Immagini della pagina
PDF
ePub

I cerchj sono gli ordini angelici.

Beatrice (Canto ventinovesimo) spiega a Dante il modo tenuto da Dio nel creare gli angeli. E riprende ciò che intorno ad essi si insegna nel mondo.

Dante si trova nel cielo empireo (Canto trentesimo).

Il poeta vede un gran numero di gradi in forma di rosa:

Nel giallo della rosa sempiterna,
Che si dilata, rigrada e redole

Odor di lode al Sol che sempre verna,
Qual è colui che tace e dicer vuole,
Mi trasse Beatrice, e disse: Mira
Quanto è il convento delle bianche stole!
Vedi nostra città quanto ella gira!
Vedi li nostri scanni si ripieni,

Che poca gente omai ci si disira.

In quel gran seggio, a che tu gli occhi tieni,
Per la corona che già v'è su posta,
Prima che tu a queste nozze ceni,

Sederà l'alma, che fia giù agosta,
Dell'alto Arrigo, ch'a drizzare Italia
Verrà in prima ch'ella sia disposta.

La cieca cupidigia, che v'ammalia,
Simili fatti v' ha al fantolino,

Che muor di fame e caccia via la balia;
E fia prefetto nel foro divino
Allora tal che palese e coverto
Non anderà con lui per un cammino.

Ma poco poi sarà da Dio sofferto
Nel santo uficio; ch'el sarà detruso
Là dove Simon mago è per suo merto,

E farà quel d'Alagna esser più giuso.

Dante sta contemplando (Canto trentunesimo) il Paradiso, tutto meravigliato:

Se i Barbari, venendo da tal plaga,
Che ciascun giorno d'Elice si copra,
Rotante col suo figlio ond' ella è vaga,
Vedendo Roma e l'ardua sua opra
Stupeface'nsi quando Laterano
Alle cose mortali andò di sopra;

Io, che al divino dall'umano,
All'eterno dal tempo era venuto,
E di Fiorenza in popol giusto e sano,
Di che stupor dovea esser compiuto!
Certo tra esso e il gaudio mi facea
Libito non udire e starmi muto.

E quasi peregrin, che si ricrea
Nel tempio del suo voto, riguardando,
E spera già ridir com'ello stea,

Si per la viva luce passeggiando,
Menava io gli occhi per li gradi
Mo su, mo giù, e mo ricirculando.
Vedeva visi a carità suadi,
D'altrui lume fregiati e del suo riso,
Ed atti ornati di tutte onestadi.

Si volge per interrogare Beatrice, e invece

Credea veder Beatrice, e vidi un Sene
Vestito con le genti gloriose.

È san Bernardo, il quale gli addita la donna sua già tornata nel suo scanno di Paradiso:

... Se riguardi su nel terzo giro
Dal sommo grado, tu la rivedrai
Nel trono che i suoi merti le sortiro.

A lei rivolge Dante la preghiera :

O donna, in cui la mia speranza vige,
E che soffristi per la mia salute
In Inferno lasciar le tue vestige;

Di tante cose che io ho vedute,
Dal tuo podere e dalla tua bontate
Riconosco la grazia e la virtute.

Tu m'hai di servo tratto a libertate
Per tutte quelle vie, per tutt'i modi,
Che di ciò fare avean la potestate.

La tua magnificenza in me custodi
Sì, che l'anima mia che fatta hai sana,
Piacente a te dal corpo si disnodi.

Cosi orai; e quella si lontana,

Come parea, sorrise, e riguardommi;
Poi si tornò all'eterna Fontana.

San Bernardo addita poi al poeta Maria Vergine; e continua (Canto trentesimosecondo) mostrando al Poeta la disposizione de' Beati.

Dopo aver risoluto un dubbio sorto nella mente del poeta, san Bernardo gli addita altri spiriti:

Quei due che seggon lassù più felici,
Per esser propinquissimi ad Augusta,
Son d'esta rosa quasi due radici.

Colui che da sinistra le s'aggiusta,
È il padre, per lo cui ardito gusto
L'umana specie tanto amaro gusta.

Dal destro vedi quel Padre vetusto
Di santa Chiesa, a cui CRISTO le chiavi
Raccomandò di questo fior venusto.

E quei che vide tutt'i tempi gravi,
Pria che morisse, della bella sposa
Che s'acquistò con la lancia e co'chiavi,
Siede lungh'esso; e lungo l'altro posa
Quel Duca, sotto cui visse di manna
La gente ingrata, mobile e ritrosa.
Di contro a Pietro vedi sedere Anna,
Tanto contenta di mirar sua figlia,
Che non muove occhio per cantare Osanna.
E contro al maggior Padre di famiglia
Siede Lucia, che mosse la tua Donna,
Quando chinavi a ruinar le ciglia.

Ma perchè il tempo fugge, che t'assonna,
Qui farem punto, come buon sartore
Che, com'egli ha del panno, fa la gonna;

E drizzeremo gli occhi al primo Amore,
Si che, guardando verso lui, penetri,
Quant'è possibil, per lo suo fulgore.
Veramente (nè forse tu t'arretri,
Movendo l'ali tue, credendo oltrarti)
Orando, grazia convien che s'impetri,
Grazia da quella che puote aiutarti;
E tu mi seguirai con l'affezione,

Si che dal dicer mio lo cuor non parti:

E cominciò questa santa orazione.

Il poeta spinge la vista nell'eterna luce, e scorge l'arcano della Trinità:

Nella profonda e chiara sussistenza
Dell'alto lume par vermi tre giri

Di tre colori e d'una contenenza:

E l'un dall'altro, come Iri da Iri,
Parea reflesso, e il terzo parea fuoco
Che quinci e quindi egualmente si spiri.

O quanto è corto il dire, e come fioco
Al mio concetto! e questo, a quel ch'io vidi,
È tanto, che non basta a dicer poco.
O Luce eterna, che sola in te sidi,
Sola t'intendi, e da te intelletta
Ed intendente te ami ed arridi!

Quella circulazion, che si concetta
Pareva in te, come lume reflesso,
Dagli occhi miei alquanto circonspetta,
Dentro da sè del suo colore stesso
Mi parve pinta della nostra effige,
Per che il mio viso in lei tutto era messo.
Qual è'l geometra che tutto s'affige
Per misurar lo cerchio, e non ritrova,
Pensando, quel principio ond'egli indige;
Tale era io a quella vista nuova:
Veder voleva, come si convenne
L'imago al cerchio, e come vi s'indova:
Ma non eran da ciò le proprie penne;
Se non che la mia mente fu percossa
Da un fulgore, in che sua voglia venne.
All'alta fantasia qui mancò possa:
Ma già volgea il mio disiro e il velle,
Si come ruota che igualmente è mossa,
L'Amor che muove il sole e l'altre stelle.

La visione finisce, ed ha termine il Poema.

CAPITOLO SEDICESIMO

FRANCESCO PETRARCA.

SUO CARATTERE.

Lo scrivere oggi intorno a Francesco Petrarca è reso difficile assai, non solo dalle molte opere di lui, ma ancora dalle moltissime, e forse troppe, che intorno a lui furono scritte, e delle quali si potrebbe comporre una biblioteca di molte migliaia di volumi. Da Filippo Villani, da Coluccio Salutati, dal Vergerio, dallo Squarciafico, dal Vellutello, dal Tommasini, dal De Sade, fino ai moderni, e ai modernissimi, fino a Foscolo, a Macaulay, a Quinet, a Voigt, a Mezières, a De Sanctis, a Geiger, a Hortis, a Fracassetti, a cento altri, più o meno illustri, più o meno dotti, più o meno acuti scrittori, noi possediamo là un cumulo, una massa, una congerie immensa di scritti, in alcuni dei quali c'è molta dottrina, in altri molta sottigliezza; in alcuni ancora molte ripetizioni, molte volgarità, molte insulsaggini.

Che cosa dovremo far noi di questi scrittori? Tenerne conto, senza dubbio, ma tenerne conto come di un sussidio affatto secondario.

Lo studio nostro primo e principale dovrà essere quello di cercare il Petrarca nel Petrarca stesso; di andare a spiarne, a indagarne, a sorprenderne le qualità morali e le intellettuali nelle sue opere. Noi non vogliamo proporci di trovare nè un uomo grande, nè un uomo piccolo; nè un uomo buono, nè un uomo cattivo; nè un genio, nè un poeta mediocre. Noi non ci proponiamo nulla, perchè aspettiamo tutto da lui; da lui che ci dica quello che fu, quello che fece; noi non vogliamo fabbricarci un idolo, ma ricavare una persona viva, dalle carte in gran parte tarlate dei suoi volumi in folio. Questo lavoro di ricostruzione di un uomo, di un carattere, di un animo, di una mente; questo quasi rendere ad uno scheletro la carne, i nervi, i muscoli, e dirgli cammina davanti a me, che io ti vegga e ti giudichi; questo è lavoro delicato e difficile. Perchè non basta giudicarlo da quello che apparirà; ma bisognerà anche giudicarlo tentando per quanto sarà possibile di spogliarci noi delle nostre idee, ricercando insieme a lui, nel suo sepolcro, le idee del suo tempo. A questa sola condizione è possibile intendere la storia, dove tutto è relativo. Noi non possediamo nè una morale, nè un' estetica assoluta. Per i seguaci dei vecchi sistemi la cosa era presto fatta: questo è il tipo, paragonate e traete le conseguenze. Ma per noi i tipi sono morti, per noi l'assoluto non è che una vana parola; per noi tutto è relatività; quindi l'opera nostra è ben più difficile; richiede che ci immedesimiamo ai tempi di cui dobbiamo parlare, richiede che quello spirito, quell' alito, quel soffio di vita noi lo risentiamo quasi in noi stessi; che ci tramutiamo per un momento in uomini d'altri secoli; che ci spogliamo di noi medesimi, per rivestirci d'altrui.

Io non scriverò la biografia del Petrarca. Essa ci verrà fatta da sè, nello svolgersi del nostro studio, e allora ci sarà utile. Qui io entro subito in medias res, e tento di mettere sotto gli occhi al lettore il carattere del Petrarca.

BARTOLI. Letteratura italiana.

55

E prima di tutto, non potremmo noi studiarci di rivederlo, quale egli era, nella sua giovinezza, questo poeta delle grazie e dell'amore? Noi tutti, pur troppo, ci siamo abituati a figurarcelo quale è in quei brutti ritratti che non adornano, ma deturpano le mille edizioni del suo Canzoniere: colla tradizionale corona d'alloro, colla faccia canonicale: un insieme antipatico ed antiestetico. Può essere che il Petrarca fosse tale nella sua età matura; ma tale non era certo nella sua giovinezza: quando destro ed agile, non bello (come egli stesso dice) ma piacente, di un bel colore tra il bianco ed il bruno, d'occhi vivaci (1), profumato, elegante nelle vesti che cambiava mattina e sera (2), colla chioma lungamente e studiosamente acconciata (3), lindo e azzimato, cercava la compagnia delle vaghe donne senza le quali non poteva vivere (4), si dilettava della musica (5) e dei conviti (6), era insomma un giovane elegante, già ammirato, già cercato per le vie, per le piazze, per le sale di Avignone (7) Avvertiamo che questo ritratto di sè stesso ce lo ha lasciato egli medesimo, e una parte di codesto ritratto in una lettera che egli in età di più di 70 anni dirigeva alla posterità, ad posteros, per narrar ad essi i casi della propria vita.

Scrivere ai posteri non sarebbe per avventura un sintomo di orgoglio? E se anche fosse, dovremmo noi muoverne rimprovero al Petrarca? Noi possiamo ben ritenere che egli avesse la coscienza della sua grandezza; e in un uomo veramente grande, ciò è giusto, è necessario, è bello, perchè quella coscienza stessa fa parte dell'essere suo, della potenza del suo spirito, della influenza che egli ha esercitato sulla sua generazione, e che eserciterà sulle generazioni avvenire. Sentirsi grandi è una conseguenza necessaria dell'essere grandi.

Però, l'aveva egli veramente codesta coscienza il Petrarca? In questa stessa lettera ai posteri egli dice che il suo nome è oscuro e meschino, ch'egli è un omiciattolo (8); altrove che è un uomo da nulla (9), piccolissimo (10); prega gli amiche non sieno mossi a schifo dalla rozzezza e povertà del suo stile (11); chiama inezie i suoi scritti (ineptias meas) (12), e li paragona a donna gozzutą, gobba e zoppa (13), e dice che se non fosse l'amore degli amici, le opere sue parrebbero cosa da gittarsi sul fuoco (14); chiama sè stesso un povero chierico già mezzo vecchio (15); si giudica tardo d'ingegno, di giudizio ottuso, rozzo di eloquio, incerto e dubbioso in ogni dottrina (16); e parla (verso i sessant'anni) del suo nome oscuro (17); e umilmente sente delle sue forze (18).

(1) Epistolae de Rebus Senilibus, lib. XII, 1, Obtulisti mihi; Epistola ad Posteros; Epist. de Rebus Familiaribus, XXI, 13.

(2) Epist. de Reb. Fam. X, 3.

(3) Ivi.

(4) Epist. de Reb. Fam. X, 5.

(5) Epist. de Reb. Sen. XI, 5; de Reb. Fam. XIII, 8; Epist. Poet. V, 1.

(6) Epist. de Reb. Fam. X, 3.

(7) Ivi.

(8) « Exiguum et obscurum nomen »; « Mortalis homuncio >>.

(9) Epist. de Reb. Fam., Nota alla 13 del Lib. IV.

(10) Ivi, lib. II, 9.

(11) Ivi, lib. XIX, 8.

(12) Variae, Epist. XXII.

(13) Ivi. « Vidi ego, Barbate, virum optimum quem strumosae humerus, quem claudicantis incessus, et quem blesae confabulatio delectaret ».

(14) Ivi.

(15) Epist. de Reb. Sen., 1, 2.

(16) Ivi, I, 7.

(17) Ivi, II, 2.

(18) Ivi, VI, 9.

« IndietroContinua »