XXVII. Chi fosse mone, o solare ag doveva l'inventore di quella macchina, o essa fosse un gnómone, o fosse un orologio solare. XXVII. L'altra quistione ch'è più propria del nostro l'artelice argomento, si è chi sia il matematico valoroso a cui la gloria del gno della costruzione di questo o orologio, o gnomone si debba orologio concedere. Le antiche edizioni di Plinio ne davan la lode giuntovi. a un certo Manlio; perciocchè ove nell' edizione del p. Arduino si legge: Ingenio fœcundo mathematici. Apici auratam, ec., nelle antiche leggevasi: Ingenio fœcundo. Manlius mathematicus apici auratam, ec. Il p. Arduino afferma che niuno de' codici manoscritti da lui veduti nomina Manlio; e che tutti hanno quel passo come egli l'ha riferito. Resterebbe dunque incerto chi fosse il matematico da Plinio disegnato. Ma il soprallodato canon. Bandini un'altra lezione ha trovata in due codici antichissimi delle celebri biblioteche di Firenze, la laurenziana e la riccardiana, ne'quali così sta scritto: Digna cognitu res ingenio Facundin. L. mathematicis (così è stampato, forse in vece di mathematici) apici auratam, ec. Ed ecco un Facundino matematico e liberto (perciocchè che la lettera L. cost debba spiegarsi, l'esempio di mille Iscrizioni cel persuade), a cui secondo la lezione di questi codici sembra che una tal lode debbasi attribuire.Confesso però, che non parmi ancor la cosa così accertata che non possa rivocarsi in dubbio. Comunque grande sia l'autorità de' due codici fiorentini, troppo grande è il numero degli altri in cui si legge diversamente. Cosi riflette anche il soprallodato celebre autore delle Disquisizioni Pliniane, il quale pensa che seguir si debba la lezione di varj codici da lui veduti, che hanno Manilius (ib. p. 200, ec.). Onde a me pare che su questo punXXVIII, to ci sia forza il restare tuttora al bujo. ✔introdu Quando XXVIII. La menzione che fatta abbiamo di quest'obeesser in lisco, ci conduce a dire ancor qualche cosa degli orologi soHogli lari, ed a ricercare a qual tempo cominciassero ad essere orologiso lari. usati in Roma. Niuna cosa ci fà meglio conoscere la rozzezza de' Romani ne' primi secoli, quanto ciò che della loro maniera di misurare le ore ci narra Plinio (7. 7, c. 60). N elle leggi delle XII. tavole non facevasi menzione alcuna di ore, come se non se ne avesse idea; e solo vi si nominava il nascere e il tramontare del sole. Alcuni anni dappoi cominciarono i Romani ad avvedersi che eravi anche un XXIX. XXIX. Non posso qui dissimulare gli errori che a questo Errori inluogo ha commessi il Montucla (Hist. des Math. t. 1, p. 407, 408), il quale allega questo medesimo passo di Pli-Montucla torno a ció del XXX. ne delle ore presso stra, nio, ma ne travolge il senso per modo, ch'io non so intendere come uno scrittore si dotto e diligente, quale ei si moabbia potuto in poche linee radunar tanti falli. Plinio reca le due diverse opinioni di Fabio è di Varrone, il primo de' quali attribuisce a Papirio, l'altro a Messala il primo orologio solare; e il Montucla dice che Messala sostitul l örologio preso in Catania a quel di Papirio. Plinio dice che questo poco esatto orologio durò annis undecentum ; e il ; Montucla traduce undici anni. Plinio dice che Q. Márcio censore l'an. 590 ne formò uno più esatto: e il Montucla trásmuta il censore in console, e l'an. 590 nell' an. 275. Plinio finalmente dice che nel prossimo lustro, cioè cinque anni dopo, Scipione Nasica cominciò ad usare gli orologi ad acqua; e il Montucla cambia il lustro in un secolo, dicendo che circa un secolo dopo Scipion Nasica introdusse l'uso di detti orologi. Io rilevo talvolta gli errori e le inesattézze de' moderni scrittori, non già per oscurarne la fama, che anzi io confesso di essermi delle erudite loro fatiche giovato assai, ma per mostrare che a chi vuole esattamente saper di ciò che appartiene agli antichi, troppo è necessario il consultare le stesse opere loro, e non fidarsi ciecamente all' autorità de' moderni i quali, benchè uomini dotti, hanno nondimeno errato non poche volte nel rapportare i lor sentimenti. Ma rimettiamoci in sentiero. XXX. A questa prima introduzione degli orologi solari Dinisio in Roma alluse scherzevolmente Plauto, quando nella commedia intitolata Boeotia, di cui un frammento ci è stato i Romani. conservato da Gellio (l. 3, c. 3), così fa parlare un parasito: Ut illum di perdant, primus qui horas reperit, Quique adeo primus statuit hic solarium, Qui mihi comminuit miseró articulatim diem. Nam me puero uterus hic erat solarium Multo omnium istorum optimum et verissimum Ubi iste monebat esse, nisi cum nihil erat . Nunc etiam quod est, non estur, nisi soli lubet. Itaque adeo jam oppletum est oppidum solarlis ; Major pars populi avidi reptant fame. Nel qual luogo, benchè fingasi che il parasito ragioni in un borgo della Beozia, chiaro è nondimeno che il poeta allude all'uso di Roma, ove è probabile che a somiglianza del pri mo altri orologi solari fosser poi disegnati. Di fatti Plauto دو Scrittori XXXI.,, Agli scrittori di filosofia in questo Capo ricor- XXXI. dati voglionsi aggiugnere quattro scrittori d'agricoltura, che d'agrivissero sulla fine del secol d'Augusto, e che dall' eruditissimo coltura. consiglier Bianconi, di cui diremo più sotto, ci sono stati indicati (Lettere Celsiane p. 160, ec.). Essi sono Caio Giulio Igino bibliotecario d'Augusto, di cui in altri luoghi si (*) Tra gli orologi ch' erano in uso presso gli antichi, merita particolar menzione quello assai ingegnoso che descrivesi da Vitruvio ( 1. 9, c. 9). A me basta il qui accennarlo, perchè non sappiamo se l' invenzion di esso si debba a Vitruvio, o ad altro Romano, o se sia esso pure invenzione di qualche Greco. è detto, e che avea scritto fra le altre cose un trattato delle Api e degli Alveari, Giulio Attico amico di Ovidio, e molto lodato da Columella, il quale due libri avea pubblicati sulla coltura delle Viti, Pomponio Grecino, che un altro tráttato avea scritto sullo stesso argomento, e Celso scrittore egli pure di agricoltura, il quale a giudizio del detto autore non dee distinguersi dallo scrittore di medicina CAPO V. Medicina. 1. Plinio che 1. Dello studio di quest'arte nulla abbiam detto finora, In qual senso si perchè nell'epoche precedenti assai poca materia ci avrebbe dica da esso somministrato a ragionarne. A questo luogo dunque niuno tra'uniremo tutto ciò che ad esso appartiene; e noi potremmo Romani spedircene facilmente col sol recare ciò che Plinio il vecfinallora chio ne narra. Ma varie contese che su diversi passi di quescritto in-sto autore si son risvegliate, ci obbligheranno a trattenerci medicina. Su questo argomento più a lungo che forse a prima vista Avea torno alla non parrebbe doversi. Veggiam pertanto ciò che Plinio ne dice, ove espressamente prende a trattar di quest'arte. Egli in primo luogo afferma che niun tra'Romani avea ancor sulla medicina latinamente scritto: Natura remediorum atque multitudo instantium ac præceptorum plura de ipsa medendi arte cogunt dicere, quamquam non ignarus sim, nullius ante hæc latino sermone condita (l. 29, c. 1). Se queste parole in tal senso si vogliano intendere, che niun tra' Romani avesse ancora scritto trattato alcuno delle malattie e de'loro rimedj, converrà dire che Plinio, quando scrisse così, avesse in tutto dimenticato ciò che non molto innanzi avea scritto, tessendo la serie di que' Romani che avean trattato di questo argomento. Dic' egli altrove (7. 25. c. 1) che il primo a trattare de'mali e de' loro rimedj presi singolarmente dall' erbe fu Marco Catone il vecchio , e che questi per lungo tempo fu il solo scrittore in tal materia; che poscia Caio Valgio uomo erudito un libro, benchè imperfetto, presentò ad Augusto di somigliante argomento; e che Pompeo Leneo liberto di Pompeo il grande, prima di Valgio, avea per comando dello stesso |