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XIV.

la lor fab

Inde timore pari gradibus sublimia celsis
Ducor ad intonsi candida templa dei;
Signa peregrinis ubi sunt alterna columnis,
Belides, et stricto barbarus ense paters
Quæque viri docto veteres fecere novique
Pectore, lecturis inspicienda patent.
Quærebam fratres, exceptis scilicet illis,
Quos suus optaret non genuisse pater.
Quærentem frustra custos e sedibus illis

Præpositus sancto jussit abire loco.

al

Il libro infelice così bruscamente cacciato si volge all'altra
biblioteca, la prima pubblica, dice, che fosse aperta in Ro-
ma nell' atrio della Libertà; ma questo luogo, aggiugne,
la Libertà consecrato non era luogo per me; nè la dea per-
mise pure ch' io mi çi accostassi. In tal maniera, egli dice,
i figliuoli portan la pena della colpa del padre loro. E final-
mente conchiude pregando che, poichè le pubbliche biblio-
teche per lui son chiuse, gli sia lecito almeno ricoverarsi
nelle private:

Altera templa peto vicino juncta theatro :
Hæc quoque erant pedibus non adeunda meis
Nec me, quæ doctis patuerunt prima libellis,
Atria, Libertas tangere passa sua est
In genus auctoris miseri fortuna redundat;
Et patimur nati, quam tulit ipse, fugam.

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Interea quoniam statio mihi publica clausa est,
Privato liceat delituisse loco.

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XIV. Queste private e pubbliche biblioteche che con loLeggi per devole emulazione formavansi da molti in Roma, diedero brica pre-per avventura occasione al celebre architetto Vitruvio di stritte da farne menzione ne' suoi libri d'architettura, e di prescrivere

Vitruvio.

in qual modo e con quali avvertenze esse debbano fabbricarsi. Spero che farò cosa non ingrata a chi legge col recar qui le parole di questo autore, senza però impegnarmi a sostenere la verità della sua opinione: Bibliothecæ, dice egli (l. 6, c. 7), in orientem spectare debent: usus enim matutinum postulat lumen. Item in bibliothecis (cioè quando volgono all'oriente) libri non putrescent; namque in his, quæ ad meridiem et occidentem spectant,

tineis et humore vitiantur, quod venti humidi advenientes procreant eas et alunt, infundentesque humidos spiritus pallore volumina corrumpunt. Anzi Vi, truvio parla in maniera che sembra che quasi comune fosse allora ai grandi il formare ne' lor palagi, o accanto ad essi una copiosa biblioteca, perciocchè egli così aggiugne non molto dopo (ib.c.8): Nobilibus qui honores magistra tusque gerendo præstare debent officia civibus, facienda sunt vestibula regalia, alta atria, et peristy lia amplissima, silvæ ambulationesque laxiores ad decorem majestatis perfectæ. Præterea bibliothecas, pinacothecas, basilicas non dissimili modo quam publicorum operum magnificentia comparatas,quod in domibus eorum sæpius et publica consilia et privata judicia arbitrio conficiuntur.

Nomi di

di questi

XV. A raccogliere, ad ordinare e a custodire le pubbli- XV che biblioteche scelse Augusto de' più dotti uomini che fos- alcuni bisero allora in Roma. Tre ne veggiam nominati presso Sve-bliotecari tonio. Il primo è Pompeo Macro, a cui secondo il detto au- tempi. tore (in Jul. c. 56) una breve lettera scrisse Augusto vietandogli il render pubblici alcuni libri da Giulio Cesare in erà giovanile composti: In epistola, quam brevem admodum ac simplicem ad Pompejum Macrum, cui ordinandas bibliothecas delegaverat (Augustus), misit Il secondo è Caio Giulio Igino liberto d' Augusto, uomo nelle antichità versatissimo, di cui pur dice Svetonio che fu prefetto della palatina biblioteca (De Ill. Grammat. c. 20). E per ultimo Caio Melisso gramatico carissimo a Mẹcenate e ad Augusto che gli diede la libertà, e gli commise la cura di ordinare le biblioteche del portico di Ottavia : Quo (Augusto) delegante curam ordinandarum bibliothe carum in Octavia particu suscepit (ib. c. 21). Di un altro ancora noi veggiamo fatta menzione in una iscrizione riportata dal Muratori (Nov. Thesaur. Inscr. t. 2. p. 929). Questi è L. Vibius Aug. Servus Pamphilus Scriba Lib. et a bibliotheca latina Apollinis; nella quale isorizione, che quelle parole Augusti Servus appartengano veramente ad Ottaviano Augusto, chiaro è dalle altre parole della stessa iscrizione ch'è sepolcrale, e fatta dal mentovato Vibio alla sua moglie Vibia Successæ Liviæ Aug. Ser

XVI.

Brano co

mune

væ. Nell'iscrizione di un' altra liberta di Livia moglie d'Augusto, detta Bira Canaciana, si nomina T. Claudius Alcibiades Mag. a bibliotheca latina Apollinis, item Scriba ab Epistolis Latinis (ib. p. 923.) Cosi pure in due altre iscrizioni dal medesimo riferite veggiam nominati C. Julius C. L. Phronimus a bibliotheca græca (ib. p. 927), e Axius a biblioth. græca (ib. p. 929), benchè a qual tempo essi appartenessero, non si possa precisamente determinare.

XVI. Da questi passi e da queste iscrizioni che qui abbiamo recato, raccogliesi chiaramente che i soprastanti alle mente li- biblioteche in Roma erano comunemente stranieri e schiaberti, o schiavi. Vi, o liberti. Perciocchè, trattone Varrone che certo era di ragguardevole nascita, e Pompeo Macro di cui non sappiamo la condizione, tutti gli altri son chiamati servi, o liberti. Quindi quella gloriosa asserzion del Morofio (Polyhistor. t. 1, l. 1, c. 6): Bibliothecariorum amplissima olim dignitas fuit, benchè io debba desiderare che sia vera, debbo confessar nondimeno che per riguardo a'Romani non si può ammettere generalmente. Uomini dotti si certo eran quelli che alla custodia delle biblioteche si destinavano; ma erano per lo più grammatici, i quali, come già si è veduto, erano comunemente liberti, o schiavi. E pare in fatti che i Romani si dilettassero bensì degli studj, quanto apparteneva a coltivar quelle scienze che più loro erano in grado; ma che tuttociò in che alla erudizion congiugnevasi la fatica di istruire, e d'insegnare a' fanciulli, di ordinar biblioteche, o altre cose somiglianti, fosse da essi stimata cosa men degna della gravità di un cittadino romano. Questa osservazione fu fatta ancora dall' erudito Pignoria: Apud imperatores erant non pauci (servi ), quibus hoc munus incumberet, cum hæc ordinandarum et publicandarum bibliothecarum cura

omnino videretur imperii majestatem decere (De Servis p. 109).

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I. Questo che abbiam finora descritto, era il lieto e fio

fossero in

mati i

rentissimo stato in cui trovavasi la romana letteratura a' tem- Quanto pi di Cesare e di Augusto; ed io non so se troverassi al- Roma stitro secolo che un si gran numero d' uomini, quali in una, Greci eruquali in altra, e molti in molte scienze eccellenti, possa diti. vantare, e tutti in una sola città insieme raccolti. L'onore in cui erano in Roma le scienze e gli uomini dotti non solo fece sempre più ardente l'impegno di coltivare gli studj, ma vi trasse ancora molti de' più eruditi tra' Greci; che voLentieri accorrono gli uomini, ove possono fondatamente sperare e stima e premio del lor sapere. Già si è rammentato ciò cha a favor de'filosofi e de' letterati d'ogni maniera fecero Lucullo, Cesare, Cicerone, Augusto, Mecenate ed altri. Il gran Pompeo parimente in ogni occasione dava a vedere in quanto pregio egli avesse gli uomini dotti; e ben mostrollo singolarmente, quando venuto a Rodi di niun'altra cosa fu più sollecito che di andare a trovare il celebre filosofo Possidonio, al quale allora infermo rese i più solenni onori; e volle udire le dispute de' piu famosi filosofi che ivi erano, a ciaschedun de'quali ancora donò un talento (Cic. Tusc. Quæst. l. 2, n. 25; Plut. in ejus Vita). Somigliante prova di sua stima verso i filosofi diede Augusto, quando impadronitosi d'Alessandria onorò il filosofo Areo de' più distinti contrassegni di amicizia, e di confidenza, e a'cittadini disse pubblicamente che un de' motivi per cui egli si conduceva ad accordar loro il perdono, si era il desiderio di far piacere al suo amico Areo (Plut. in Antonio). Nè minore stima mostrò egli verso il filosofo Niccolò damasceno nel breve tempo in cui questo soggiornò in Roma (V. Mém de l'Acad. des Inscr.).

mero di

II. Non è dunque a stupire che molti Greci che per II. lo studio delle belle arti eran nella lor patria famosi, l'ab- Gran nubandonasero per venire a Roma, certi che la lor dottrina essi, che avrebbe e ad essi ed agli altri recato non ordinario van- perciò vi taggio. De' filosofi greci ch'erano in Roma, molto si è già detto di sopra. Alcuni greci retori ancora abbiam no

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concorre.

minato parlando de' giovanili sudj di Cicerone e di altri Romani che alle loro scuole recavansi avidamente; nè giova qui il ripetere ciò che già su questo argomento si è detto. Mi basterà dunque il rammentare a questo luogo alcuni altri celebri Greci che allettati dall' onore in cui erano in Roma gli uomini dotti, vennero a fissarvi almeno per qualche tempo la lor dimora. Diodoro Siciliano, di cui abbiamo parlato trattando degli studj degli antichi Siciliani, vuole tra' primi essere annoverato, poichè si è allora mostrato in qual pregio si debba avere la Storia da lui scritta. Or questi, dopo avere per molti anni viaggiato pe' diversi paesi la cui storia dovea narrare, fermossi ancora per lungo tempo in Roma, come egli stesso racconta (in præfat.), parte, per quanto si può raccogliere, ai tempi di Cesare, parte a' tempi d'Augusto. Dionigi Alicarnasseo ancora celebre non meno per la bella sua Storia Romana, che per altre opere critiche ed erudite che di lui ci sono in parte rimaste, visse egli pure per ventidue anni in Roma a' tempi d'Augusto (V. Photii Biblioth. n. 83), ed ivi scrisse la suddetta Storia. Ebbevi innoltre un Timagene scrittor di storie, caro prima ad Augusto di cui avea scritte le geste, poscia venutoli in odio per la soverchia libertà del suo favellare, e ciò non ostante protetto ed amato da Asinio Pollione, di cui parlano Seneca il filosofo (De Ira l. 3, c. 23, ed ep. 91) e il retore (Controv. 34), e un Eliodoro retore detto da Orazio il più dotto tra' Greci (Satyr. l. 1, sat. 5). Ma se tutti gli storici e gli altri scrittori greci che a questi tempi furono in Roma, e le cui opere son perite, io volessi qui annoverare, ella sarebbe cosa di non breve lavoro, e aliena ancora dal mio argomento; che degli eruditi stranieri che vi fecer dimora, debbo parlare sol quanto basta ad intendere il fiorente stato in cui era allora la romana letteratura. Il poco che qui ne abbiamo accennato, e le molte cose che abbiamo sparsamente qua e là toccate parlando de'filosofi, degli oratori, dei medici, de' gramatici, e degli eruditi di qualunque altra maniera di cui a quel tempo abbondò Roma, ci fa conoscere abbastanza ch'era essa allora il centro di tutta la letteratura; che quanti vi erano in qualunque ancor lontano paese uomini dotti, vi fissavano volentieri la lor dimora; e che i Romani deposta finalmente quella

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