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a rinvenirsi, non che un'indicazione delle principali produzioni di questo gènere, nella Bibliografia.

Da ciò è manifesto, che i dialetti da principio fùrono scritti per cèlia, e coll' intento di trastullare le moltitudini, come appunto nello stesso tempo fùrono intrusi in molte comedie il Greco, il Dalmata, il Tedesco, il Francese ed il Turco, che in varia foggia masticàvano un guasto italiano, o qualche suo speciale dialetto. E che tale fosse l'intenzione dei primi scrittori appare eziandio dalla scelta dei dialetti medèsimi, tra i quali veggiamo preferiti i più rozzi, vale a dire: l'Astigiano fra i pedemontani, il Bergamasco, o quello di Val di Blenio tra i lombardi, il Chioggioto, o il rùstico Padovano fra i vèneti, il Bolognese fra gli emiliani. Che anzi, ovunque, e per molti anni, fùrono preferiti i dialetti dei monti e delle campagne a quelli delle città, sulla norma appunto degli scrittori vulgari toscani, che primi ne dièdero l'esempio. Così veggiamo in lingua rústica padovana i primi saggi poètici o drammatici di quel dialetto celebrato da Beolco e da Maganza coi finti nomi di Ruzzante, Magagnò, Menòn e Begotto; in lingua rùstica veronese sono scritte alcune bizzarrie poètiche dell'Atinuzzi; rústica è quella dei primi Saggi poètici friulani, bellunesi, bresciani e mantovani; Colombano Brescianini assunse il nome di Baricòcol dottor di Val Brembana, quando travestì in rùstico bergamasco le Metamorfosi d'Ovidio; ed i primi poeti milanesi imitárono le rozze favelle delle vallate di Blenio e d'Intra, o si nascosero sotto le spoglie del Bosin, nome generale e comune tutt'ora ai villici dell'Alto Milanese; onde fùrono poi dette Bosinade le innumerevoli poesie lìriche d'occasione composte nei dialetti lombardi.

Ciò premesso, volendo noi porgere una chiara idea, comecchè sommaria, della letteratura di questi, l'abbiamo ripartita in tre distinti periodi, il primo dei quali comprende appunto i componimenti in lingua rùstica, estendèndosi dai primordi della poesia vernácola fino alla sostituzione dei dialetti civici ai rùstici, operata dal Maggi; vale a dire, dal principio del secolo XVI fino alla seconda metà del XVII. Il secondo, dal Maggi si estende sino ai tempi della ristaurazione, incominciata da Giuseppe Parini; vale a dire, dal 1680 incirca alla metà del secolo scorso. Il terzo, incominciando dal Parini, giunge sino a noi.

Di qui appare, che la letteratura dei dialetti lombardi viene precipuamente rappresentata dalla milanese propriamente detta; giacchè, se si eccettui il dialetto bergamasco, il quale fu svolto da parecchi distinti scrittori in ogni gènere di componimento, tutti gli altri non hanno vera letteratura propria, ma tutt'al più alcune poesie d'occasione, o Saggi di vocabolario. Con tutto ciò, per procédere con maggiore chiarezza, abbiamo preferito sceverare la letteratura dei dialetti occidentali da quella degli orientali.

Letteratura dei dialetti occidentali.

Periodo I. Questo periodo, come accennammo, è contradistinto dal linguaggio rústico, il quale variò di mano in mano che la letteratura vernácola si venne sviluppando. Da principio i poeti milanesi adottarono il dialetto della valle di Blenio, i cui abitanti solevano recarsi in frotte annualmente alla capitale lombarda per esercirvi il mestiere di facchini, e, sul modello dell'Arcadia, i cui membri assumevano spoglie pastorali coi nomi di Titiro e Melibeo, fondàrono l'Academia della valle di Blenio, nella quale, colle mentite spoglie di facchini, tentàrono nobilitare coi poètici numeri la lingua, i costumi ed i rozzi concetti di quella povera plebe. L'origine e gli statuti di questa frivola Academia fùrono publicati nei Rabisch dra Academiglia dor Compȧ Zavargna, ove sono racchiuse molte poesie facchinesche di Gio. Paolo Lomazzi, autore di questo libro e principe dell'Academia, non che varii componimenti d' altri zelanti acadèmici. Tra questi emèrsero Bernardo Baldini, Lorenzo Toscano, Bernardo Rainoldo, Gio. Batista Visconti, Giàcomo Tassano e Lodovico Gandini, dei quali sopravivono appena alcune poesie volanti. In quel tempo di decadenza, la moda avea diffuso in Italia il barbaro gusto per le lingue fittizie janadattica e furbesca, alle quali anche valenti ingegni pagarono il loro tributo (1); e in Lombardia tenne per breve tempo il loro posto quella della

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(1) Veggasi l'opuscolo da noi testè publicato col titolo: Studii sulle lingue furbesche, di B. Biondelli. Milano, per Civelli e C.o 1846.

valle di Blenio. Poco dopo, vale a dire in sul principió del sècolo XVII, vi fu sostituito il dialetto della valle Intrasca, non meno strano del primo, e proprio parimenti d'una parte dei facchini e vinaj della capitale nativi di quella valle. Venne quindi fondata la gran Badie doi fecqin dol lag Méjò, e in essa i poeti lombardi, serbando sempre la màschera facchinesca, illustràrono questo nuovo dialetto montano con molti componimenti poètici, che sfoggiarono per lo più in sontuose mascherate carnescialesche, in almanacchi, ed in opùscoli d'occasione, dei quali sèrbasi una ragguardevole raccolta nella biblioteca Ambrosiana, e dei quali produrremo alcuni Saggi nel capo seguente. Di tali mascherate carnescialesche porge bastèvole idea un'incisione pubblicata dal Bianchi col titolo: Mascarade doi Fechin dol Lagh Mejo ascricc in tla Magnifiche Bedie, faccie in Milan, ol dì 20 fecree 1764. Il componimento di maggior conto in questa lingua, distinta comunemente col nome di lingua facchinesca, si fu un poemetto dell'avvocato Bertarelli, intitolato: Lucciade dol Compȧ Strusapolenta, da noi riportato nella Bibliografia; e buona copia di racconti in prosa tròvansi nell'Almanacco intitolato La Balle, publicato per alcuni anni successivi nella seconda metà del sècolo scorso.

In mezzo a questo bàrbaro gusto pei linguaggi più bàrbari e meno intesi, alcuni vòllero sollevare all'onore del metro la meno informe favella della campagna milanese, e fra le innumerevoli sue varietà scèlsero quella del Bosin, che fu rappresentato da Baltram da la Gippa, nativo di Gaggiano, villaggio posto sulla riva destra del Naviglio Grande a sette miglia incirca da Milano. Allora per la prima volta la poesia vernácola, abbandonando gli insipidi sali facchineschi, prese indole satirica. Era Beltrame un povero contadino, semplice, ma sentenzioso; ignorante, ma franco e loquace; censore della politica, e sempre disposto a piangere sulle sciagure della sua patria, ed a festeggiare, cantando, i fausti avvenimenti publici e privati. Con quest' àbito a vario colore prevalse sui facchini del Lago Maggiore, che a poco a poco ammutolirono, e fu per lungo tempo l'intèrprete prediletto dei verseggiatori milanesi, ai quali prestò nome e linguaggio, e più sovente ancora ignoranza e melensàgine.

Allora èbbero origine le Bosinade, ossia quei componimenti poètici d'occasione, sovente satirici, in ogni metro e stile, che distinguono la poesia vernácola lombarda, e dei quali immenso è il número, e per lo più oscuro l'autore. Fra quelli che successivamente si distinsero in questo gènere di componimento, ricorderemo Girolamo Maderna, Scipione Delfinoni, Pietrasanta, Domenico Francolini, Paolo Mainati, Giuseppe Abbiati e Gaspare Fumagalli. Una raccolta di queste poesie, màssime appartenenti ai tempi moderni, fatta per cura del benemèrito Francesco Bellati, serbasi ordinata in nove volumi nella Biblioteca Ambrosiana, e sarebbe di gran lunga maggiore, ove alcuno prima di lui avesse impreso di farne collezione. Di tante produzioni però ben poche mèritano ricordanza, non solo pei loro frivoli argomenti, ma sopra tutto per l'assoluta nullità. La sola importanza loro consiste nel documentare la storia patria, non che lo spirito dei tempi e le fasi che il dialetto milanese ebbe successivamente a subire; sebbene eziandio a tal uso il maggior numero non valga, o per mancanza di data, o per l'imperizia dell'autore, o per troppa esiguità.

Il solo poeta che emerse in questo lungo periodo, e che possiamo riguardare qual fondatore e padre della poesia milanese, si fu il pittore Gian Paolo Lomazzo, il quale, comecchè principe benemèrito dell'Academia de la Val de Bregn, pure scrisse ancora pel primo alcune poesie liriche in dialetto civico milanese, che non sono prive di qualche pregio. Il suo esempio fu imitato da Giovanni Capis, da Ambrogio Biffi, da Fabio Varese e da altri, dei quali ci rimangono pure alcuni sonetti èditi in gran parte. Che anzi, Giovanni Capis fu il primo che sbozzasse un Saggio di vocabolario etimològico milanese, nel quale si sforzò dimostrare la derivazione di questo dialetto dal greco e dal latino. Quest'òpera, troppo encomiata dal canònico Gagliardi, che, affetto dall'egual morbo allora generale in Italia, sottopose ad egual tortura il dialetto bresciano, fu più tardi ampliata ed in parte emendata da Giuseppe Milani, dopo di che vide più volte la luce col titolo: Varòn milanès de la lengua de Milàn. Il suo pregio consiste solo nell' averci serbato parecchie voci antiquate, omai scomparse dai viventi dialetti, essendo le note etimològiche per lo più vane stiracchiature, o sogni. Ambrogio Biffi dal canto suo

tentò posare le basi della pronuncia e dell'ortografia vernácola, in un breve trattato in prosa intitolato: Prissian de Milàn, de la parnonzia milanesa. Quest' opuscoletto è prezioso oggidì, additàndoci quali modificazioni la pronuncia milanese ha subito negli ùltimi sècoli (4); e venne più volte in luce unito al Varòn Milanès.

Periodo II. In onta a questi primi tentativi, il gusto per le Bosinade e pel linguaggio rústico prevalse sin oltre alla metà del secolo XVII, quando comparve Carlo Maria Maggi, che, versato nelle clàssiche letterature antiche e moderne d' Europa, sollevò quella della sua patria, sostituendo al dialetto rústico il civico, e dettando parecchie comedie e poesie volanti, intese a riformare coll' arguzia e colla critica il falso gusto ed i costumi de' suoi tempi. Ond'è che, sebbene egli inalzasse l'edificio sulle pietre primamente poste dal Lomazzo e da' suoi seguaci, fu poi meritamente riguardato, per superiorità e fecondità d'ingegno, non che pel compimento dell' òpera, come vero fondatore della poesia milanese. Infatti solo dopo di lui fu dato perpetuo bando a Baltram da la Gippa, nel cui posto successe Meneghin Peccenna a rappresentare l'uomo del popolo.

Questo nuovo eroe della Musa lombarda era un servo fedele, ammogliato, carico di figli, ingenuo, faceto ed arguto, timido e franco ad un tempo, d'òttimo cuore, e vittima sempre de' più scaltri. Con questo carattere egli fu la chiave dell' intrigo nella comedia, e l'intèrprete dei successivi poeti lìrici, ai quali prestò col nome, ora lo spirito e la satira, ora l'ingenuità ed il patriottismo. Questo modello fu delineato per la prima volta dal Maggi nelle sue comedie intitolate: I consigli di Meneghino; Il Barone di Birbanza; Il Manco male; ed Il falso Filòsofo, le quali sono ad un tempo ottimi modelli di pura morale, e di drammatico stile.

Al Maggi tenne dietro una lunga schiera di valenti poeti, che illustrarono il secolo XVIII. Tra questi emèrsero Giròlamo Birago, Giulio Cèsare Larghi, Stefano Simonetta e Carl'Antonio Tanzi, con una serie di poesie egualmente pregèvoli nello stile grave e patètico dell'elegia, che nel faceto e brillante della novella.

(1) Avvèrtasi che qui intendiamo parlare del vario modo di pronunciare l'uno o l'altro vocàbolo, e non già del sistema fònico, il quale fu sempre eguale.

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