi finite, egli era nondimeno oratore da proporsi al
di ogn' altro a' giovani per modello.

par

III.
E di Cor-

III. La menzione che fatta abbiamo de' due fratelli Grac- nelia lor chi, ci conduce ad accennar qualche cosa ancora della lor madre. madre Cornelia, una delle più illustri matrone che vivessero in Roma, e ch'è ben meritevole di aver luogo nella storia letteraria di questa repubblica e pel sapere di cui ella fu adorna, e per quello di cui volle adorni i figliuoli. Era ella figlia di Scipione Africano il maggiore. Poichè ebbe perduto il suo marito Tiberio Gracco padre de'due mentovati tribuni, invitata alle sue nozze da Tolomeo re di Egitto ricusonne generosamente le offerte per attendere all'educazione de' proprj figli; il che ella fece con tale impegno insieme e con tale splendore, che essendo essi, come dice Plutarco (Vit. Tib. e C. Gracch.), per grandezza di animo a tutti i Romani superiori di assai, sembrava nondimeno che più ancora li superassero nel sapere. In fatti narra Ci- · cerone (De Cl. Orat. n. 27) che i più valorosi maestri della Grecia impiegò ella a tal fine, e singolarmente Diofane di Mitilene, il più eloquente uomo che allor ci vivesse, e che fu poi ucciso insieme con Tiberio Gracco (Plu tarch. 1. c.). Non è perciò maraviglia che i due suoi figli ella mostrasse a una straniera matrona come il più caro e il più pregevole ornamento della sua casa (Valer. Max. 1. 4, c. 4, n. 1). Donna eloquente essa pure e in molte scienze istruita, scrisse più lettere che da Cicerone (loc. cit. n. 58) e da Quintiliano (l. I, c. I) sono sommamente lodate. Parte di una tra esse vedesi in alcune edizioni di Cornelio Nipote tra' frammenti di questo autore. Alcuni però muovono dubbio se essa debba riputarsi legittima (V. Freytag. Specimen Hist. Liter. p. 43 ). Ebbe ella il piacere

IV.

di rimirare i suoi figli divenuti per la loro eloquenza arbitri, per così dire, del popolo româno; ebbe l'onore di una statua che dal popolo nel portico di Metello lè fu innalzata con questa gloriosa iscrizione: Cornelia Gracchorum Matri Plutarch.l.c.e Plin. Histor. l. 34, c. 6). Ma ebbe anche il dolore di vedere i suoi figli l' un dopo l'altro barbaramente uccisi. La qual disgrazia nondimeno sopportò ella con grandezza d'animo maravigliosa. Narra Plutarco che ritiratasi allora presso il promontorio di Miseno vi passò il rimanente de' giorni in compagnia di molti amici cui ella liberalmente albergava; e che molti dalla Grecia venivano di Continuo, altri a trattenersi con essa in eruditi ragionamenti, altri a recarle presenti cui molti re stranieri mossi dalla fama di sue virtù le mandavano; è che le imprese del padre suo non meno che de' suoi figli e le loro vicende raccontava ella senza mostrarhe turbazione di sorta alcuna, per modo che alcuni i quali non bene intendevano di qual grandezza d'animo essa fosse, pensavano che per veemenza di dolore fosse uscita di senno. Questa fortezza d'animo di Cornelia è celebrata cơn somme lodi anche da Seneca, il qual racconta ( Consol. ad Helv. p. 199 edit. Elzevir. e Consol. ad Marc. p. 271) che facendo alcuni con essa amichevoli condoglianze per la crudel morte de' figli, ella gravemente rispose non doversi lei chiamare infelice, che i Gracchi avea avuti per figli. Alcuni moderni autori allegati dal Freytag (l. c. p. 45) hanno scritto che Cornelia à grande e scelto numero di gioventù tenesse in Romà pubblica scuola. Ma di ciò, come osserva lo stesso autore, non vi ha fondamento alcuno.

re dell' e

IV. Molti altri oratori quai più quai meno famosi noCaratte- minä Cicerone, de' quali in poche parole forma il caratteloquenza re, finchè giugne a L. Crasso é a M. Antonio, de' quali semdi L.Cras- bra che finir non sappia di celebrare le lodi; perciocchè egli Antonio. dice di essere persuasó che fosser questi grandissimi orato

so e di M..

ri, e che allora cominciassero i Romani ad uguagliare nell'eloquenza la gloria de' Greci (De Cl. Orat. n. 36). Fioríron essi ne' primi anni di Cicerone, e Antonio fu console l'anno di Roma 654, Crasso l'an. 658. Il carattere che di essi fa Cicerone, come maravigliosamente rileva il lor valore, così grande idea ci porge dell'ingegno di chi seppe si ben conoscerlo e divisarlo. Io qui non posso nè interamen

e recare ciò ch' egli dice delle lor lodi, che troppo a lungo mi condurrebbe, nè ristringerlo in poco senza sminuir molto della gloria dovuta a sì celebri oratori. Leggasi tutto quel passo che certamente è degno di esser letto. Di Crasso e della sua morte seguita poco innanzi al cominciamento della guerra civile tra Mario e Silla parla egli ancor nell'esordio del terzo libro dell' Oratore, che tutto è delle lodi di questo grand' uomo, e dove Cicerone a celebrare l' eloquenza di Crasso dispiega maravigliosamente tutta la sua. Di M. Antonio, oltre ciò che a questo luogo ne ha Cicerone, parla egli ancor lungamente altrove (De Orat. l. 2, n. 45, ec.), e rammenta singolarmente qual maravigliosa forza egli avesse nel commuovere gli affetti; e ne reca in prova ciò ch'egli aveva fatto nella difesa di Aquilio. Ecco per qual modo Cicerone introduce lo stesso Antonio a favellare di questo fatto, il qual passo reco io qui volentieri, perchè e contiene uno de' più necessarj precetti dell'eloquenza, e ne somministra uno de' più rari esempj. E piacemi di recarlo tradotto nel volgar nostro linguaggio secondo la bella e coltissima traduzione che di questi libri ha fatta e pubblicata negli anni addietro il sig. ab. Giuseppe Antonio Cantova, acciocchè quelli a cui essa per avventura non fosse ancor nota, ne abbiano qui un saggio che basterà certamente a farne intendere il pregio a que' che sanno quanto sia malagevole il ben traslatare d'una in altra lingua gli ottimi autori,,.Imperò non ,, vogliate di me pensare che nella causa di M. Aquilio, nella quale io non veniva a narrare le avventure degli

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tichi eroi, nè i favolosi lor travagli rappresentar col mio ,, dire, nè a sostenere un personaggio da scena, ma a parlar in mia propria persona, io potessi far quel ch'ho fatto per assicurare a quel cittadino lo star nella patria, sen,, za sperimentare una viva passion di dolore. Imperocchè al vedermi d'avanti un uomo ch'io mi ricordava essere stato console, un generale d'eserciti, a cui avea il Senato conceduto l'onor di salire al Campidoglio in forma », poco dissimile dal trionfo, al vederlo, dico, abbattuto ,, costernato, afflitto, in rischio di perdere ogni cosa, non ,, prima incominciai a parlare per muover gli altri a com,, passione, ch'io era tutto intenerito. M'accorsi allora veramente della straordinaria commozione de' giudici, quan

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