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dall' ingegno ed instinto suo naturale, senz'altro studio o cura di limare i scritti suoi, che quando con diligenzia e fatica si sforzò d'esser più culto e castigato. Perciò li medesimi suoi fautori affer- 10 mano, che esso nelle cose sue proprie molto s'ingannò di giudicio, tenendo in poco quelle che gli hanno fatto onore, ed in molto quelle che nulla vagliono. Se adunque io avessi imitato quella maniera di scrivere che in lui è ripresa da chi nel resto lo lauda, non poteva fuggire almen quelle medesime calunnie che al proprio Boccaccio 15 son date circa questo; ed io tanto maggiori le meritava, quanto che l'error suo allor fu credendo di far bene, ed or il mio sarebbe stato conoscendo di far male. Se ancora avessi imitato quel modo che da molti è tenuto per buono, e da esso fu men apprezzato, parevami con tal imitazione far testimonio d'esser discorde di giudicio da colui 20 che io imitava: la qual cosa, secondo me, era inconveniente. E quando ancora questo rispetto non m'avesse mosso, io non poteva nel subietto imitarlo, non avendo esso mai scritto cosa alcuna di maniera simile a questi libri del CORTEGIANO; e nella lingua, al parer mio, non doveva; perché la forza e vera regola del parlar bene consiste 25 più nell' uso che in altro, e sempre è vizio usar parole che non siano in consuetudine. Perciò non era conveniente, ch' io usassi molte di

(e mi sembra a ragione) che queste os. servazioni del C. si riferiscano esclusivamento al Decameron, nol qualo ogli distingue corte parti e corte novelle scritte con maggiore semplicità e schiettezza disadorna di invenzione o di stile, ed altre nelle quali si fa piú sentire l'arte raffinata e tal; volta faticosa o la prooccupaziono dolla forma o l'influenza del poriodo latino. Un giudizio opposto a questo del C. espresse il Bembo nel lib. I delle sue Prose della volgar lingua (ed. Class. vol. I. p. 69).

10. Perciò li medesimi suoi fantori ecc. Il Bembo nel libro II (ed. cit. vol. I p. 333) fa dire a M. Federigo Fregoso che, a quantunque del Boccaccio si possa dire, che egli nel vero alcuna volta molto prudente scrittore stato non sia, conciossiocosaché egli mancasso talora di giudicio nello scrivere, non pure delle altre opere, ma del Decamerone ancora; nondimeno quelle parti del detto libro, le quali egli poco giudiciosamente prese a scrivere, quelle medesime egli puro con buono e con loggiadro stile scrisso tutte ». Del resto va notato che in ogui tempo lo stile del Boccaccio incontro oppositori e censori anche di fronte all'entusiasmo soverchiante dei più. Basti qui ricordare, per la fine del sec. XIV, quanto è detto da Cino di Francesco Rinuccini nella sua Invettiva contro certi calunniatori del Boccaccio, di Dante e del Petrarca; e pel secolo xvi, la preferenza che il Cesano e Bar

tolommeo Cavalcanti davano allo stilo del Machiavelli in confronto a quello di messer Giovanni.

12. Tenendo in poco. Sottinteso conto. «Che il Boccaccio facesse poco conto dei suoi poemi e romanzi e anche del Decameron è vero, e appare dalla sua lettera a Mainardo Cavalcanti; ma è anche vero che ciò era doterminato da ragioni puramente morali, non letterarie ». Cas.

15. Al proprio Boccaccio. Al Boccaccio stesso.

17. L'error suo allor fu ecc. Costruzione non molto propria: egli commise quell'errore credendo ecc.

18. Quel modo occ. Cioè quella maniera di scrivere, quello stile e quella lingua piú semplice e spontanea, che il Boccaccio adoperò « quando si lasciò guidare solamente dall'ingegno ed instinto suo naturale ».

21. Inconveniente. È forma quasi affatto scaduta dall' uso, invece della più comune sconveniente: mentre è rimasta in funzione di sostantivo.

25. Perché la forza e vera regola ecc. I Deputati alla Correzione del Decameron nelle Annotazioni ecc. (Firenze, 1857, p. 45) scrivevano che l'uso « è la balia, la ragione o la rogola stessa del parlare ». Ma il C. faceva un po' come il padre Zappata; predicava bene, come qui, ma alle volte razzolava malo, adoperando parole affatto disusate, come vedremo.

quelle del Boccaccio, le quali a' suoi tempi s'usavano, ed or sono disusate dalli medesimi Toscani. Non ho ancor voluto obligarmi alla 30 consuetudine del parlar toscano d'oggidi; perché il commerzio tra diverse nazioni ha sempre avuto forza di trasportare dall'una all'altra, quasi come le mercanzie, cosí ancor nuovi vocabuli, i quali poi durano o mancano, secondo che sono dalla consuetudine ammessi o reprobati e questo, oltre il testimonio degli antichi, vedesi chiara35 mente nel Boccaccio, nel qual son tante parole franzesi, spagnole e provenzali, ed alcune forse non ben intese dai Toscani moderni; che chi tutte quelle levasse, farebbe il libro molto minore. E perché, al parer mio, la consuetudine del parlare dell'altre città nobili d'Italia, dove concorrono omini savii, ingeniosi ed eloquenti; e che trattano 40 cose grandi di governo dei stati, di lettere, d'arme e negozii diversi non deve essere del tutto sprezzata; dei vocabuli che in questi lochi parlando s' usano, estimo aver potuto ragionevolmente usar scrivendo quelli che hanno in sé grazia, ed eleganza nella pronunzia, e son tenuti comunemente per boni e significativi, benché non siano to45 scani, ed ancor abbiano origine di fuor d'Italia. Oltre a questo usansi in Toscana molti vocabuli chiaramente corrotti dal latino, li quali nella Lombardia e nell' altre parti d'Italia son rimasti integri e senza mutazione alcuna, e tanto universalmente s' usano per ognuno, che dalli nobili sono ammessi per boni, e dal volgo intesi senza diffi50 coltà. Perciò, non penso aver commesso errore, se io scrivendo ho usato alcuni di questi, e piuttosto pigliato l'integro e sincero della patria mia, che 'l corrotto e guasto della aliena. Né mi par bona regola quella che dicon molti che la lingua volgar tanto è più bella, quanto è men simile alla latina; né comprendo perché ad una con55 suetudine di parlare si debba dar tanto maggiore autorità che all'altra, che, se la toscana basta per nobilitare i vocabuli latini cor

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questiono della lingua in Italia · Lipsia, 1876, holla Italia dell' Hillebrand, vol. III, pp. 123-4).

45. Oltre a questo ecc. In questa proferenza che il C. dichiara di concodoro alle formo più integre o sorbatosi piú vicine alle latino nella parlata lombarda in confronto di quello chiaramente corrotte dal latino ». In Toscana, egli non si mostrò, né poteva mostrarsi sempre coerente a sé stesso, come la lettura di questo libro verrà provaudo. Inoltro è da notare che proprio l'uso, nol più dei casi, gli ha dato torto.

52. Né mi par buona regola ecc. Eppure è certo che un vocabolo si dovrà sciontificamente considerare tanto più porfotto, quanto più sarà trasformato secondo lo leggi fonetiche proprie della nostra lingua, lo quali, nella inaggior parte dei casi, tendono a scostarlo dal tipo latino.

rotti e manchi, e dar loro tanta grazia che, cosí mutilati, ognun possa usarli per boni (il che non si nega), la lombarda o qualsivoglia altra non debba poter sostener li medesimi latini puri, integri, proprii, e non mutati in parte alcuna, tanto che siano tolerabili. E ve- 60 ramente, si come il voler formar vocabuli novi o mantenere gli antichi in dispetto della consuetudine, dir si può temeraria presunzione: cosí il voler contra la forza della medesima consuetudine distruggere e quasi sepelir vivi quelli che durano già molti secoli, e col scudo della usanza si son difesi dalla invidia del tempo, ed han con- 65 servato la dignità e 'l splendor loro, quando per le guerre e ruine d'Italia si son fatte le mutazioni della lingua, degli edifizii, degli abiti e costumi; oltra che sia difficile, par quasi una impietà. Perciò, se io non ho voluto scrivendo usare le parole del Boccaccio che più non s' usano in Toscana, né sottopormi alla legge di coloro che stimano 70 che non sia licito usar quelle che non usano li Toscani d' oggidí, parmi meritare escusazione. Penso adunque, e nella materia del libro e nella lingua, per quanto una lingua può aiutar l'altra, aver imitato autori tanto degni di laude quanto è il Boccaccio; né credo che mi si debba imputare per errore lo aver eletto di farmi piuttosto conoscere per Lom- 75 bardo parlando lombardo, che per non Toscano parlando troppo toscano: per non fare come Teofrasto, il qual, per parlare troppo ateniese, fu da una semplice vecchiarella conosciuto per non Ateniese. Ma perché circa questo nel primo Libro si parla a bastanza, non dirò altro, se non che, per rimover ogni contenzione, io confesso ai miei 80 riprensori, non sapere questa lor lingua toscana tanto difficile e recondita; e dico aver scritto nella mia, e come io parlo, ed a coloro che parlano come parl' io: e cosí penso non avere fatto ingiuria ad

57. Corrotti e manchi. Quosta opinione cho la lingua volgare fosse il prodotto della corruzione della latina era comune (e naturale, aggiungiamo, nelle condizioni della scienza d'allora) nel 500 anche presso i fautori della toscanità, come il Bembo ed il Varchi, il quale però (Ercolano, ed. Sonzogno, pp. 127-35) la modifica secondo le dottrine di Aristotele. Prima di giungere al concetto scientifico della evoluzione fonetica e morfologica doveva passaro ancora qualche secolo.

66. Quando per le guerre occ. Qui il C. alludo certamento agli sconvolgimenti, allo invasioni barbaricho cho afflissero la ponisola durante il Modio Evo, e dolle quali, in relaziono con la lingua, parlarono il Bembo (Prose, lib. I, pp. 32-3) ed il Varchi (Ercolano, ed. cit. pp. 119-21).

75. Imputare per errore. Mettere in conto di errore; plú comune la costruzione con a cd in.

77. Per non fare come Teofrasto ecc. Al

lusione evidente ad un passo del Brutus sive De claris Oratoribus di Cicerone, il quale (XLVI, 172) cosi narra il fatterello avvenuto a Teofrasto: Cum percontaretur ex ani. cula quadam, quanti aliquid venderet; et respondisset illa, atque addidisset: Hospes, non pote minoris; tulisse eum molesto, se non effugere hospitis speciem, cum aetatem ageret Athenis, optimeque loqueretur ». L'aneddoto è citato anche dal Varchi (Ercolano, ed. cit. p. 105) per dimostrare l'importanza della pronunzia.

78. Vecchiarella. Diminutivo che serve ad indicaro, oltre l'otà avanzata, l'umilo condizione.

79. Nel primo Libro. Cioè dalla fine del Cap. XXIX sino a tutto il xxxix, dove, a proposito dell' affettazione, Ludovico da Canossa e Federico Fregoso discutono circa l'uso di parole e frasi arcaiche nello scrivere e nel parlar volgare.

80. Contenzione. Più comuni contesa, controversia, contrasto.

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alcuno ché, secondo me, non è proibito a chi si sia scrivere e parlare nella sua propria lingua; né meno alcuno è astretto a leggere o ascoltare quello che non gli aggrada. Perciò, se essi non vorran leggere il mio Cortegiano, non mi tenerò io punto da loro ingiuriato. III. Altri dicono, che essendo tanto difficile e quasi impossibile trovar un uomo cosí perfetto come io voglio che sia il Cortegiano, è stato superfluo il scriverlo, perché vana cosa è insegnar quello che imparar non si può. A questi rispondo, che mi contenterò aver errato con 5 Platone, Senofonte e Marco Tullio, lasciando il disputare del mondo intelligibile e delle Idee; tra le quali, sí come (secondo quella opinione) è la Idea della perfetta Repubblica, e del perfetto Re, e del perfetto Oratore, cosí è ancora quella del perfetto Cortegiano: alla imagine della quale s' io non ho potuto approssimarmi col stile, tanto 10 minor fatica averanno i cortegiani d'approssimarsi con l'opere al termine e mèta, ch'io collo scrivere ho loro proposto; e se, con tutto questo, non potran conseguir quella perfezion, qual che ella si sia, ch'io mi sono sforzato d'esprimere, colui che più se le avvicinerà sarà il più perfetto; come di molti arcieri che tirano ad un bersaglio 15 quando niuno è che dia nella brocca, quello che più se le accosta senza dubio è miglior degli altri. Alcuni ancor dicono, ch' io ho creduto formar me stesso, persuadendomi che le condizioni ch' io al Cortegiano attribuisco, tutte siano in me. A questi tali non voglio già

87. Tenerò. Forma oggi scaduta dall'uso, che proferi la contratta terrð.

III. 4. Con Platone ecc. Allude alla Repubblica di Platone, alla Ciropedia di Senofonte e al De oratore di Cicerone, alle quali opere il C. accenna ancho qui appresso.

9. Col stile. Quest' uso delle forme il, col occ. dinanzi a parole comincianti con la cosí detta impura (seguíta cioè da una consonanto) è normale nel Cortegiano. Eppure in quegli stessi anni il Bembo (Prose, lib. III, p. 25) indicava esattamente la regola, che poco di poi anche il Varchi (Ercolano, ed. cit. pp. 167–8) ripeteva insieme con altre consimili, soggiungendo: a Lo quali cose sobbone da molti ancora di coloro cho fanno professione della lingua, osservate non sono, non è che osservare non si debbano da chi vuole correttamente o regolatamente scrivere ».

12. Perfezion. Questo vezzo (cho ben tosto diventò un abuso) di troncare le parolo naturalinonto parossitone, por accroscere suono al periodo, fu assai diffuso presso i nostri prosatori del Cinquecento, dietro l'esempio dol Boccaccio. E in questo il C. non fu da meno degli altri.

15. Brocca. Brocco, segno, centro del bersaglio; la quale forma femmin. era nel

Cinquecento più comuno in sonso figurato (Cas.), o assai frequente, o vivo ancora in Toscana e altrove, è imbroccare. In una varianto di questo proemio pubblicata la prima volta dal Sorassi (Cfr. ediz. Le Monnier, p. 315) il C. scrivova: « La idea dunquo di questo porfotto Cortogiano formaremo al moglio cho si potrà, acciò che chi in quosta mirerà, como buono arcioro si sforzi d'accostarsi al segno, quanto l'occhio o il braccio suo gli comporterà ». Cfr. lib. IV, cap. XL. E il Machiavelli in una sua lettera: «e fugli in tanto favorevole la fortuna, cho la prima mira che pose, la pose al vero brocco». (Lettere fam., ediz. cit. p. 340).

16. Alcuni ancor dicono occ. Riforon dosi a queste parole, Vittoria Colonna nolla citata lettera del 20 settembre 1524, cosi scrivova al C.: a Che abbia ben formato un perfetto cortegiano non me ne maravi. glio, che con solo tenere uno specchio denanzi, ot consideraro lo intorno ot extorno parti sue, possova descriverlo qual lo ha descritto; ma essendo la maggior difficultà che habbiamo conoscer noi stessi, dico cho più difficile li è stato formar sé che un altro...». E l'Ariosto nell'Orl. fur. (xxxvII, 8) "... C'è chi qual lui Veggiamo ha tali i Cortegian formati».

negar di non aver tentato tutto quello ch' io vorrei che sapesse il Cortegiano; e penso che chi non avesse avuto qualche notizia delle 20 cose che nel libro si trattano, per erudito che fosse stato, mal averebbe potuto scriverle: ma io non son tanto privo di giudicio in conoscere me stesso, che mi presuma saper tutto quello che so desiderare.

La difesa adunque di queste accusazioni, e forse di molt' altre, 25 rimetto io per ora al parere della commune opinione; perché il più delle volte la moltitudine, ancor che perfettamente non conosca, sente però per instinto di natura un certo odore del bene e del male, e, senza saperne rendere altra ragione, l'uno gusta ed ama, e l'altro rifiuta ed odia. Perciò, se universalmente il libro piacerà, terrollo 30 per buono, e penserò che debba vivere; se ancor non piacerà, terrollo per malo, e tosto crederò che se n'abbia da perder la memoria. E se pur i miei accusatori di questo comun giudicio non restano satisfatti, contèntinsi almeno di quello del tempo; il quale d'ogni cosa al fin scopre gli occulti difetti, e, per esser padre della verità 35 e giudice senza passione, sol dare sempre della vita o morte delle scritture giusta sentenza.

BALDESAR CASTIGLIONE.

26. Della commune opinione. È quella cho oggi si chiama « opiniono pubblica », e che, noi modi e coi carattori o tondonzo moderne non cominciò ad affermarsi e ad operare vigorosa che nel Rinascimento. Di essa appunto comprese il segreto e la forza, facendono strumento efficace la stampa, quel Pietro Aretino che, come fu più volte osservato, si deve perciò considerare come il primo e più abile e sfacciato precursore del giornalismo moderno. Circa poi il valore e l'estensione di quella che nel dugento si dicova pubblica voce e fama ", vedasi l'osservazione di I. Del Lungo (Dante ne' tempi di Dante, Bologna, Zanichelli, 1888, p. 143).

25. Accusazioni. Forma latineggianto invece della più comune accusa. Piú innanzi incontrasi la forma analoga escusazione.

28. Un certo odore ecc. Quest' uso metaforico, in tal caso efficacissimo, di odore, deriva direttamente dai classici latini. Cicerone infatti, fra gli esempi di frasi me

taforiche da usarsi dall' oratore, cita anche l'odor urbanitatis (De orat. III, 40); si confronti più addietro l'odor delle virtù. Del resto l'idea qui espressa ci apparisce, sotto forma alquanto diversa, nel trito vox populi, vox Dei.

35. E per esser padre della verità ecc. Sono concetti questi comuni e tradizionali, ma che il C. dovette attingere a fonti classicho. Anche per Aulo Gellio il tempo è « pater veritatis» e Tacito scrive: «Suum cuique docus posteritas ropondit e il Foscolo (Articolo intorno ad un sonetto del Minzoni): « La comune sentenza che il tempo sia giudice imparziale del merito è vera, ma il tompo sarebbe più utile alla letteratura, ov' ei non fosse giudico debole ». Ancho Quintiliano (Instit. Orat. lib. III, 7) scrivova: ... ..quidam, sicut Menander, iustiora posterorum quam suae aetatis iudicia sunt consecuti».

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