Immagini della pagina
PDF
ePub

dando le discordie intestine, aveva ridata a Roma la forza di respingere e prostrare mille eserciti, anche più forti e potenti di quello dei Macedoni e d'Alessandro (17).

[ocr errors]

Ottaviano qual uomo di lettere e qual uomo di spirito, ma più ancora come abile politico non si ebbe a male di questi platonici amori di Livio, che egli contrassegnava scherzosamente col nome di Pompeiano. Ma, mettendolo a parte della sua amicizia, sia per la costante mira che egli ebbe di distaccare la propria causa da quella dello zio e di identificare se stesso col Senato, sia per il lustró che il nome di Livio prometteva così al suo secolo come alla sua famiglia —, s'interessò vivamente all'opera di lui. E un giorno gli riferì di aver letto il nome di Console sulla corazza di lino, consacrata nel tempio di Giove Feretrio da Cornelio Cosso (18). Senza grandi pretensioni da nessuna delle due parti, quest'amicizia si protrasse assai a lungo inalterata, e forse non si estinse che colla morte di Augusto: se è vero che Livio consigliò al giovinetto Claudio, il futuro imperatore nato nell'a. 10 av. Cr., di occuparsi di ricerche storiche (Suet. Claud. 41).

A noi sfugge ogni altra notizia intorno alla vita intima e famigliare di Tito Livio. Da Quintiliano, 10, 1, 39, e da Seneca, Controv. 10, 2, si apprende, che aveva un figlio ed una figlia, maritata al retore Magio. Da un cenno che egli scrive intorno alla Campania, nel trentottesimo libro delle sue storie (c. 56, 3), s'inferisce con sufficiente certezza, che egli aveva visitati quei luoghi e fatta permanenza a Napoli. E da una frase laconica di Geronimo, il quale afferma che egli morì a Padova in età di 76 anni, nel 17 d. Cr. (Augusto era morto nel 14), è permesso forse di concludere, che Livio si ritrasse in patria negli ultimi anni di vita, disgustato per le bassezze del Senato e le crudeltà di un Tiberio.

Quattordici secoli dopo la sua morte (nel 1413), additate da un'antica e costante tradizione, si scopersero a Padova nella

(17) Liv., lib. 9, cap. 17-19.

(18) Liv. 4, 20, 7.

cappella di S. Giustina (19), e fu questa opinione quasi generale tra tutti gli spiriti colti del tempo, le ossa del grande storico Padovano. Sebbene il velo, di cui il tempo le ha ormai ricoperte, non ci dia animo di rigettare o di accogliere con piena sicurezza tale leggenda, le iscrizioni sepolcrali, venute fuori dal medesimo luogo (20), ci additano che, se la grande anima di Livio non albergò proprio in quegli avanzi mortali, trovò però forse tra quei monumenti la pace del sepolcro.

Le occupazioni, che distrassero la vita a Livio in mezzo a quei mali tra cui fu costretto a condurla, furono la filosofia e la retorica. Alla prima di esse, che gli acquistò un posto notevole accanto a Cicerone e ad Asinio Pollione, egli dedicò alcune opere o dialoghi, che stando di mezzo tra la filosofia e la storia potrebbero rassomigliarsi ai λoyotoqınά di Varrone (cfr. Sen. Ep. 16, 5, 9). E, quanto alla Retorica, basterebbero le sue storie ad assicurarci, che essa occupò fortemente la prima parte della sua vita. Anzi, direi quasi che basterebbe, assai più delle Storie, a confermarcelo un giudizio di Seneca, Suas. 6, 21. Il quale, avendo ancor la fortuna di leggerle per intero, assicurava che a T. Livio non mancò mai l'occasione di tessere un elogio funebre della vita dei grandi capitani morti in battaglia. Vi sono oltre a ciò degli accenni, i quali confermando questa tendenza retorica di Livio — c’inducono a credere che, se egli non fu un vero maestro di tale arte, ne fu però cultore appassionato. In una lettera, scritta

(19) Si confronti nel C. I. L. vol. V, 1, 282, la lettera del contemporaneo Sicco Polentone, relativa a questa scoperta.

(20) Nel 1334, circa ottant'anni prima della presunta scoperta del cadavere di Livio, venne fuori dalla medesima cappella di S. Giustina un'altra iscrizione sepolcrale (cfr. C. I. L. V, 2865); la quale, senza esser punto riferita allo storico, venne fin dal principio correttamente interpretata come ricordo di un T. Livius Halys Concordialis, liberto di Livia Quarta figliuola di T. Livio. Poichè una tradizione antica e costante riferiva, che in quella medesima cappella, donde era venuto fuori quel monumento, dovesse trovarsi anche il sepolcro dei Livii, a me non pare improbabile, che in quelle stesse vicinanze si siano scoperte anche le altre due iscrizioni sepolcrali, che oggi si conservano altrove, e che accennano fuor di ogni dubbio, se non allo storico di Roma, certo alla sua famiglia, cfr. C. I. L. V, 1, 2975-6.

al proprio figliuolo, egli consigliava, al dire di Quintiliano 2, 5, 20, di studiar sopratutto Cicerone e Demostene, e poi in seguito gli altri oratori, secondo che più si avvicinassero a questi due modelli. E, deridendo le scuole dei Retori contemporanei, i quali facevan consistere tutto il segreto dell'arte nell'uso di parole antiquate e nell'oscurità del pensiero (oxeTiεiv), si appropriava acconciamente una frase assai incisiva del retore Milziade, dicendo che lo studio delle parole li facesse impazzare (Quint. 8, 2, 18 e Sen. Controv. 9, 2, 26).

Ma queste erano niente più che distrazioni passeggere del suo spirito. La sua grande preoccupazione fu la Storia di Roma, alla quale consacrò tutta quanta la sua operosità e la forza del suo ingegno. Essa incomincia coll'arrivo di Enea in Italia, e si estende fino alla morte di Druso, cioè all'a. 745 di R. Giacchè è questo appunto l'ultimo fatto, che di quella si ricordi (21); nè vi è argomento alcuno per sospettare che Livio sia andato più in là di tale epoca. Alcuni, notando che il Compendio di Floro si ferma alla morte di Augusto, ne han concluso che questo foss'anche il termine delle Storie di Livio. Ma essi non badano che Floro, quasi in ogni capitolo del suo compendio, ha messo a partito oltre a Livio anche altre fonti; dalle quali potè appunto desumere i pochi fatti, che seguono alla morte di Druso e che non hanno alcuna caratteristica liviana. Ad onta di ciò, egli è certo che la morte di Druso non era un evento di tanta importanza, da far di essa il termine di una così grandiosa rappresentazione storica. Sicchè, se l'opera di Livio ebbe qui fine, vorrà forse dire solamente, che la morte o altre circostanze troncarono a quel punto la sua attività di scrittore. Fors'egli ebbe veramente l'intenzione di condurre l'opera sua fino alla morte di Augusto, il cui impero era considerato anche da Tacito come il principio di un'êra nuova. E pensava, chi sa, di rag

(21) Nel codice Nazariano, che ci ha conservate raccolte insieme tutte quante le perioche dei libri di Livio (ad eccezione di quelle dei libri 136 e 137), si leggono sulla fine queste parole: « corpus Drusi Romam pervectum et in tumulo C. Iuli reconditum. Laudatus est a Caesare Augusto vitrico, et supremis eius plures honores dati ».

giungere non solamente il termine naturale della sua storia; ma di completare pur anche, colla narrazione di quegli ultimi eventi (22 anni di storia), il numero complessivo di 150 libri, che ora invece è interrotto al 142.

Di quest'opera così grandiosa a noi non resta che una piccola parte, e cioè soli 35 libri, due dei quali, il 41 e il 43, son per di più incompleti. Mancano interamente i libri dall'11 al 20 e dal 46 al 142. L'ultimo, che ne avesse ancor notizia completa, fu il grammatico Prisciano sulla fine del V secolo. Dopo di lui la tradizione si chiude, e l'oblio ricopre per sempre la parte maggiore e più notevole di quest'opera, sia per la sua mole immensa che impedì ai copisti di trascriverla per intero (22), sia per l'odio a cui essa fu fatta segno dall'imperatore Caligola e dal pontefice Gregorio Magno. I quali ne ordinarono la distruzione e la remozione da tutte quante le pubbliche Biblioteche (Suet. Calig. 34). Nè la speranza, che di tempo in tempo si è ravvivata, di poterla quando che sia riacquistare, alletta oramai più nessuno, dopo le tante disillusioni avute e dopo gli scarsi frammenti ritrovati nella biblioteca vaticana dal Bruns nell'a. 1772 (23).

A noi è anche ignoto il titolo preciso, sotto di cui Livio la pubblicò la prima volta. Alcuni, mettendo a partito una frase adoperata da Livio stesso per contrassegnare il genere di scritti, tra i quali egli collocava la propria esposizione (cfr. 43, 13, 2, in meos Annales referam), credono che la denominasse Annales. Altri invece, seguendo l'esempio dato dal

(22) Cfr. Martial. Epigr. 14, 190:

Pellibus exiguis artatur Livius ingens,
Quem mea non totum bibliotheca capit.

Forse già a tempo di Marziale l'opera di Livio cominciava a diventar rara, sicchè non era riuscito nemmeno a lui di possederla intera.

(23) Oltre al frammento scoperto dal Bruns nel 1772, che si riferisce alla guerra combattuta con Sertorio in Ispagna e narrata nel XCI libro, lo Schneidewin scoperse nel 1843 un breve frammento del CXXXV libro, e l'Otho nel 1850, in uno scoliasta di Lucano, alcuni brevissimi cenni d'ignota sede. Nel 1903 furono trovati ad Ossirinco frammenti papiracei di una nuova Epitome liviana, che rimonta forse al terzo secolo d. Cr., cfr. l'edizione che ne fu curata prima dal ROSSBACH e poi dal KORNEMANN, in Beiträge z. alten Gesch., Leipzig 1904.

[merged small][ocr errors]

Sigonio, la intitolarono historiarum ab Urbe condita libri, giustificando tale indicazione con una frase poco precisa, che si legge di ciò stesso in Plinio (24). Se però si bada a quella testimonianza di Servio, ad Aen. 1, 373, in cui si afferma espressamente, che l'opera di Livio consta insieme di storia e di annali, tanto l'una che l'altra indicazione parrà inverosimile. E, poichè l'Autore stesso vi si riferisce non poche volte colla semplice indicazione dei libri, in cui essa era divisa (cfr. 6, 1, 1 quinque libris exposui), il titolo più conforme alla sua natura parrà quello di T. Livi ab urbe condita libri. Il quale corrisponde sia alle indicazioni dei grammatici e dei codici più antichi e pregiati, sia al titolo stesso adottato per le periochae e per il breviarium di Eutropio (25). Oltre a questo titolo generale dell'opera, che ricorda assai da vicino quello degli Annali di Tacito ab excessu divi Augusti, le singole parti di essa dovevano anche avere dei titoli speciali, come gli otto libri della guerra civile dal 109 al 116, e i quattro libri dove si tratta delle guerre sannitiche (cfr. 10, 31, 10).

Le grandiose proporzioni, che assunse quest'opera nel suo svolgimento, c'inducono a credere che Livio vi spendesse attorno la maggior parte della vita. Il che rende di per sè solo assai poco verosimile la congettura del Niebuhr, che la prima decade fosse pubblicata soltanto dopo l'anno 745 di Roma. Il Niebuhr fonda questa sua opinione sopra quel cenno del libro nono di Livio (c. 36, 1), dove si afferma che la selva Ciminia in Etruria era più impraticata e sconosciuta ai Romani del 444 U. c. di quel che non fossero a suo tempo le foreste germaniche. E riconosce in questo raffronto l'effetto delle conquiste compiute in Germania da Druso. Sennonchè ci torna facile intendere, che i Romani non avevano bisogno di aspettare gli anni 742 e 745 di Roma, per acquistar la vaga conoscenza a cui qui

(24) Plinio N. H. Praef. 16: « T. Livium ... in historiarum suarum, quas repetit ab origine urbis, quodam volumine sic orsum ».

(25) Il codice veronese del VI sec., il viennese del VI o VII, il Puteanus del VII o VIII, la recensione di Vittoriano e dei due Nicomachi del V sec. e il cod. Bambergense della quarta decade hanno tutti, quasi costantemente, come epilogo dei singoli libri: T. Livi ab urbe condita Liber I, etc.

« IndietroContinua »