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perchè convinto in giudizio di corruzione per la ingiusta condanna di certo Traspadano; Catulo, perchè fin dal dì che chiese il pontificato, invelenito che al confine della vita, vecchio ed usato alle più alte cariche, era stato scavalcato da Cesare giovane. Pareva ché la cosa venisse a taglio, poichè questi aveva contratto di grandi debiti per private larghezze, e per pubbliche e stragrandi munificenze. Ma, non potendo dar la spinta al console a sì brutto passo, essi, sparsi in giro e seminando menzogne, che spacciavano come roba avuta da Volturcio o dagli Allobrogi, gli avevano tirato sopra grande malevolenza, a segno, che alcuni cavalieri romani, locati in armi intorno al tempio della Concordia per guardarlo, tratti o dalla gravezza del pericolo o da generosità di spiriti, a meglio chiarire la loro fede in verso lo stato, minacciarono con la spada Cesare in quel che usciva dal senato.

50. Mentre questo si passa in senato, e mentre, trovata vera la loro deposizione, sono assegnati premi agli oratori degli Allobrogi ed a T. Volturcio, i liberti e pochi clienti di Lentulo andavano dispersi per le vie mettendo su gli artigiani e i servi a cavarlo di prigione; parte di costoro andavano pei capi della plebe, i quali per danaro solevano far tumulti nella repubblica. Cetego poi, per messi mandava pregando i servi ed i suoi liberti, gente provata ed avventata, perchè, fatto nodo, irrompessero nel suo carcere con l'armi in pugno. Il console, com' ebbe lingua di questi apparecchi, collocate le milizie come il tempo e i fatti volevano, assembrato il senato, pone il partito di quel che loro piacesse deliberare intorno a coloro che erano stati dati in custodia. Ma costoro poc'anzi in pieno senato erano stati sentenziati felloni verso lo stato. Allora D. Giunio Silano, il primo richiesto dell'avviso, perchè a quei dì era console designato, intorno a coloro che erano tenuti in custodia, e intorno a L. Cassio, P. Furio, P. Umbreno, Q. Annio, aveva giudicato, che, se cadessero in mano della balìa,

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fossero messi a morte. Poi Silano, vinto dalla diceria di G. Cesare, disse che sarebbe andato nel parere di Tiberio Nerone, il quale aveva stimato doversi tornare a deliberare, accresciute le guardie. Ma Cesare, come si venne a lui, richiesto dal console del parere, uscì in tali parole:

51. « Tutti coloro che si mettono a deliberare, padri coscritti, di dubbie cose, debbono avere gli animi scevri di odio, di amore, di maltalento, di compassione. Quando queste passioni fanno velo, difficilmente l'animo scorge il vero; nè fu uomo al mondo, che soddisfacesse ad un tempo al proprio talento ed all'utile. Se darai balìa alla ragione, l'animo signoreggia; se alle passioni, queste prevalgono, e l'animo è schiavo. Hommi a mano un tesoro di esempii, padri coscritti, di re e popoli, che, tratti dall'ira o dalla compassione, malamente si consigliarono; ma io amo meglio recare quello che i nostri avi a diritto e bellamente operarono a dispetto del proprio talento. Nella guerra Macedonica, che guerreggiammo contro il re Perseo, vi avemmo fellone e nemica la città di Rodi, vasta e splendida, venuta in fiore la mercè del romano popolo; ma, poichè a guerra finita si trattò de' Rodii, i nostri maggiori non li toccarono d'un castigo, ad impedir la fama di una guerra, impresa più per arricchire, che per vendicare. Parimente in tutte le guerre puniche, essendo spesso andati i Cartaginesi, durante la pace e le triegue, a molte scellerate ribalderie, non mai essi, avendone il destro, resero il contraccambio. Erano più teneri del proprio decoro, che del possibile a fare contro di loro secondo giustizia. A simile consiglio dovete andare, padri coscritti, perchè il delitto di P. Lentulo e degli altri non la vinca sul vostro decoro, o non vi diate più pensiero dei vostri sdegni, che della vostra fama. Imperocchè, se si trova castigo pari alle loro opere, terrò per la moderna sentenza; se la enormità del misfatto non entra in mente umana, penso doversi adoperare il già disposto

5. - LA CONGIURA DI CATILINA,

pueros, divelli liberos a parentum complexu, matres familiarum. pati, quae victoribus conlibuissent, fana atque domos spoliari, caedem, incendia fieri, postremo armis, cadaveribus, cruore atque luctu omnia compleri. sed, per deos inmortalis, quo illa oratio pertinuit? an uti vos infestos coniurationi faceret? scilicet quem res tanta et tam atrox non permovit, eum oratio accendet. non ita est; neque quoiquam mortalium iniuriae suae parvae videntur: multi eas gravius aequo habuere. sed alia aliis licentia est, P. C. qui demissi in obscuro vitam habent, si quid iracundia deliquere, pauci sciunt; fama atque fortuna eorum pares sunt: qui magno imperio praediti in excelso aetatem agunt, eorum facta cuncti mortales novere. ita in maxuma fortuna minuma licentia est; neque studere, neque odisse, sed minume irasci decet ; quae apud alios iracundia dicitur, ea in imperio superbia atque crudelitas adpellatur. equidem ego sic aestumo, P. C., omnis cruciatus minores quam facinora illorum esse; sed plerique mortales postrema meminere, et in hominibus impiis sceleris eorum obliti de poena disserunt, si ea paulo severior fuit. D. Silanum, virum fortem atque strenuum, certo scio, quae dixerit, studio rei publicae dixisse, neque illum in tanta re gratiam aut inimicitias exercere; eos mores eamque modestiam viri cognovi. verum sententia eius mihi non crudelis, quid enim in talis homines crudele fieri po

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test? sed aliena a re publica nostra videtur. nam profecto aut metus aut iniuria te subegit, Silane, consulem designatum, genus poenae novum decernere. de timore supervacaneum est disserere, quom praesertim diligentia clarissumi viri, consulis, tanta praesidia sint in armis. de poena possum equidem dicere id quod res habet; in luctu atque miseriis mortem aerumnarum requiem, non cruciatum esse, eam cuncta mortalium mala dissolvere, ultra neque curae neque gaudio locum esse. sed, per deos inmortalis, quamobrem in sententiam non addidisti, uti prius verberibus in

dalle leggi. Molti di coloro che mi precedettero nell'avviso, con eloquenza e con pompa han lamentato la calamità dello Stato; recitarono quali fossero le ferocie della guerra, quali le sorti dei vinti; vergini e fanciulli rapirsi, figliuoli dalle maternali braccia strapparsi, le madri patire qualsivoglia libidine dei vincitori, templi e palagi spogliarsi, mandarsi a fuoco ed a sangue; da ultimo empirsi tutto di armi, di morti, di sangue e di pianto. Ma, per gl'iddii immortali, a che mirò quella diceria? Forse a farvi odiare la congiura? Vale a dire, che le parole commuoveranno colui, cui non ha scosso fatto così enorme e feroce! Non va così la cosa; nissun uomo al mondo stima cose da nulla i proprii danni; molti li portarono malamente più del dovere. Ma a ciascuno la sua convenienza, padri coscritti. Coloro che vivono in basso stato, se per poco trascorsero nell'ira, pochi sel sanno; la loro fama e la fortuna vanno a pari; ma i fatti di quelli che, forniti di grande autorità stanno in alto, tutto il mondo conosce. Così nello stato più alto, la libertà è più ristretta. Nè il favorire, nè il malvolere, neppur l'ombra dell'ira è concessa; quella che negli altri chiamasi ira, nei grandi è addimandata alterigia e crudeltà. Per fermo ecco come penso, o padri coscritti: ogni supplizio essere da meno dei misfatti di loro. Ma il più degli uomini fermano l'animo alla pena e logicano intorno al castigo da dare ai ribaldi, dimentichi del loro malfatto, se per poco ecceda nel rigore. Ho per certo che le cose dette da D. Silano, uomo di senno e di forti spiriti, sono state profferite per amore della repubblica, nè che in sì grave negozio egli abbia usato favore o malevolenza; fummi conta la vita e la temperanza di cotesto uomo. Per altro l'avviso di lui non mi sembra crudele (a quale crudeltà può andarsi con questa generazione di uomini?), ma contrario alle leggi della nostra repubblica. Imperocchè per fermo o il timore o la vendetta sforzò te, o Silano, console designato, ad appigliarti a nuovo genere di pena.

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