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liani; c'era questo gran fatto, che scrivendo latino, i nostri padri si ricordavano di essere stati i padroni del mondo, e quindi amavano quella lingua perchè la sentivano come cosa che faceva parte della loro vita nazionale; e non sapevano distaccarsene; ed avendo pure oramai smarrita tutta o gran parte della civiltà che era da quella lingua rappresentata, si afferravano alle parole, si tenevano strettamente abbracciati ad un povero segno, senza accorgersi ch'esso era vuoto, e che l'idea che già rappresentava era irrevocabilmente fuggita dalla terra latina. La Gallia, ha detto uno scrittore moderno, fu più fortemente impregnata di barbarie che l'Italia e la Spagna: e quella barbarie affrettò lo sviluppo della lingua e della letteratura volgare. Vera ed assoluta e piena conquista fu quella dei Franchi. E, non inutile a ricordarsi, le ragioni stesse che imponendo alla Gallia la dominazione franca apparecchiavano la nazionalità francese, impedivano la nazionalità italiana. Dal giorno che Clovi, vincitore a Tolbiac, pati le superbe parole: mitis depone colla, sicamber, da quel giorno tutta la Gallia fu sua; per lui combatteva la potenza sacerdotale, la quale sapeva e diceva che dovunque le armi franche pugnassero, essa vinceva (1). Così alla morte di Clovi (an. 511), « tous les éléments qui doivent enfanter la nationalité française ont achevé de se juxtaposer sur le sol gaulois: la Gaule n'est plus une province d'un immense empire, et tend à se constituer en un nouvel édifice politique dont une race étrangère vient d'apporter le ciment » (2).

Tutto il rovescio in Italia, dove Eruli, Visigoti, Ostrogoti, Longobardi si succedono, senza penetrare la società, combattuti da quella forza medesima che ai Franchi dava la Gallia. Se Teodorico o Liutprando fossero stati il Clovi dell'Italia, chi sa quale diversa condizione si sarebbe apparecchiata al nostro paese! Ma noi appena toccò la tabe barbarica, salvati dalla pietà papale di Roma! E rimanemmo romani: romani della decadenza in tutto, nelle idee, nei sentimenti, e per conseguenza anco nella lingua. La religione parlava il latino (3), parlavano il latino le

(1) Parole che al novello battezzato di Reims scriveva Avito vescovo di Vienna. (2) H. Martin, Histoire de France, I., 462.

Il motivo medesimo (scrive il signor Galvani), cioè il lusingare e dirigere la propria età le cui forti passioni il poeta quasi ha stillate nell'anima, là (in Francia) faranno abbandonare il latino qua il manterranno contro i tempi già consumati: là il nuovo canto, siccome la parola della vita presente, scoterà la intera nazione; qua, siccome l'eco della morte, si circonderà anche per poco di memoria e di speranze », Verità delle Dottr. Perticar., 321,

(3) In Francia le prescrizioni del rito romano furono presto messe in dimenticanza, mentre durarono tenacissime in Italia. Quindi là i canti ed i salmi in lingua volgare furono comunemente usati fino dal X secolo. La Farsia, l'Epistola farsita non esiste in Italia. Il diacono cantava un verso latino, e il popolo ripeteva questo verso ampliato o commentato, in volgare. Questa mescolanza di più lingue prese il nome di farsia. Raynouard ne reca un esempio (Choix ecc. II): Planch de Sant Esteve

4

<< Sezetz, senhors, e aiats pas:

So que direm ben escoutas;
Car la lisson es de vertat;
Non hy a mot de falsetat.

Lectio Actuum Apostolorum.

Esta lisson que legirem

Dels fachs dels apostols trayrem;

Lo dic San Luc recontarem;

De Sant Esteve parlarem.

In diebus illis etc.

En aquel temps que dieus fo nat

Et fo de mort resuscitat,

Et pueys el cel el fo puiat,

Sant Esteve fo lapidat.

Stephanus plenus gratia et fortitudine

faciebat prodigia et signa magna in populo.

Auiats, senhors, per qual razon

Lo lapideron li fellon,

Car connogron dieus en el fon.

Et fec miracla par son don, etc.

BARTOLI. Letteratura Italiana.

leggi: una qualche coltura durò in Italia costantemente. Bastano pochi nomi e pochi fatti a provarlo. Severino Boezio, Cassiodoro, Aratore, Venanzio, Ennodio appartengono come ognun sa, al secolo VI. Lo studio della grammatica e la scienza dei canoni non vennero mai meno a Roma, dal VI all' VIII (1); appresso, il tentativo di Carlomagno infuse per un momento al latino nuova apparenza di vita; e così esso continuò non solo ad essere inteso dagli Italiani, ma ad essere scritto da molti di loro, e formò una letteratura sui generis, che non aveva di latino più nulla, e che pure si copriva non diremo di veste ma di cenci latini

Fra la lingua parlata e la scritta c'era dunque separazione e quasi diremmo nimicizia. C'erano come due forze, una delle quali legava e attraeva gli Italiani al passato, l'altra li sospingeva verso l'avvenire. Era una battaglia, anche allora, come fu tante volte poi, tra il vecchio ed il nuovo; quando già doveva trionfare la lingua popolare nell'uso quotidiano, la letteratura seguitava latina, e si sforzava di tenersi stretta agli esempi classici, sebbene non sempre le riuscisse. E quando non le riuseiva, produceva canti come quello del sec. IX, per l'imprigionamento di Lodovico II imperatore (2):

<< Audite omnes fines terrae errore cum tristitia,
Quale scelus fuit factum Benevento Civitas.
Ludhuicum comprehenderunt sancto, pio, augusto,
Beneventani se adunarunt ad unum consilium.
Adalferio loquebatur et dicebat Principi:

Si nos eum vivum dimittemus, certe nos peribimus.
Celus magnum praeparavit in istam Provinciam :
Regnum nostrum nobis tollit; nos habet pro nihilum.
Plures mala nobis fecit; rectum est ut mori ad.
Deposuerunt sancto pio de suo Palatio:
Adelferio illum ducebat usque ad Pretorium;
Ille vero gaude visum tanquam ad martirium,
Exierunt Sado et Saducto inoviabant imperio.

Et ipse sancte pius incipiebat dicere;

Tanquam ad latronem venistis cum gladiis et fustibus;
Fuit jam namque tempus vos allevavit in omnibus,

Cf. Mémoires de l'Acad. des Inscript. et B. L., XVIII. — Journal des savants, an. 1844. In Francia si dovè cessare assai prima che in Italia d' intendere il latino. Tutti sanno che il Concilio di Tours, an. 813, ordinava ai vescovi di far tradurre le loro omelie in rustica romana lingua (Muratori, Ant. Ital., II, 1018); e nel 972 Notger vescovo a Liegi predicava al popolo in lingua volgare, e al clero in latino:

<< Vulgari plebem, clerum sermone latino
Erudiit. »

(1) Cf. Muratori. Ant. Ital., Diss. 43. Citiamo alcuni brani della bella lezione del Fauriel: Le latin en Italie au moyen age: « Après l'établissement des Lombards le latin, si déchu qu'il pùt être déjà, si exposé qu'il fût nécessairement à déchoir de plus en plus, comme langue littéraire, resta comme auparavant la langue de la société romaine... Quant à l'emploi politique civil ou religieux du latin, il n'y eut non plus rien de changé. Les lois continuèrent à être rédigées, étudiées et appliquées en latin; les sentances des tribunaux de tout ordre ne cessèrent point d'être prononcées dans la même lengue. Enfin, ce fut aussi en latin que continuèrent à être formulées les transactions entre particuliers.... C'était en latin que le christianisme avait été prêché en Italie; ce fut en latin qu'il continua à y parler aux peuples, durant le moyen âge.... Sous l'influence et sous les yeux des papes, la discipline liturgique du christianisme se maintint mieux (en Italie); de sorte que le latin resté là l'unique idiome du culte, y conserva toutes les chances qui résultaient pour lui de cette espèce de consécration. Mais ce ne fut pas seulement dans la liturgie chrétienne que le latin se maintint mieux et plus longtemps en Italie... ce fut aussi dans l'enseignement religieux.... Aussi, après la chute de l'empire d'occident, le latin resta-t-il en Italie T'idiome de la prédication chrétienne ».

(2) E noto che dobbiamo la pubblicazione di questo documento importantissimo al nostro gran Muratori. Su di esso vedasi pure Du Méril, Poésies populaires latines antérieures au XII siècle, pag. 264.

Modo vero surrexistis adversus me consilium.
Nescio pro quid causam vultis me occidere.
Generatio crudelis veni interficere,

Ecclesie que sanctis Dei venio diligere;

Sanguine veni vindicare, quod super terram fusus est.
Kalidus ille, tentator ratum adque nomine

Coronam Imperii sibi in caput ponet et dicebat Populo:
Ecce sumus Imperator; possum vobis regere.
Leto animo habebat de illo quo fecerat.

A demonio vexatur, ad terram ceciderat.
Exierunt multae turmae videre mirabilia.

Magnus Dominus Jesus Christus judicavit judicium;
Multa gens paganorum exit in Calabria,
Super Salerno pervenerunt possidere civitas.
Juratum est ad Sancte Dei Reliquie

Ipse Regnum defendendum et alium requirere. >

come l'altro del secolo X dei soldati modenesi (1):
<< O tu qui servas armis ista moenia,

Noli dormire, moneo, sed vigila.
Dum Hector vigil extitit in Troja,
Non eum cepit fraudolenta Graecia.
Prima quiete dormiente Troja,

Laxavit Sinon fallax claustra perfida.
Per funem lapsa occultata agmina,
Invadunt Urbem et incendunt Pergama.
Vigili voce avis anser candida
Fugavit Gallos ex Arce Romulea :
Pro qua virtute facta est argentea,
Et a Romanis adorata ut Dea.
Nos adoremus celsa Christi numina,
Illi canora demus nostra jubila.
Illius magna fisi sub custodia,
Haec vigilantes jubilemus carmina.
Divina, mundi Rex Christe, custodia,
Sub tua serva haec castra vigilia.
Tu murus tuis sis inexpugnabilis,
Sis inimicis hostis tu terribilis.

Te vigilante, nulla nocet fortia,

Qui cuncta fugas procul arma bellica.
Tu cinge haec nostra, Christe, munimina,
Defendens ea sua forti lancea.

Sancta Maria Mater Christi splendida,
Haec cum Joanne, Theotocos, impetra.
Quorum hic sancta veneramus pignora,
Et quibus ista sunt sacrata numina,
Quo duce victrix est in bello dextera,
Et sine ipso nihil valent jacula.
Fortis juventus, virtus audax, bellica,
Vestra per muros audiantur Carmina:
Et sit in armis alterna vigilia

Ne fraus hostilis haec invadat moenia.
Resultet Echo comes: eja vigilia
Per muros eja dicat Echo vigilia. »

(1) Anche di questo fu primo editore il Muratori, Ved. pure Du Méril. op. cit. pag. 268.

Fra questi due canti c'è differenza. Il primo è più ricco di volgarità, ci rappresenta meglio, ci fa più facilmente indovinare quale fosse la lingua parlata. La frase è italiana, ma è un italiano che ha la pretensione di camuffarsi alla latina (1). Il secondo è meno volgare, e pure è scritto un secolo dopo: onde ci è indizio dello sforzo che la letteratura popolare faceva per mantenersi stretta al classicismo latino. Vedete, i cittadini di Modena cantano parole che certo intendevano, ma che certo non parlavano nell'uso comune della vita: si eccitano alla vigilanza e al valore non solo con vocaboli latini, ma con esempi classici, mescolando Troja ed Ettore a Cristo, e invocando con una parola greca la madonna.

Quel canto ci raffigura quasi lo stato delle menti in Italia in quei secoli: i dialetti rustici latini hanno preso un grande sviluppo: « ogni anno si fa un passo verso un nuovo linguaggio », ha detto il Lanzi; la lingua parlata, nella sua piena libertà, si trasforma di giorno in giorno; ma a ritardare quello sviluppo rimane una mezza letteratura latina, una letteratura che aspira alle forme del vecchio classicismo, una letteratura alla quale gli Italiani sono affezionati. I soldati di Modena non sono più latini, e pure colla parola latina illudono quasi sè medesimi, e mettono la rettorica in luogo del sentimento. Meno di rettorica usa l'autore del ritmo istorico di Lodovico, e la sua lingua si avvicina più, o, forse, si scosta meno dal volgare.

È egli possibile di supporre che queste due fossero le sole poesie composte dagli Italiani nei secoli IX, X e XI? O non ci sono piuttosto esse indizio certo di una letteratura nazionale latina perdurante in Italia? non ci sono indizio, secondo la bella osservazione del Fauriel, che le genti italiane prendevano parte agli avvenimenti del loro paese, e che ad esprimere i loro sentimenti adoperavano una lingua che doveva essere ancora intesa, se non dalle infime classi, almeno dalle mezzane? Nė altri saggi di scritture latine popolari non mancano, ed ognuno sa quanto ancora rimanga da fare in Italia intorno a questo argomento, quanto da dissotterrare nelle biblioteche e negli archivii, troppo inesplorati fin qui. Eppure nella stessa povertà c'è ricchezza. Quanta abbondanza di cronisti! Basta gettare uno sguardo sulla grande Raccolta del Muratori, basta leggere alcune di quelle pagine per farsi un'idea chiara di quell'ingenuo e famigliare latino, che già prenunzia l'arte volgare del duecento e del trecento. Poi canti religiosi, leggende, sermoni, omelie, vite di santi; tutta una letteratura di chiesa: poi ancora storie, tragedie e commedie in versi, come quelle attribuite al Petrarca e ad Albertino Mussato (2), e un tentativo di romanzo cavalleresco (3), e poesie d'ogni genere, giù giù da Alfano, da Guglielmo Pugliese, da Donizone, da Lorenzo Diacono fino a Pier delle Vigne, che pur cantando già in volgare, satireggia in latino contro la chiesa di Roma (4).

(1) « Le ton, le style, le caractère, le mouvement en sont d'un autre idiome, dont le génie a dominé à leur insu les hommes qui l'ont composée ». Fauriel, op. cit. II, 410.

(2) Sulla commedia dell'Eccidio di Cesena, attribuita al Petrarca, ved. un lavoro del signor Gori nell'Arch. Stor. Ital. N. 5, VIII. La tragedia l'Achille, che si disse di Albertino Mussato, pare invece che sia di Antonio Loschi. Cf. Da Schio, Elenco delle opere del Loschi, 131.

(3) Cf. Muratori, Ant. Ital., Diss. 44.

(4) Ved. in Du Méril, Poés. pop. lat. du moyen âge, 163. Eccone un saggio:

Vehementi nimium commotus dolore,
Sermonem aggredior furibondi more
Et quosdam redarguam in meo furore,
Nullum mordens odio vel palpans amore.

In praelatis igitur primo docens figo,
Quorum vita subditis mortis est origo,
Et malorum omnium corrodit rubigo
Per quam grex inficitur, dum serpit serpige.

Perchè, questo è da notare, che il latino in Italia non cessa neppure col manifestarsi della letteratura volgare, ma continua anzi ad essere quasi diremmo più che mai la lingua della chiesa, de' dottori, de' principi, delle signorie. La stessa repubblica di Firenze, sede privilegiata della bella lingua del si, non s'arrischia (dice il Capponi) al volgare, fin dopo alla metà del secolo XIV (1).

Questa ricca letteratura volgare in lingua latina è dunque là ad attestarci due fatti il primo, che essa lingua latina seguitava ad essere facilmente compresa dal più degli Italiani; il secondo, che quella letteratura fu per molto tempo la cagione sola che ritardò il pieno trionfo della lingua parlata, la quale ogni giorno sottostava a nuove modificazioni, e andava incessantemente volgarizzandosi. (2) Questo periodo preistorico della lingua italiana è lungo; ma noi possiamo oggi fino ad un certo punto indurre qual fosse, mercè il confronto colle lingue sorelle. Il francese ed il provenzale ebbero la fortuna di manifestarsi per una via schiettamente popolare; le prime composizioni nei due dialetti franco-gallici, raccolte dalla viva voce del popolo, ci dicono come il popolo parlasse. Vedremo in progresso perchè questo non accadesse in Italia. Or che cos'è il dialetto della Francia settentrionale e meridionale nel nono e nel decimo secolo? È un dialetto semi-latino, è un punto in

Est abominabilis praelatorum vita,
Quibus est cor felleum linguaque mellita;
Dulce canit fistula eorum, et vita
Propinant, ypomenis miscent aconita.

Fur et gregem rapiat et perdat et mactet,
Et praelatus praeparat, non ut eum lactet,
Sed ut pravis usibus lac et lanam tractet,
Cum spem non in Domino sed in nummis jactet.

Advocati, medici et procuratores,
Tutores et judices sunt et curatores,
Voluntatis ultimae sunt ordinatores,
Fidecommissarii et executores.

Cunctorum contractuum sunt mediatores.
Defensores criminum et palliatores;
Si dentur enxennia, sunt adulatores;
Si cessant servitia, sunt attentatores.

Ergo mimi merito vel joculatores
Dici possunt, saeculi vel baratatores;
Aliorum ordinum fiunt contemptores,
Nam se credunt aliis excellentiores.

Di questo ritmo scrive il Fauriel: « C'est un chant satirique des plus hardis et des plus amers contre la cour de Rome, chant évidemment destiné à circuler dans toute l'Italie pour y rendre l'empereur populaire aux dépens des papes et du clergé, représentés sous le jour le plus odieux. Tout, dans l'exécution de la pièce, répond à ce motif: le mètre du vers à cette époque déjà vulgaire, la division en couplets, la rime et le latin lui-même, qui, bien que passablement grammatical, n'en est pas moins à-peu-près aussi rude et aussi plat que possible. »

(1) Il marchese G. Capponi dice che la lingua scritta si trasse dal dialetto toscano, perchè questo era assai più degli altri accosto al latino, che è a dire alla lingua solenne della nazione; la qual vicinanza faceva che da tutti gli abitatori di questa fosse più inteso naturalmente. Vedi Della Volg. Eloquenz, di D. Alighieri Milano 1868. Bella osservazione e vera, purchè accolta sotto certe riserve.

(2) Quello che il signor Meyer scrive della Francia, tanto più può applicarsi all'Italia: «La lenteur de l'idiome vulgaire à s'élever à l'écriture, et la ténacité avec laquelle

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