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VI

la presa, tante me ne ritraeva sconfortato. Ma accadde, sono molti anni, che messo ad insegnare lettere italiane nel mio monastero di Monte Cassino, soleva esercitare i giovani nella traduzione dei classici latini, perchè usando molto con costoro, l'abito della mente, l'incesso del pensiero, la forma del dire, in una parola, il loro stile fosse tutta cosa romana. Il magistero di questo nesso genealogico tra le due lingue mi pareva opportuno non solo a formare scrittori, ma ad educare animi veramente italiani. Perciò detti loro Sallustio a volgarizzare; e mi misi loro appresso, come il soldato ligure dietro alle chiocciole; in guisa che, presi dalla bellezza del testo latino, senza avvedercene, dopo molto tempo ci trovammo di averlo tutto volto in italiano.

Dice Sallustio, che Mario, nella conquista di quel castello innominato, ebbe amica la fortuna, la quale volse in gloria la colpa della temerità di lui. Io, traduttore di quello storico, non aspiro a tanto. Come monaco, non ho avuto mai che fare con la fortuna. Ma se questa volesse usarmi cortesia, come si fa con persone che non si conoscono, dovrebbe volgere altrove l'attenzione dei dotti, perchè non si avvedessero di questo mio volgarizzamento. Per me la gloria, frutto della mia temerità, sarebbe ch'esso se n'andasse sulla punta dei piedi per questa valle di lagrime a raggiungere il beato numero dei più. E però non ho voluto mettergli addosso il paludamento di una prefazione, nè i sonagli di molte note di erudizione e di critica. Questa letteruccia che ti scrivo, caro frate Giobbe, basterà a mettere in salvo il suo naturale pudore; e non è poco.

O perchè dunque pubblicarlo? Rispondo: come per caso incominciai e menai a fine questo volgarizzamento, cosi anche per caso esso viene in luce per le stampe. Chi

VII

più ci pensava? Ma trovandomi un po' a disagio con gli uomini e i tempi che corrono, pensai rifarmi ai tempi passati, sperando che i morti mi sarebbero stati più benigni dei viventi. In questa retrocessione cronologica mi venne a mano il mio Sallustio italiano che narra degli antichi Romani; e mentre la bufera di fuori martellava alla finestra della mia cella, io me ne stava in senato ad ascoltare le belle orazioni di Catone, di Cesare, di Mario; visitava i morti della battaglia di Fiesole, specialmente Catilina, a vedere come i figli di Roma, buoni o tristi che fossero, erano sempre romani.

In questa tranquilla contemplazione, andavo facendo nella scorsa estate molte carezze a questo volgarizzamento, che apriva un si dolce rifugio al mio spirito impaurito. Ma intanto che mi sforzava di renderlo meno menzognero di quel che era, quasi che il manoscritto indovinasse il mio proposito di seppellirlo vivo, mi scappò dalle mani e andò a imbrancarsi (che fa l'estinto!) nel mea culpa di tutti gli altri miei libri che si ristampano. I gobbi amano le folle.

Ecco, frate Giobbe mio, in due parole la storia di questo libro. In caso di sassate, tornerò al Senato e a Fiesole. Tu poi, che in questi giorni nuvolosi mi hai guardato, per prudenza, con un occhio solo di compassione, fa ora di aprirli tutti e due, a vedermi in fronte con quale animo ti stringe la mano

Cassino, il dì dei Morti, 1887.

Al Reverendo

Frate Giobbe da Casandrino

(Provincia di Napoli.)

Il tuo
L. TOSTI.

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