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cui ci accingemmo sia riuscita di qualche pratica utilità non dobbiamo noi giudicarlo. A noi basta come compenso del lungo e laborioso lavoro il vedere. che molti giovani ponendosi per questa medesima via, hanno già dato importanti Memorie alla Storia letteraria. E tra questi ci sia permesso di ricordare alcuni nostri scolari carissimi, il dottor Guido Biagi autore del bello studio. sul testo del Novellino; il prof. Felice Bariola, che ha così acutamente scritto di Cecco d'Ascoli, e che prepara l'edizione critica dell' Acerba; il prof. Alfredo Straccali, indagatore della storia dei Goliardi; il prof. Antonio Lombardi, che da parecchi anni lavora sulle Commedie del Cecchi; e finalmente il dottor Carlo Verzone che darà presto un'edizione del Lasca, la quale riuscirà cosa. affatto nuova e di straordinaria importanza, e il prof. Nicola Arnone che sta stampando il testo critico delle Rime del Cavalcanti. È questa la ricompensa più desiderata da noi, e l'unica che ci incoraggisca a proseguire nella spinosa via degli studi e dell'insegnamento. È questa la nostra risposta ai malevoli d'ogni genere, che ci ronzano molestamente d'intorno.

Firenze, Dicembre 1880.

A. BARTOLI.

CAPITOLO PRIMO.

ORIGINI DELLA LINGUA ITALIANA.

Quando Roma mandava le sue legioni a conquistare l'Italia, la Spagna e la Gallia, essa non avrebbe certo pensato che quelle armi portavano con sè qualche cosa che avrebbe sopravvissuto a lei stessa, ricongiungendola anche dal suo sepolcro alle più lontane generazioni. E quando i popoli di quelle terre combattevano per la loro indipendenza, chi avrebbe detto ad essi: i vostri più tardi figliuoli parleranno quella lingua medesima che ora vi suona barbara e detestata sulle labbra dei vostri nemici? I furori delle guerre e delle conquiste passeranno; passerà la potenza e la grandezza di questo popolo che viene oggi a soggiogarvi; voi vedrete vinte, incatenate, umiliate le superbe aquile romane; quel nome che fu terrore del mondo, sarà cancellato, e pure il suggello della conquista rimarrà indelebile sopra di voi, rimarrà sul labbro di cento generazioni che usciranno da voi, e che si glorieranno di essere eredi della favella e dello spirito latino? Cosi fu. L'antica civiltà della Magna Grecia e dell' Etruria, la forte Gallia e la Spagna si romanizzarono, non solo nelle idee e nelle leggi, ma anche nella lingua, la quale, non imposta già dalla forza, ma accolta anzi spontaneamente, divenne come cosa propria di quei popoli, che andarono a poco a poco dimenticando o spregiando la favella loro nativa, per amore della nuova che veniva da Roma, madre e signora del mondo (1). Lenta, graduale, difficile, ebbe ad essere da principio la sostituzione del latino agli idiomi indigeni; e se pure mancassero i fatti a provarlo, sarebbe agevole intendere che alcuni di quegli idiomi più degli altri doverono resistere, che alcuni anzi non si lasciarono o per lungo tempo o mai sradicare affatto dal suolo dove eran nati, dove li aveano alimentati e cresciuti il tempo, le tradizioni, la civiltà. L'Etruria, per esempio, che fu già « principe della gentilezza italiana », non ebbe a cedere il campo senza contrasti al fortunato nemico, al quale essa aveva date le prime pompe della maestà ed insegnate le arti del lusso. Così gli Iberi, gli Aquitani, i Galli, i Celti, chi più lungamente chi meno, conservarono i loro dialetti finchè fu possibile; finchè l'onda sempre crescente, che dalla grande Città si allargava tempestosa, non ebbe tutto sommerso, città e campagne, piani e monti, palazzi e tugurii. L'esempio di Cuma resta unico, per ora, nella storia; e noi vorremmo poterlo creder non vero! Le condizioni però di questa

(1) I popoli Italici divengono tutti legalmente bilingui, scrive il signor Galvani, e nei due idiomi che usano, ossiano il vario vernacolo ed il comune Romano, al primo accordano una vita passiva che il tempo farà sempre più bassa, al secondo una vita attiva ch'esso tempo potrà rendere connaturale. Rimane così il primo, municipale proprietà ed eccezionalità non più ambita, ma spesso voluta nascondere: vive e vivrà invece il secondo negli scritti, nella celebrità dei fòri e tra le bocche di tutti i gentili... Il dire Romano, meglio che imposto agli Italici, creduto conquistato dai medesimi, si usa oggimai da loro come propria cosa. » Delle genti e delle favelle loro in Italia, 215.

BARTOLI. Letteratura Italiana.

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lotta tra le lingue indigene dei vinti, e la lingua de' vincitori, offre in Italia caratteri speciali. Qui il dialetto del Lazio non dovè essere considerato come affatto straniero; qui dovè essergli più facile aprirsi la via, ed imporsi, e dominare sovrano, specialmente tra le popolazioni umbre ed osche che forse sentivano la fratellanza antica che già le avea congiunte ai Latini. Onde è che, mentre la Gallia (1), la Spagna (2), l'Illiria non perderono e non dimenticarono affatto le loro lingue prelatine, le dimenticò invece l'Italia, e siffattamente, da essersene cancellata ogni traccia, assorbendo essa il nuovo idioma di Roma, connaturandolo a sè, immedesimandolo alla propria storia per guisa che le fu poi molto difficile e faticoso spogliarsene, e seguitò anzi ad usarlo anche quando la civiltà latina era già tutta spenta, quando era già sorta un'altra lingua, segno e frutto di un'altra civiltà.

Per lungo tempo l'origine delle lingue romane fu argomento a varie e non sempre ragionevoli ipotesi. Esaminiamo, per rispetto all'italiano, alcune delle principali, di quelle che ebbero una maggiore autorità. Il Giambullari, dotto uomo dell' erudito cinquecento, compose un libro apposito per discorrere le origini della lingua ch'egli chiamava fiorentina; e rigettando come assurda la opinione che la faceva derivare dalla corruzione del latino, si fece a dimostrare con erudizione pomposa che era invece un componimento di varie lingue, di etrusco, di greco, di latino, di tedesco, di francese, e che derivava principalmente dall'arameo, padre fortunato dell'etrusco e dell'ebraico. Siffatta stranezza ha riscontro in quella del Guichard e del Thomassin, i quali dalla lingua ebraica vollero far derivare il francese. Meno strana ci si presenta la opinione del Bembo, il quale, dopo avere sentenziato, con quella sua forma più pettoruta che grave, essere impossibile di sapere appunto quando la lingua italiana nascesse, quanto poi al modo onde nacque, soggiunge, che fu senza dubbio dal latino, andatosi via via modificando, alterando, rinnovando per opera delle lingue parlate dai barbari: per cui accadde che in processo di tempo ne uscì fuori una lingua nuova, la quale ritenne « alcun odore e dell'una e delle altre » (3). Uguale opinione tennero altri oracoli del cinquecento, lo Speroni ed il Muzio (4); nè se ne scostò troppo il Varchi, il quale, come è noto, scriveva che dai mali portati all'Italia dai barbari nacquero due beni, la lingua volgare e la città di Venezia. Il Muzio, anzi, andò più oltre ancora, ed uscì in quella singolare opinione, che avendo i Romani più che gli altri uomini d'Italia ritenuto del latino, ed i popoli settentrionali d' Italia più del barbaro, accadde che ai Toscani posti tra gli uni e gli altri << sia tra questi due estremi venuta fatta una mescolanza tale, quale ella si vede più che altrove bella e leggiadra. » Nè fu solo il secolo XVI a credere derivata la lingua italiana dalla corruzione che i popoli germanici imposero, quasi diremmo, al latino; che anzi tale ipotesi si è riprodotta ai tempi moderni, e di essa sonosi fatti propugnatori parecchi scrittori, tra' quali ci basterà di citare il Lewis, lo Schlegel e Max Müller. Il quale ultimo, a cui nessuno può ricusare autorità somma nel campo filologico, si argomenta di provare che le lingue romane non sono altro che il latino modificato dai popoli germanici, e rappresentano, non già il latino quale sarebbe andato sviluppandosi secondo le proprie leggi naturali, ma quale invece se lo appropriarono le genti alemanne; o, in altre parole, il latino passato dalle bocche romane alle bocche tedesche. (5)

(1) Da un passo della Vita di San Martino, scritta da Sulpizio Severo, pare che nell'Armorica e nell' Aquitania si parlasse ancora la lingua gallica e la celtica nel V secolo; « Tu vero.... vel celtice, aut si mavis gallice loquere, dummodo jam Martinum loquaris ». (2) La Cronaca di Liutprando dice che nel secolo VIII in Ispagna si parlavano dieci lingue. Anche senza credere a « tout ce gàchis de langues », queste parole'hanno un'importanza che non può essere disconosciuta.

(3) BEMBO, Prose, Lib. I, 33.

(4) Dialogo delle lingue. - Battaglie per la difesa dell' Italica lingua.

(5) Über deutsche Schattirung romanischer Worte, nella Zeitschrift für Vergleichende Sprachforschung di KUNH, V, 11 e segg.

Altri invece volle negare e respingere ogni influenza germanica, che operasse, comecchessia, sulla lingua latina. E fu tra questi il Muratori, il quale, come ognun sa, trattò con diffusione il difficile argomento, dando prova anche in esso della mente perspicace e della grande dottrina che segnalarono quel sommo padre e maestro. della storia italiana (1). Secondo lui, fino dai primi secoli dell'éra volgare la lingua latina era in Roma stessa scaduta dalla sua naturale purità, ed aveva presso il volgo contratto un colore di barbarie, sia per la influenza delle lingue parlate prima della conquista romana e non estinte mai, sia ancora per la naturale tendenza. che hanno le lingue a cangiare e lentamente trasformarsi. Questa mutazione andò operandosi a poco a poco, e si accele ò poi nei tempi delle invasioni barbariche. Cosi, quanto più l'italiano fu vicino alle sue origini latine, tanto meno ebbe di novità e meno da esse discordò; mentre quanto più andò allontanandosene, tanto più divenne dissomigliante, ed ammettendo parole straniere, e cambiando terminazioni e forme di dire, prese come un colorito di lingua nuova e diversa. Per il Muratori è cosa manifesta ed incontrastabile che l'italiano, il francese e lo spagnuolo nacquero dalla corruzione del latino, o, per usare le parole sue proprie, uscirono dal sepolcro di quello. Fu uno svolgimento naturale e spontaneo, furono leggi generali e necessarie che trasformarono la lingua latina negli idiomi neo-latini.

Questa opinione, che accoglie in sè una gran parte del vero, che può anzi dirsi vera, pur che sia meglio determinata e circoscritta, questa opinione ebbe tra i moderni non pochi sostenitori, i quali però, in luogo di perfezionarla, ci sembra che la guastassero, specialmente quelli, come il Fernow (2), che pretesero dare una grande importanza agli antichi dialetti italici, a quei dialetti di cui la maggior parte ed i più importanti rimangono tuttavia un'incognita per i linguisti. Udiamo un italiano, sostenitore di questa opinione, il quale ne dice che i dialetti indigeni << equilibrando le forze proprie col dialetto latino, com'esso andava deponendo il suo carattere letterale, agirono con mutua vicenda e s'influirono in guisa, che tanto gli uni comunicarono del proprio carattere all'altro, quanto questo veniva perdendo di autorità» (3). Tali parole riassumono in qualche modo la teoria di quegli scrittori i quali, nell'italiano, come nelle altre lingue romane, non vollero vedere che una vittoria de' dialetti preesistenti al latino, sul latino stesso che gli aveva per un momento soffocati, non vinti mai nè distrutti. Senza parlare del Duclos e del La Ravalière, noi sappiamo essersi fatto strenuo campione di questa teoria il Bruce Whyte (4), il quale vide il celtico dappertutto, e principalmente dal celtico derivò le lingue romane. Tali sistemi, osserva giustamente uno scrittore moderno, non hanno più bisogno di essere confutati (5). È questa una di quelle teorie a priori che oggi fortunatamente sono rejette dalla scienza, la quale, dopo avere per troppo lungo tempo vagato ne' campi nebulosi della deduzione, si è finalmente appropriato il metodo induttivo, e con questo solo vuol procedere innanzi, calma, ferma, sicura. Per sostenere predominante l'influenza dei dialetti indigeni dell'Italia, occorrerebbe prima avere stabilito con sicurezza quali popoli abitassero la penisola e quali lingue parlassero. Ma con tutti gli studi già fatti e con tutti quelli che seguitano a farsi, la questione rimane insoluta: segno, se non altro, della somma sua difficoltà. Gli scrittori più recenti e più autorevoli ci parlano di Japigi, di Etruschi, di Italioti; e della lingua degli Japigi confessano non essere ancora decifrata; di quella degli Etruschi non sapersi ancora nemmeno come classificarla; ignorarsi quasi affatto quale dialetto parlassero i Marsi, i Volsci, i Sabini, e ben poco conoscersi dell'um

(1) Antiquit. Ital. Medii Aevi, Diss. 32.

(2) Römische Studien. Ciò non toglie che non sia un libro molto sapiente quello del Fernow.

(3) EMILIANI GIUDICI, Stor. della Lett. Ital., Lez. Ia.

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(5) II BURGUY, nella Introd. à la Gramm. de la langue d'oïl.

bro e dell'osco (1). Come dunque su tali basi costruire un sistema che vuole fatti ben chiari e ben certi? (2)

Passiamo ora a parlare di uno scrittore che sui primi tempi del secolo presente si occupò delle origini delle lingue neo-latine, con profonda dottrina, sebbene con resultati che a noi è impossibile di accogliere per veri. Il Raynouard, pure riconoscendo lo stretto legame che univano al latino i nuovi idiomi romani, e di essi idiomi vedendo chiara la fratellanza, non potè dalle forme classiche della lingua degli scrittori di Roma far derivare direttamente le lingue nuove. Onde ebbe ricorso all'ipotesi di una lingua intermediaria, la quale formatasi dalla corruzione del latino, sotto la diretta influenza delle genti germaniche, servi in progresso di tipo comune agli idiomi della Francia, dell'Italia e della Spagna. Le forme primitive di questa lingua furono conservate specialmente dai trovatori provenzali, e la lingua da essi adoperata è appunto figliuola del latino e madre delle lingue neo-latine, quasi tratto di unione tra Roma ed i popoli romani usciti da lei. Fino dal secolo VI la corruzione del latino era giunta a tale, da non potersi oramai ricondurre alla purità primitiva. Anzi tale corruzione andò sempre crescendo, di maniera che gli uomini stavano già per non intendersi più tra di loro, quando (adoperiamo le parole stesse del dotto provenzalista) « cet instinct habile et persévérant qui, lors de la formation des langues conduisit à tant d'heureux résultats, employa encore son étonnante industrie »; la quale industria consistè nel costruire la nuova lingua romana, che, come abbiamo detto, doveva poi partorire il francese, l'italiano e lo spagnuolo. Piuttosto che fermarci a notare la stranezza dell'ipotesi di questo istinto misterioso, che, come tutti i misteri, può essere asserito e negato con uguale facilità, domandiamo al Raynouard che cosa sia questa sua lingua romana, e quali i caratteri di lei. Ed egli ci dirà che essa creò gli articoli, e li trasmisse poi a tutti i suoi eredi; ci dirà che gli affissi, i comparativi e superlativi composti, l'uso dell'ausiliare essere col participio passato, certe forme del futuro e del condizionale degli altri verbi, l'infinito con la negazione adoperato per imperativo, furono creazioni della lingua dei trovatori; e che questi ed altri molti sono i caratteri suoi particolari, da lei trasmessi alle lingue di cui essa fu madre (3). E tutto ciò è ben vero; ed in questa analisi comparata delle lingue romane sta il merito del Raynouard, che fu certo un insigne grammatico, ma non un buono storico della origine di quelle lingue. È chiaro che noi non possiamo accingerci a confutare il sistema di lui, sebbene forse ciò potesse riuscire non affatto inutile in Italia. Passando anche sopra ad altre e non lievi difficoltà, come supporre che le varie lingue germaniche dei popoli che

(1) Cf. MOMMSEN, Rom. Gesch., I, 1.

(2) A dileguare ogni dubbio su questo argomento bastano le parole di Diez (Gramm. d. Rom. Spr., Einleitung, Ital. Gebiet, pag. 75 e segg.), il quale asserisce che nella lingua italiana non rimane vestigio delle antiche lingue indigene. Cf. anche Etymolog. Wörterbuch, Vorrede, dove si discutono le possibili influenze delle leggi eufoniche delle antiche lingue italiche sulla lingua attuale. Ivi si dice che la più importante delle lingue italiche meridionali è l'Osca, sia per la sua formazione superiore completa, come per la lunga durata e l'ampia estensione. « Vergleicht man sie nun mit der italianischen, so verräth diese nicht das geringste von den lautgesetzen der erstern. » Segue appresso: « Von der etruskischen sprache aber darf man völlig absehen: was man fast nur aus eigennamen über ihren stammesart und über ihren bau weisse der vermuthet, findet auf dem ganzen römischen gebiete keinen anklang. » Nonostante solo coll'influenza degli antichi idiomi italici si possono spiegare certi elementi eterogenei che ha la lingua italiana, e che non si ritrovano in nessuna delle lingue limitrofe. Ma anche ammesse queste influenze, l'italiano è indubbiamente la lingua meno mista di tutte le romane. Chi passa poi ai dialetti nordici, crede di trovarsi in un altro mondo. In questo ampio paese, e specialmente tra le Alpi eu i Po, la potente lingua romana non potè soggiogare i dialetti popolari, e non pote difendersi dalla influenza delle lingue barbare invase, ecc. (pagg. XII, XIII. XIV). (3) Éléments de la Grammaire Rom. av. l'an 1000, Paris, 1816. Langue Rom., ou Langue des Troubadours, Paris, 1816. Langues de l'Europe latine, Paris, 1821.

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Grammaire de la Grammaire comparée des

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