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quella, con ammirazione conosciuta e stimata. Fece Mattia re d'Ungheria molti segni dell'amore gli portava. Il Soldano con i suoi oratori e suoi doni lo visitò e presentò. Il gran Turco gli pose nelle mani Bernardo Bandini del suo fratello ucciditore. Le quali cose lo facevano tenere in Italia mirabile. La quale riputazione ciascuno giorno per la prudenza sua cresceva, perchè era nel discorrere le cose eloquente ed arguto, nel risolvere savio, nell'eseguirle presto ed animoso. Nè di quello si possono addurre vizj che maculassero tante sue virtù, ancora che fusse nelle cose veneree maravigliosamente involto, e che si dilettasse d'uomini faceti e mordaci, e di giuochi puerili, più che a tanto uomo non pareva si convenisse; in modo che molte volte fu visto intra i suoi figliuoli e figliuole tra i loro trastulli mescolarsi. Tanto che a considerare in quello e la vita leggiera e la grave, si vedeva in lui essere due persone diverse quasi con impossibile congiunzione congiunte. Visse negli ultimi tempi pieno d'affanni, causati dalla malattia che lo teneva maravigliosamente afflitto; perchè era da intollerabili doglie di stomaco oppresso, le quali tanto lo strinsero, che di aprile nel mille quattrocento novantadue mo

rì, l'anno quarantaquattro della sua età. Nè mori mai alcuno non solamente in Firenze, ma in Italia, con tanta fama di prudenza, nè che tanto alla sua patria dolesse. E come dalla sua morte ne dovesse nascere grandissime rovine, ne mostrò il cielo molti evidentissimi segni; intra i quali l'altissima sommità del tempio di Santa Reparata fu da un fulmine con tanta furia percossa, che gran parte di quel pinnacolo rovinò con stupore e maraviglia di ciascuno. Dolsonsi adunque della sua morte tutti i suoi cittadini e tutti i principi d'Italia; di che ne fecero manifesti segni, perchè non ne rimase alcuno, che Firenze per i suoi oratori il dolore preso di tanto caso non significasse. Ma se quelli avessero occasione giusta di dolersi, lo dimostrò poco dipoi l'effetto; perchè, restata Italia priva del consiglio suo, non si trovò modo per quelli che rimasero, nè d'empiere, nè di frenare l'ambizione di Lodovico Sforza governatore del duca di Milano. Per la qual cosa, subito morto Lorenzo, cominciarono a nascere quelli cattivi semi, i quali non dopo molto tempo (non sendo vivo chi gli sapesse spegnere) rovinarono, ed ancora rovinano l'Italia.

FINISCONO LE ISTORIE

FRAMMENTI ISTORICI

Papa Alessandro volle che Alfonso desse ad un suo figliuolo la sua figliuola [AN. 1494], e non volendo il re, se ne sdegnò, donde che Alessandro scrisse al re di Francia come egli venisse alla ricuperazione del regno di Napoli; donde che Carlo, se prima vi pensava, cominciò ad averne voglia. A questo si aggiunse che il signor Lodovico governava lo stato di Milano come principe, non come governatore; perchè essendo Giovan Galeazzo già adulto, non che pensasse restituirgli il governo, pensava di ristrignerlo, e si aveva tirato appresso ogni autorità; il che dispiaceva ad Alfonso padre d'Ippolita, moglie di Giovan Galeazzo. Ma Fernando suo padre lo sbigottiva di ogni cosa che volesse tentare, perchè temeva che non movesse Francia; per fermare l'animo di Lodovico aveva pensato in persona andare a Genova, e rimettersi nelle sue mani, e giustificarlo, e fare il divorzio con Giovan Galeazzo, con dare quella fanciulla a Lodovico; il che non potette prontamente eseguire; onde che Alfonso, come più caldo e meno prudente, cominciò a tenere pratiche contro di lui. Fu chi credette, non l'amore della figliuola, nè l'odio di Lodovico movesse Alfonso, ma una ambizione di occupare quello stato di Lombardia, come suo ereditario, già lasciato da Filippo Visconti (non avendo figliuoli maschi) ad Alfonso suo avolo, perchè dai Viniziani, che dopo la morte di quello vi aspiravano, lo difendesse. Fece la prima cosa accordo con i Fiorentini, come per unirsi per bene della città, ma in fatto per rimuoverli dalla amicizia di Lodovico; e Piero non se ne consiglio con gli amici vecchi, ma con gente nuova, tanto che si fece lega con Alfonso; e papa Alessandro si rimutò e si aggiunse alla lega di costoro, e si accozzarono insieme a Vicovaro; la qual convenzione destò il Moro, il quale mandò suoi oratori a Firenze a Piero a ricordargli l'amicizia vecchia, ed ammonirlo del futuro. Piero rispose sue favole, e

che voleva stare di mezzo, e essere intatto da tanti mali che si apparecchiavano. Udite queste cose il Moro, e veggendo che l'erano finte, deliberò di fare ogni cosa perchè il re passasse. Stette in dubbio perchè si vedeva in Italia un nimico implacabile, in Francia un amico poco fedele, perchè sapeva che il re non poteva passare con poco esercito, e passato che fosse, vedeva avere posto seco gli altri Italiani in una servitù; pure, voltosi alla passata, mandò oratori in Francia con danari, e con commissione che facessero ogni sforzo che il re passasse. Il re intesa dal Moro la legazione, la propose nel suo consiglio, e Jacopo Granville ammiraglio fu principe a sconsigliarlo; e gli altri pensando più alla preda che al male che ne poteva loro risultare, confortavano la impresa, tanto che si deliberò la impresa, e pensò di comporsi con i vicini, con i quali aveva due inimicizie, l'una con l'imperadore, e l'altra col re di Spagna: con l'imperadore compose le cose mediante il Moro, e con il re con dar Perpignano. Ordinò una armata a Marsilia: mandò oratori per Italia a tentare i popoli, e speculare i siti delle province. La commissione era che il re, non per ambizione moveva guerra, ma per riavere il suo regno chiedeva aiuto, o almeno il passo libero dal papa e dai Fiorentini. Fu risposto che non potevano rompere la fede a Napoli; i Viniziani dissono non potere rispetto al Turco, nimico vecchio, e per questo consigliavano il re di Francia a desistere dalla impresa, acciocchè il re non mettesse il Turco in Italia; pure se gli piaceva far guerra, che si starebbono di mezzo. Mentre che queste legazioni cicalavano, deliberò Alfonso rivoltare Genova e torla a Lodovico, e fece un'armata di trenta galee e altrettante navi, e sotto Federigo suo fratello le mandò a Livorno, sopra le quali era messer Obicetto dal Fiesco e messer Paolo Fregoso, i quali erano dagli Adorni, che reggevano Genova per il duca, stati privi dello

stato, e con questi sollecitavano; e dall'altra parte i Genovesi con i favori del duca feciono una grossa armata a Genova, e Carlo vi mandò il duca d'Orliens con Svizzeri a difenderla. Andorno per pigliare il castello di Rapalle, dove sforzati dai nimici Genovesi furono rotti. Dopo questa vittoria il Moro scrisse a Piero, richiedendolo che fosse mezzano alla pace. Piero gli rispose bene e fece male, perchè ogni cosa comunicò con Alfonso; e di più, per far venire il Moro in disgrazia di Carlo, ordinò che l'oratore suo venisse in camera a vederlo come malato, e nascose quello di Francia in un luogo segreto della camera, e gli fe' leggere la lettera del Moro; la qual cosa più presto accelerò la venuta del re, perchè il Moro, disperatosi dello accordo, lo sollecilava con maggior tempesta; il che fece che Alfonso si rinchiuse per il dolore, tale che nacque fama che egli era impazzato. Ma riavuti gli spiriti, deliberò farsi incontro alla fortuna, e mandare l'esercito suo con Fernando suo figliuolo alla volta di Lombardia, sotto nome dell'imperadore, sperando di torre lo stato a Lodovico, sapendo come egli era odiato per le cagioni, ec. Il Moro fece venire con gente monsignore d'Ubigny armala gravissima a Nizza, a Marsiglia, a Genova. Il re venne a Lione per fare favore ed ordinare in modo che fu prima d'Ubigny in Romagna, che Fernando, il quale accelerato il viaggio venne a Ravenna propinquo al campo d'Ubigny, dove si dondolarono un pezzo, non avendo Fernando autorità di appiccare la zuffa. Intanto il re si parti da Lione per venire in Lombardia, e camminando nacque un romore nell'esercito, che il Moro li tradiva, e fu tanto, che i principi furono per voltarsi indietro, e il re ancora cominciò a dubitare. Ma ogni cosa fu ferma da S. Piero in vincula con il cicalare che fece, tanto che il re disse: Andiamo adunque dove ci chiama la gloria della guerra, la discordia dei popoli e gli aiuti degli amici. Seguendo il cammino per l'Alpe di Ginevra passò in Italia ed arrivò in Asti, terra stata lungamente de' Francesi. Venne a Ticino dove era ammalato Giovan Galeazzo che era duca, e dove poco dipoi mori, ed il re lo andò a visitare, e fu opinione che morisse di veleno come un cane; e per levare la suspicione, fu contento Lodovico che vi andasse. Penso Carlo se doveva andare per la Romagna

o per la Toscana: da ogni parte era che dire; pure deliberò andarne per Toscana per i conforti del Moro. Queste nuove venute a Firenze sbigottirono la città. Piero privo di consiglio deliberò di andare incontro al re, e fattosi fare ambasciadore se ne andò a Serezana, c dipoi se ne andò al re, e avendolo trovato in cammino, se gli pose ginocchione innanzi escusandosi, ed in fine offerendogli sè e la città. La somma delle cose fu, che il re volse gli ponesse in mano le fortezze, e gli desse gran somma di danari. Piero scrisse questo ai magistrati, dipoi ne andò a Firenze, intendendo come quivi era per nascere tumulto, c per tenerla in fede. A Firenze s'intese con dispiacere la cosa, in modo che mandarono oratori al re che vedessono che la repubblica non capitasse male, e del resto si rimettessono nel re. Piero intanto comparse, e già per tutti i cerchi si diceva che la città era tradita e venduta da lui, e massime che gli aveva condotto con le sue genti a Firenze Paolo Orsini; per la qual cosa la sua tornata non fu grata ad alcuno e odiosa a molti, tanto che già ciascuno voltossi a repetere la libertà; ed essendo ito in palazzo e ributtato, se ne tornò a casa, e privo di consiglio, tentando ora la forza, ora la grazia, nè confidando in alcuno, se ne fuggi con tutti i suoi a Bologna. La qual cosa fu avendo intesa Fernando, che era con lo esercito a Cesena, vedendosi mancati sotto i Fiorentini, che già avevano ricevuto il re, se ne andò a Roma, dove con Alessandro conven. nono di difendere Roma. Piero stette pochi di a Bologna, chè lasciati quivi i suoi, se ne andò a Vinegia; ma a Firenze andava sottosopra ogni cosa.

A Pienza, città di Siena vicina a Montepulciano a sei miglia, abitava un messer Andrea Piccolomini, nipote di papa Pio, quasi la maggior parte dell'anno, il quale teneva buona amicizia con molti di Montepulciano, tra'quali fu un Francesco di Michelagnolo Paganucci, che spesso andava allora a Siena per la infermità di un suo fratello messer Bartolommeo Paganucci. Ed in quel medesimo tempo fu eletto potestà di Chianciano messer Antonio Bichi, uomo di grande autorità in Siena; e perchè questo Chianciano è terra vicina a Montepulciano a quattro miglia, e per gli confini avevano avute contese e brighe molti anni, sotto nome di comporre tali differenze

detto messer Antonio parlava quasi ogni di che sono a tre, a quattro, a sei miglia, s'insicon gli infrascritti uomini di Montepulciano, ignorirono di tutta la terra. E la maggior parte quali convertì e dispose, perchè a quelli tempi in Montepulciano questa eccelsa repubblica avea mandato un bando di dovere fare la nuova gravezza delle decime, che fece loro molto scudo a disporre gli uomini contro di Marzocco, e massime che la composizione era stata gia pochi mesi innanzi fatta tra questa repubblica e Montepulciano delle monete bianche, cioè di avere in quella compensa il sale a un terzo meno di pregio. Come qui si mutò lo stato, furono gravati i Montepulcianesi e presi❘ dal bargello per il detto sale; però pensarono potesse loro riuscire; e di marzo, a'di ventisei, tentorno in questo modo; cioè deliberarono pigliare la rocca della terra, che era mal guardata e peggio fornita di vettovaglia, cioè farina, vino e pane, con quattro scimuniti provvigionati che tutto il di stavano fuori della rocca almeno tre, e solo uno ne restava in rocca ad aprire e serrare, e così la mattina la presero. A due ore di di con inganno presero il procinto e la guardia, e il castellano in manco di un'ora si arrendè, che non aveva nel Maschio nè pane, nè vino, ed era giovanetto. Ferono pensiero ancora di pigliare la torre di Chiane del ponte di Valiano, e perchè Bonzi castellano ne fu avvisato da uno di Montepulciano, non gli riusci, ed il potestà fiorentino era il vecchio Ridolfo Falconi, il quale lo seppe, e scrissene qui in Firenze, e perchè non gli fu creduto, non avuta la risposta, non vi fu alcun rimedio. Da Siena venne più di innanzi una bandiera azzurra segretamente, con lettere di oro, scrittovi Libertas, e così un grande scudo; i quali la mattina, come fu presa la rocca, uscirono fuori circa sessanta uomini tra cittadini e plebei armati, e così corsono la terra, e dato il cenno dalla torre del palagio dei priori con fumo e botte di artiglieria, certi commissarj sanesi, che erano stati così ordinati per quelle terre convicine, vennono con più fanti poterono subito, e messi dentro da costoro, presono la terra e la piazza. Il popolo, e massime il contado, non sapendo il caso, e sentendo le botte dell'artiglieria, domandavano che cosa fusse, e loro dicevano i Fiorentini ci volevano mettere a contado per farci poveri, e per poter poi comperare queste nostre belle possessioni; tanto che giunta gran quantità di convicini popoli,

di quelli non erano stati conscj del trattato, deliberarono gittare a terra la rocca, perchè non pervenisse alle mani dei Sanesi, e con quello impeto del popolo la scaricarono, gridando libertà, che a'congiurati non piacque. Messer Antonio Bichi gottoso venne subito portato in bara, e presentò il foglio bianco, e donò per parte della signoria di Siena sale e grano per buona quantità, cioè offerse farlo venir gratis, e messo in palagio, il fiorentino pretore fu mandato via e accompagnato con tutte sue some ed arnesi, e messer Antonio Bichi restò commissario, e a Siena andarono ambasciatori in quel di proprio ser Mariotto e ser Michelagnolo, i quali vestiti di panno rosato e carezzati, giurarono la fedeltà a Siena, per paura che i Fiorentini non protestassero ai Sanesi non gli pigliassero : perchè a Firenze come si seppe, subito furono mandati due cittadini a confortare Montepulciano si tenesse così in libertà, e non si desse. Dipoi vi andarono circa otto dottori, messer Jacopo, messer Tiberio, messer Agnolo, Piero di Matteo, Francesco di Michelagnolo; e messer Lodovico arciprete, che prima dovevo dire, con dua del contado, Paolino di Meo di Neri, e Lorenzo di Segna, i quali ben visti e onorati, furono vestiti di rosato, cioè donato loro tre canne di rosato per uno, e calze e giubbone agli staffieri, e tornati gli fu rafferma la commissione potessero in Montepulciano fare i capitoli a loro modo, e tempo sei mesi ad aggiungere ancora. Venendo il campo dei Fiorentini e passando le Chiane, cioè il conte Ranuccio con grande arte ed ingegno, perchè i Sanesi vi mandarono subito tutta la guardia che era in Siena, e subito condussono gente d'arme, parte loro, cioè messer Petruccio con dieci uomini d'arme, messer Giulio Bellanti dieci, Baldassarre Scipione dieci, Cino delle Gote, e il sig. Giovanni Savello con commissione di fare circa sessanta uomini, i quali cavalli e fanti, subito giunti al ponte, guastarono del ponte più che poterono, e ferono in terra ferma un bastione, e venne da Siena un commissario de'Cerchi, e portò cinquecento ducati, e guardavano che i Fiorentini non passassero le Chiane, che non passando restavano i Montepulcianesi sicuri e in pace. Ma il conte Ranuccio passò per tre lati, cioè sotto il ponte,

e sopra per barche, e per il ponte, e ruppe le genti Sanesi, ammazzonne e presene, e scorse il contado di Montepulciano, prese molto bestiame grosso, e principiò in agro Politiano un grosso e bello e forte bastione, il quale seguendo, fu fatto dai Fiorentini un accordo per paura di Pietro de' Medici, e d'accordo i Fiorentini lasciarono guastare dal popolo di Montepulciano detto bastione, che fu loro un levare la febbre da dosso, si gli premeva detto bastione. In questo tempo stando a Valiana commissario Tommaso Tosinghi, fece con gli signori dieci che Paolo Vitelli venisse segretamente da Castello con cinquecento fanti in un di, e parte della notte; che le sue genti d'arme, cioè cento uomini d'arme e cento cavalli leggieri, gli teneva tra Castiglione, Cortona e Valiana, e promesse di essere con detti fanti a meno di tre ore di notte a Valiana, e lui non vi fu se non la notte, per modo che giunti a Montepulciano i fanti tutti stracchi e morti, senza essersi mai rinfrescati, che era già giorno chiaro, e' volsono menare seco le dette genti d'arme de' fuorusciti di Montepulciano, che stavano a Valiana circa a sessanta. Fu scalato Montepulciano presso a una porta; e perchè non gli fu dato soccorso, furono ributtati di fuora e morti parecchi, e questo lo fe' artificioso per non volere soccorrere, perchè la laude non era attribuita ai loro Vitelli. In questo tempo in Montepulciano si offerse farlo ritornare Antonio Tarugi e Cristofano suo figliuolo, e data la giornata la notte di carnovale, che era commissario Tommaso Tosinghi, e de'cavalli il signor Bandino della Pieve, e un signor di Faenza, perchè fu scoperto dentro la sera, e perchè non si potettero insieme i congiurati ragunare, saltarono le mura circa sessanta uomini di Montepulciano, i quali parte ne furono morti, e parte se ne tornarono, perchè non furono sovvenuti, nè pasciuti; e gli Sanesi gli cacciarono le loro donne e figliuoli di Montepulciano. I capi della congiura sono questi: per la Lupa Francesco di Michelagnolo, Niccolò di ser Puccio suo cognato, Giovanni d'Antonio di Tommaso, Tommaso dell'arciprete, messer Jacopo Modesti, ser Chimenti Salimbeni, Piero di Matteo, Benedetto d'Agnolo dal Monte, ser Michelagnolo di ser Piero de' Ramini, Mazzuolo, Lorenzo di Segna, Biagio di Antonio di Brincone, ser Bartolommeo di Salvadore, Lorenzo di Antonio

di Pasquino, Piero di Piero, ec., un maestro, un Pagolo de' Servi, frate delle case de'Cini.

Giunto monsignore di Lilla ne' borghi di S. Marco [AN. 1495], con difficultà impetrò da Entraghes andare solo con due che lo portassero a parlargli, e giunto a lui, e fattogli intendere la voglia del re con parole, concluse monsignor d'Entraghes, che se non aveva lettere di mano del re proprio, e che monsignor di Ligny non gli scrivesse apertamente la restituzione, che non ne farebbe nulla; tanto che parendo ai commissarj essere chiari, ed avendo carestia di ogni cosa per non potere avere le vettovaglie, fecero intendere che egli era miglior partito levarsi, e che di questo male se ne caverebbe un bene, che più facilmente si provvederebbe ai luoghi di sopra che chiamavano aiuto, come avevano inteso per li sospetti. La signoria era ambigua; dall'una parte la costringeva la necessità di levarsi per torre dal pericolo l'un luogo, e poter soccorrere l' altro; dall'altra conoscevano non potere levarsi senza carico dell'universale, sapendo quanto era desiderato che si mantenessero nel borgo, e con quanta espettazione vi erano iti. E mentre che tal cosa si disputava, vennono nuove lettere di corte circa la restituzione; e volendo i dieci non le lasciare intentate, le spedirono subito, e le mandarono in campo a tempo che non erano ancora levati. Ma non ebbono queste più fortuna dell'altre, perché non poterono presentarle, e si volsono a notificarle per bando, acciocchè non avessero scusa, talchè non giovando anco questo, seguirono il primo loro intento, e levato il campo si posono a Cascina, non che gli avessero speranza di espugnarla, ma per non alleggerire così ad un tratto i Pisani da tale obsidione. Ma seguitando i rumori, come papa, Orsini e Sanesi volevano rimettere Piero; e come a questo consentivano messer Giovanni Bentivogli e la contessa di Furli; perchè Virginio Orsini con tutti gli altri di casa, con Piero de'Medici con assai gente si erano partiti di quello di Roma, e ritrovavansi verso Fuligno e Todi, perchè Piero si era valuto di circa ventunmila ducati della ragione di Roma, e che ne veniva con il favore sperava avere dentro per entrare in casa; si ordinò di nuovo i commissarj mandassono il conte Ranuccio e il signore Ottaviano de' Manfredi verso Cetona, e al re si fece intendere quanti assalti vi erano disegnati ad

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