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doversi arrendere si facilmente. I Persiani, egli dice, gli
Arabi, ed altri antichissimi popoli ebbero in pregio i cavalli
e gli altri armenti, anzi de' Numidi e de' Persiani noi sappiamo
che un cotal canto pastorale avevano, di cui nell' atto di con-
durre al pascolo i loro armenti solevano usare. Io non negherò
già ciò che questo dottissimo scrittore afferma; ma non te-
merò ancora di dire che parmi che a questo luogo, e altrove
ancora, ei non distingua abbastanza due cose; e quindi qualche
genere di poesia faccia più antico di assai che non è vera-
mente. Altra cosa è, per quanto a me ne pare, un qualun-
que canto che non consista in altro che in modulare a varie
note la voce, e che colla gravità, coll' armonia, colla dol-
cezza coll' impeto delle note medesime i varj affetti
esprima, da cui taluno è compreso; altra cosa è un canto
che alla modulazion della voce congiunga ancora il lega-
mento delle parole, le quali a un determinato numero di
sillabe e a una determinata quantità sieno necessariamente
legate. Il primo sarà canto, eppur non sarà poesia;
il qual
nome al secondo genere di canto si dà solamente. Altri-
menti, se non vi ha canto senza poesia, converrà dare il
nome di poesia anche al Simbolo Niceno, e al Cantico che
dicesi degli Angeli, e a que' così mal essuti mottetti che si
odon pure cantare con sì amabile e varia armonia. Conce-
deremo dunque all' ab. Quadrio che il canto pastorale fosse
fin da' più antichi tempi tra gli uomini usato; ma il neghe-
remo della pastoral poesia, finchè egli più certo argomento
non ne produca.

III.

Chi ne

fosse il

III. Qualunque fosse l'origine di questo genere di poesia, di che diverse son le sentenze de' diversi scrittori, pressochè tutti convengono, come di sopra accennammo, aver esso primo ins avuto cominciamento in Sicilia. Veggansi le Memorie dell' ventore. Accademia delle Iscrizioni (t. 5, p. 85), ove con molta autorità una tal gloria confermasi a' Siciliani, e non della poesia solamente, ma de' pastorali strumenti ancora, che il canto poetico accompagnano, si attribuisce lor l'invenzione. Vedesi ivi ancora (t. 6, p. 459) un' erudita dissertazione di m. Hardion, in cui diligentemente ricerca ciò che al pastor Dafni appartiene, il quale da molti l'auper torità di Diodoro Siculo ne vien creduto il primo autore. Ad altri nondimeno è sembrato che troppo sappia di favola

IV.

di Stesi

ciò che intorno a Dafni ne racconta Diodoro, e vogliono anzi che Stesicoro fosse il primo ad usarne. Fu egli d'Imera in Sicilia. Vi ha chi il dice figliuol d' Esiodo. Osserva il Quadrio (t. 2, p. 49) che non par, che ciò si convenga a' tempi in cui questi due poeti fiorirono. Al contrario Enrico Dodwello (De Cyclis Græc. et Rom. Diss. 5, p. 270) sostiene, accordarsi ciò pienamente colla più esatta cronologia. Ma Suida chiaramente mostra (Lexic. ad voc. Etnoixopos) quanto sia incerto chi egli avesse a padre, poichè fin a cinque egli ne nomina, de' quali da diversi autóri era detto figliuolo. Nacque, secondo lo stesso Suida nell' Olimpiade XXXVII, e mori nella LVI. Altri gli assegnano diversa età: ma in sì gran lontananza di tempi, e in si grande scarsezza di autori antichi, nulla si può affermar

con certezza.

IV. Che egli scrivesse poesie pastorali, ne fa fede Eliano Notizie che nomina i Carmi Buccolici da lui composti (Varior. coro e del- l. 10, c. 18). Quindi non essendovi memoria di più antico le sue poe- autore che in tal genere di poesie si esercitasse, egli n'è

sie.

creduto a ragione il primo inventore. Ma non fu sola la pastoral poesia ch' ei coltivasse. Ventisei libri di versi da lui scritti rammenta Suida (loc. cit.), e il diligente Fabricio i titoli e gli argomenti di molti tra essi dagli antichi autori ha raccolti (Bibl. Græc. t. 1, p. 596, ec.). La poesia lirica singolarmente fu da lui condotta a maggior perfezione. Egli fu il primo che in essa introdusse quella triplice divisione che strofe, antistrofe ed epodo si appella; e quindi queste tre parti venivano con proverbio greco chiamate le tre cose di Stesicoro, tria Stesichori, come osserva Suida (Lex ad voc. Tria Stesichori); e quando volevasi denotare un uom rozzo e ignorante al sommo dicevasi che nemmen sapeva egli le tre cose di Stesicoro. Da questo nuovo ordine nella lirica poesia introdotto a lui viene il nome di Stesicoro, cioè di fermatore del coro, mentre prima egli era chiamato Tisia, come Suida stesso e dopo lui il Quadrio affermano. In quanta stima egli fosse presso de' suoi e de' posteri tutti. chiaro argomento ne sono la bella statua che in Imera gli venne innalzata, di cui fa menzione Tullio (1.2 in Verr. n. 35), il magn.co mausoleo che dicevasi, al riferir di

Suida (lex. ad voc. Пavta oxta), essergli stato eretto in
Catania, formato di otto colonne, e sopra otto scaglioni
innalzato, e le lodi che a lui vengono date dallo stesso
Tullio, da Orazio (1. 4, od. 9), e da Quintiliano (7. 10
c. 10), ma singolarmente da Dionigi Alicarnasseo, il qual
non teme di antiporlo ancora a Pindaro e a Simonide.
Vide etiam, dic' egli (De Priscis Scriptor. Censura
c. 2), Stesichorum in utriusque virtutibus eorum,
quos enumeravimus (cioè Simonide e Pindaro), flo-
rentem,quin etiam iis quibus illi carent, præditum,
rerum, inquam, quas tractandas sumpsit, ampli-
tudine, in quibus morum et dignitatis personarum
rationem habuit.

Frequente

ვი si fa

buite a

V. Se le lettere che sotto il nome di Falaride sono V. state più volte stampate, si dovessero credere legittime e menzione scritte veramente da questo celebre tiranno di Agrigento, che di essarebbero esse una nuova e gloriosa testimonianza del valor nelle letdi Stesicoro. Molte ve ne ha tra esse che o scritte sono tere attri a Stesorico, o di lui fanno menzione; e in tutte veggiamo Falaride. in quanto grande stima lo avesse Falaride, benchè avesse in lui trovato un implacabil nemico, e un invincibile ostacolo a' tirannici suoi disegni. Ma troppo dubbiosa è la fede di tali lettere; e poichè questo è un punto che alla letteratura italiana propriamente appartiene, piacemi riferir qui alcuna cosa della controversia intorno ad esse sorta in Inghilterra verso la fine del passato secolo; tanto più che troppo rari essendo in Italia i libri per essa usciti, ed inoltre essendo essi per lo più scritti in lingua inglese, non è si agevole l'averli, e il giudicarne.

VI.

le lettere

VI. Erano già stati varj i pareri degli uomini eruditi Contesa intorno a queste lettere, che da alcuni riputate eran legitti- tra gli eme, supposte da altri, di che puossi vedere Gianalberto ruditi sul Fabricio (Bibl. Græc. t. 1, p. 407). Ma l'anno 1695 stasse. una nuova edizione di queste lettere fece Carlo Boyle inglese in Oxford col testo greco a rincontro della traduzione latina, di cui fu fatta menzione negli Atti di Lipsia (1696, p. 101). Riccardo Bentley, a cui parve di essere stato nella prefazione del Boyle punto alquanto, scrisse una dissertazione in lingua inglese, in cui prese a mostrare supposte esser le lettere che sotto il nome di Falaride avea

il Boyle pubblicate; la qual dissertazione venne a luce nel 1697 appiè della seconda edizione delle Osservazioni sulla letteratura degli antichi e de' moderni di Enrrico Worton. Se ne ha l'estratto nella Storia delle opere de' dotti di m. Basnage de Beauval ( t. 14, p.167). Replicò prontameute il Boyle al suo avversario nel 1698, e, come osserva Jacopo Bernard (Nouvell. de la Répub. des. Lettres 1699 p. 658), non tenne misura alcuna ma lasciossi trasportare alle ingiurie e a' motteggi e ad altre somiglianti maniere che ad uomini dotti troppo mal si convengono. Non tacque il Bentley, e l'anno 1699 fece una nuova edizione della prima sua dissertazione, ma più stesa di assai, per rispondere alle obiezioni che fatte aveva il Boyle. Di questa dissertazione si posson vedere gli estratti negli Atti di Lipsia (Suppl. t. 4, p. 481), nelle Novelle della Repubblica delle lettere del Bernard (loc. cit. p. 659), e nella Biblioteca scelta di Giovanni le Clerc (t. 10, an. 1706, p. 81). Molti altri libri e tutti in inglese uscirono su questo argomento, i cui titoli dal Fabricio sono stati raccolti. (Bibl. Græc. t. 1, 408). Anche Enrico Dodwello ebbe parte a questa contesa. Pubblicò egli nel 1704 due latine dissertazioni, una sull' età di Falaride, e l'altra sull' età di Pittagora, nelle quali, benchè non prendesse a sostener direttamente la legittimità di tai lettere, prese nondimeno a sciogliere una delle principali difficoltà che contro di esse avea mosso il Bentley. Perciocchè avendo questi mostrato che non era Falaride vissuto in tempo a poter conoscer Pittagora, quando già era celebre pel suo sapere, avea quindi preteso esser supposte le lettere a Falaride attribuite, nelle quali ne ragiona sovente come d'uomo famoso già ed illustre. Ma il Dodwello sostiene non essere ciò punto inverisimile, e la cronologia della Vita di Pittagora e di Falaride ordina per tal maniera, che possono l'uno e l'altro essere lungamente vissuti al tempo medesimo. Oltre di che avea già il Dodwello dichiarato in certa maniera il parer suo, citando nella sua Opera de Veteribus Græcorum Romanorumque Cyclis (Dissert. 5, p. 250) le lettere di Falaride senza accennar dubbio alcuno della lor supposizione. Di queste dissertazioni parlasi nel Giornale degli Eruditi di Parigi (an. 1706, p. 334). Dopo queste dissertazioni pare che di Falaride più non

si parlasse. La contesa si volse alla cronologia della Vita di Pittagora, che non appartiene a questo luogo, e di cui altrove accennammo qualche cosa.

che esse

VII. Le ragioni dal Bentley arrecate a mostrare la suppo- VII. sizione di tali lettere riduconsi a quattro classi. Prende egli le Si prova prime dalla cronologia, mostrando, come dicemmo di sopra, sono supche Pittagora non potè vivere a quel tempo a cui converrebbe poste. che fosse vissuto, se vere fossero tali lettere, e che veggonsi in esse nominate le città di Phintia e di Alesa, che al tempo di Falaride non erano ancor fabbricate. Dalla lingua in cui le lettere sono scritte, prende il Bentley la seconda difficoltà: esse sono scritte nel dialetto attico, mentre nella Sicilia usavasi il dorico; e questo attico dialetto medesimo non è già l'antico, ma il moderno, che a' tempi di Falaride non era ancora in uso; e tre parole singolarmente vis' incontrano, che sono di conio, per così dire, assai posteriore. Il terzo genere di difficoltà è preso da' sentimenti e da' pensieri che nelle lettere si veggono espressi, i quali certo non sembrano adattati a un tiranno. Il quarto finalmente dal silenzio degli antichi autori; poichè i soli, da' quali se ne faccia menzione, sono Stobeo, Suida, Tzetze, Fozio (il quale innoltre mostra (epist. 207) di non esser troppo persuaso della loro legittimità), Nonno ne' Comenti su s. Gregorio Nazianzeno, e lo Scoliaste di Aristofane, scrittori tutti troppo recenti, perchè la loro autorità su questo punto debbasi avere in gran pregio. A tutte queste ragioni hanno controrisposto il Boyle e il Dodwello. E quai ragioni vi sono in fatti, a cui non si possa rispondere? Si è ella veduta mai una letteraria contesa che dopo essere stata lungamente e caldamente agitata, abbia finalmente avuto termine col confessarsi da alcuna delle due parti l' errore in cui era stata? Il più leggiadro si è che in tali controversie l'oggetto stesso talvolta fa negli occhi e nell' animo de' diversi partiti impressioni al tutto diverse. Basta dare un' occhiata, dice il Boyle co' suoi seguaci, alle lettere di Falaride per conoscer che esse furono veramente da lui medesimo scritte. Convien essere, dice un d'essi (Biblioth. Britanni,, que t. 12, p. 385 ) poco esperto nell'arte di dipingere per ,, non considerar queste lettere come originali; vi si trova una si gran libertà di sì si grande ardire nella espressione, si grande stima pel sapere e pel merito, si fiero

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pensare,

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