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Domenico Balestrieri, uno de' più fecondi ed eminenti ingegni del Parnaso milanese, dopo avere illustrato il patrio dialetto con ogni sorte di componimento in prosa ed in verso, lo inalzò ancora all'o› nore dell'epopea, travestendo la Gerusalemme Liberata del Tasso, sull' esempio di tanti altri scrittori, che l'aveano voltata in quasi tutti i dialetti d'Italia. Se in questa strana impresa il Balestrieri spese diecisette anni di fatica, ebbe il mèrito di mostrare di quanta forza d'espressione, e ricchezza d'imagini proprie il dialetto milanese fosse fornito; e voltando in vernácolo con mirabile fedeltà parecchie canzoni di Anacreonte, provò ancora quanto bene s'addicesse agli argomenti affettuosi; per modo che, se il Maggi ebbe il vanto di fondare pel primo la vera poesia milanese, il Balestrieri ebbe la gloria di consolidarla e di arricchirla di molti pregèvoli componimenti. A' suoi tempi, avendo il padre Branda barnabita, in una lettura acadèmica, sollevato a cielo la lingua italiana, e tentato dimostrare, essere il culto delle vernácole lettere nocivo all' incremento delle clàssiche, il Balestrieri difese la causa del patrio dialetto, e rintuzzò con una serie di componimenti, intitolati la Brandana, le asserzioni del cenobita; ed essèndosi alcuni fatti campioni di questo, altri s'unirono al Balestrieri, per modo, che s'accese un' enèrgica lotta, la quale terminò col trionfo dei poeti vernácoli.

Balestieri fu attorniato, finchè visse, da una corona di valenti poeti, i quali, gareggiando a vicenda, lo emulàrono così nelle grazie, come nella forza e dignità del dire. Tra i molti basterà ricordare Francesco Girolamo Corio, Giorgio Giulini, Carl'Andrea Oltolina, Luigi Marliani, ed il P. Alessandro Garioni, le cui sagaci poesie piene di sali sono ancora il diletto dei concittadini.

Periodo III. In tal modo terminò il secolo XVIII gloriosamente per la poesia milanese, la quale, se nel primo periodo aveva assunto sotto l'oppressione spagnuola il falso gusto, e lo spirito frivolo dei tempi, venne modellata nel secondo sulle clàssiche letterature, e sollevata ad alto grado. Se non che, la monòtona scuola delle lettere clàssiche, inceppandone il libero sviluppo, leimpresse una servile imitazione, a svincolarla dalla quale richiedèvasi una riforma. I memoràbili avvenimenti che, in sul cadere dello scorso secolo, dalle rive della Senna estèsero la ràpida loro

influenza su tutta Europa, sovvertendo l'antico ordine di cose, ne fornirono ben presto occasione, e, come nelle sociali instituzioni, così ebbe principio la riforma nella lombarda letteratura.

Il primo che vi pose mano si fu il benemèrito abate Giuseppe Parini, il quale, mentre dall'una parte maturava cogli aurei suoi versi la riforma delle lettere itàliche, preparava dall'altra con parecchie poesie volanti quella delle vernácole. Gli tenner mano nell' ingentilire gli animi quel lùcido ingegno di Giuseppe Bossi, e il conte Francesco Pertusati, i cui numerosi componimenti sono cospersi d'àttico sale e di quegli affettuosi e morali concetti che caratterizzano la vera poesia; ma questi dièdero solo il segnale della riforma, il cui compimento era serbato al genio creatore di Carlo Porta, principe de' poeti vernàcoli. Forte pensatore, pittore inarrivabile, poeta inspirato, quest'uomo straordinario tutto si diede a sradicare i mali che deturpàvano il suo paese, e, dipingendo co' più veraci colori i costumi del suo tempo, dall' una parte atterrò il decrépito edificio delle opinioni antiche, rintuzzò dall' altra l'arroganza dello straniero; inesorabile nella sàtira, delicato negli affetti, seppe congiungere alla forza còmica di Molière ed al patriottismo d'Alfieri, il frizzo di Giovenale e la dolcezza di Beranger; ond' ebbe la gloria di contribuire più d'ogni altro a sradicare i pregiudizj, e ad aprire la via alla vera e viva letteratura.

Sulle sue orme procedendo, alleviàrono in parte il dolore dell' immatura sua pèrdita due valenti poeti, Tommaso Grossi e Giovanni Raiberti, i quali, perchè viventi, non turberemo con tributi di lode. Basterà solo avvertire, che si educàrono in gioventù alla scuola del Porta, penetrati da sentimento del pari generoso; e giova sperare, che la patria possa esser loro riconoscente di nuovi mèriti.

Da questo rápido cenno si vede, che il dialetto milanese non solo è affatto privo di poesie tradizionali, ma non ha òpera che non sia di scrittori versati nelle letterature antiche e moderne. E perciò, pel número e pel valore delle sue produzioni, súpera molte delle letterature vernàcole, e può rivaleggiare altresì con parecchie delle clàssiche moderne (1), giacchè la poesia non con

(1) Vèggasi nel Capo VI la Bibliografia di questo dialetto.

siste nella lingua, ma bensì nelle imagini e nei concetti; come dimostrò colla ragione e col fatto anche il Porta nel seguente sonetto non mai abbastanza ripetuto:

I paròl d' on lenguàğ, car sür Manèl,
In una tavolozza de colór,

Che pon fà'l quàder brüt, e'l pòn fà bel,
Segond la maestria del pitór.

Senza idèi, senza güst, senza ón cervèl
Che règola i paròl in del discór,
Tüt i lenguağ del mónd în come quel
Che parla on sò ümelissem servitór.

E sti idei, sto bon güst, già'l savarà,
Che no în privativa di paés;

Ma di có, che gh' àn flemma de stüdià.

Tant l'è vera, che in boca de üssüria

El belissem lenguàğ di Sïenés

L'è 'l lenguàğ pü cojón che mai ghe sia.

Con questo corredo di materiali era a desiderarsi, che taluno, svolgendo le leggi gramaticali, e compilando un vocabolario di questo dialetto, ne agevolasse la lettura e l'interpretazione agli Italiani ed agli stranieri. Nessun tentativo venne fatto sinora, onde porre in evidenza i principj fondamentali che règolano il discorso. Quanto al vocabolario, vi provvide il benemèrito Francesco Cherubini, il quale, dopo averne dato un Saggio sin dall'anno 1814, pose testè compimento alla difficile impresa, publicandone un nuovo assai vasto in quattro volumi. Egli acquistò diritto alla patria riconoscenza, per le solerti cure colle quali l'arricchi di modi proverbiali, di tècniche espressioni, abbracciando ogni arte e mestiere, e tenendo conto dei minimi membri componenti le macchine più comuni, non che pei confronti sovente instituiti con altri dialetti d'Italia. Se non che, il troppo ristretto suo propósito, come dichiara egli stesso nella Prefazione, di ajutare i concittadini a voltare il patrio dialetto nella lingua scritta, lo deviò troppo nell'esposizione dell'interminabile inutile serie dei derivati d'ogni radice, e nella ricerca de' più svariati modi corrispondenti italiani, a danno della precisione e della chiarezza. Noi commendiamo questo libro per la dovizia dei materiali racchiusi, non che per la bella appendice di voci brian

zole e di Ghiaradadda, apprestata per la maggior parte dai signori Villa e Decapitani, ma troviamo soverchio lo sfoggio dei più antiquati arzigògoli fiorentini, e dei più triviali provincialismi delle vallate toscane, che non faranno mai parte della soda e schietta lingua italiana.

Conchiuderemo questa prima parte del nostro schizzo colla testimonianza del benemèrito abate Parini, il quale, dopo avere encomiata la schiettezza e semplicità del dialetto milanese, così soggiunse:

« Chi più d'ogni altro ha riconosciuto quest' indole della nostra lingua, e che lo ha dichiarato in più d'un luogo de' suoi componimenti milanesi, è stato nel secolo antecedente l'immortale nostro segretario Carlo Maria Maggi, il quale avendola perciò adoperata in varie opere morali ed istruttive, fece doler i forestieri del non poter essi intènderla bene. Egli, che nella sua più fresca età èrasi acquistato tanto grido colle lettere greche, latine e toscane, non isdegnò nella più grave e matura di servirsi del nostro dialetto nelle migliori sue comedie, da lui scritte, non tanto per proprio trattenimento, quanto per istruzione e per vantaggio grandissimo de'suoi concittadini; e le quali meritàrono d'éssere dagli intelligenti, non dirò eguagliate, ma eziandio preposte in qualche guisa alle più rinomate delle antiche.

» Sulle pedate gloriose del Maggi hanno poscia seguito a scriver nella nostra lingua alcuni dotti e savii uomini, che sono morti di fresco, ed alcuni altri che ora vivono, i quali mòstrano di far grande conto del giudizio e della lode della lor patria, scrivendo nel proprio dialetto cose che non possono esser giudicate o lodate da altri, meglio che da lei. Quindi è, che noi abbiamo veduto in pochi anni la nostra lingua mostrarsi capace di tutte le vere e più sòlide bellezze della poesia. Bàstivi di lèggere le rime scritte in milanese dal virtuoso e dabbene signor d.' Girolamo Birago, per sincerarvi, che non solamente il nostro linguaggio non è per sè medèsimo goffo e scipito, ma nemmeno per ciò che in esso si scrive. Il Meneghino alla Senavra, di questo autore, può dirsi una scuola della vera pietà e della più sana morale, e così ciascuno de' componimenti ch' egli indirizza a' suoi figliuoli, e quel bellissimo, fatto da lui ultima

mente, intitolato: Il Testamento di Meneghino; ne' quali tutti, oltre ad una fina e soave critica de'costumi, ottimi insegnamenti si danno conditi con vivaci sali, con urbane lepidezze.

» Ma che vi dirò io del signor Domènico Balestrieri, e del signor Carl' Antonio Tanzi? Il primo de'quali, colla leggiadra e semplice naturalezza de'suoi versi, insinuasi dolcemente nel cuore, e l'altro, colla robustezza de' pensieri e delle imagini, mostra come trovar si possa in mezzo alla semplicità del milanese dialetto il fantàstico ed il sublime della poesia. Leggete di questo, oltre alle molte altre cose, il bellissimo sonetto ch'ei già stampò per una monacazione, in cui egli rappresentò alla candidata il punto della morte di lei, e, figurandosi d'èsser seco nella cella, le dipinge si al vivo le circostanze in cui ella troverassi in quel dì, che scuote ed àgita l'ànimo di chiunque legge, e lo riempie d'un salutare orrore. Sul medèsimo argomento della morte leggete i versi sciolti ch' ei recitò nell'academia dei Trasformati, ch'io mi rendo certo, che voi non li potrete lèggere senza raccapriccio, tanto vive e patètiche sono le imaginazioni, onde quel componimento è ripieno.

» Per ciò che riguarda al sig. Balestrieri, qual cosa insieme più bella e più tènera del suo Figliuol Prodigo? Questa dolcissima allegoria della divina misericordia, quasi direi che diventi più preziosa nella nostra lingua, imperciocchè, richiedendo l' argomento una certa semplicità e un certo soave affetto ch'io non saprei spiegare, sembra questa èssere a ciò meravigliosamente adatta, o, per dir meglio, sèmbrano i Milanesi particolarmente atti a sentirlo e ad esprimerlo nel loro dialetto. Senza che, l'autore ha saputo in quell' operetta raccogliere tutte quelle grazie e purità della nostra lingua, che meglio sèrvono a rappresentare sotto gli occhi la cosa, e ad eccitare la compassione e la gioia. » Gli altri dialetti occidentali non èbbero in verun tempo letteratura propria. Nessun componimento venne in luce, per quanto ci consta, nel dialetto caltellinese, eccetto per avventura qualche oscura poesia d'occasione di più oscuro scrittore. Un vocabolario del medèsimo tròvasi racchiuso nel Vocabolario dei dialetti della città e diòcesi di Como, dell' abate Pietro Monti, che dobbiamo riguardare come uno de' più importanti lèssici fra i lombardi, pei molti dialetti alpini che abbraccia.

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