I cerchj sono gli ordini angelici. Beatrice (Canto ventinovesimo) spiega a Dante il modo tenuto da Dio nel creare gli angeli. E riprende ciò che intorno ad essi si insegna nel mondo. Dante si trova nel cielo empireo (Canto trentesimo). Il poeta vede un gran numero di gradi in forma di rosa: Nel giallo della rosa sempiterna, Odor di lode al Sol che sempre verna, Che poca gente omai ci si disira. In quel gran seggio, a che tu gli occhi tieni, Sederà l'alma, che fia giù agosta, La cieca cupidigia, che v'ammalia, Che muor di fame e caccia via la balia; Ma poco poi sarà da Dio sofferto E farà quel d'Alagna esser più giuso. Dante sta contemplando (Canto trentunesimo) il Paradiso, tutto meravigliato: Se i Barbari, venendo da tal plaga, Io, che al divino dall'umano, E quasi peregrin, che si ricrea Si per la viva luce passeggiando, Si volge per interrogare Beatrice, e invece Credea veder Beatrice, e vidi un Sene È san Bernardo, il quale gli addita la donna sua già tornata nel suo scanno di Paradiso: ... Se riguardi su nel terzo giro A lei rivolge Dante la preghiera : O donna, in cui la mia speranza vige, Di tante cose che io ho vedute, Tu m'hai di servo tratto a libertate La tua magnificenza in me custodi Cosi orai; e quella si lontana, Come parea, sorrise, e riguardommi; San Bernardo addita poi al poeta Maria Vergine; e continua (Canto trentesimosecondo) mostrando al Poeta la disposizione de' Beati. Dopo aver risoluto un dubbio sorto nella mente del poeta, san Bernardo gli addita altri spiriti: Quei due che seggon lassù più felici, Colui che da sinistra le s'aggiusta, Dal destro vedi quel Padre vetusto E quei che vide tutt'i tempi gravi, Ma perchè il tempo fugge, che t'assonna, E drizzeremo gli occhi al primo Amore, Si che dal dicer mio lo cuor non parti: E cominciò questa santa orazione. Il poeta spinge la vista nell'eterna luce, e scorge l'arcano della Trinità: Nella profonda e chiara sussistenza Di tre colori e d'una contenenza: E l'un dall'altro, come Iri da Iri, O quanto è corto il dire, e come fioco Quella circulazion, che si concetta La visione finisce, ed ha termine il Poema. CAPITOLO SEDICESIMO FRANCESCO PETRARCA. SUO CARATTERE. Lo scrivere oggi intorno a Francesco Petrarca è reso difficile assai, non solo dalle molte opere di lui, ma ancora dalle moltissime, e forse troppe, che intorno a lui furono scritte, e delle quali si potrebbe comporre una biblioteca di molte migliaia di volumi. Da Filippo Villani, da Coluccio Salutati, dal Vergerio, dallo Squarciafico, dal Vellutello, dal Tommasini, dal De Sade, fino ai moderni, e ai modernissimi, fino a Foscolo, a Macaulay, a Quinet, a Voigt, a Mezières, a De Sanctis, a Geiger, a Hortis, a Fracassetti, a cento altri, più o meno illustri, più o meno dotti, più o meno acuti scrittori, noi possediamo là un cumulo, una massa, una congerie immensa di scritti, in alcuni dei quali c'è molta dottrina, in altri molta sottigliezza; in alcuni ancora molte ripetizioni, molte volgarità, molte insulsaggini. Che cosa dovremo far noi di questi scrittori? Tenerne conto, senza dubbio, ma tenerne conto come di un sussidio affatto secondario. Lo studio nostro primo e principale dovrà essere quello di cercare il Petrarca nel Petrarca stesso; di andare a spiarne, a indagarne, a sorprenderne le qualità morali e le intellettuali nelle sue opere. Noi non vogliamo proporci di trovare nè un uomo grande, nè un uomo piccolo; nè un uomo buono, nè un uomo cattivo; nè un genio, nè un poeta mediocre. Noi non ci proponiamo nulla, perchè aspettiamo tutto da lui; da lui che ci dica quello che fu, quello che fece; noi non vogliamo fabbricarci un idolo, ma ricavare una persona viva, dalle carte in gran parte tarlate dei suoi volumi in folio. Questo lavoro di ricostruzione di un uomo, di un carattere, di un animo, di una mente; questo quasi rendere ad uno scheletro la carne, i nervi, i muscoli, e dirgli cammina davanti a me, che io ti vegga e ti giudichi; questo è lavoro delicato e difficile. Perchè non basta giudicarlo da quello che apparirà; ma bisognerà anche giudicarlo tentando per quanto sarà possibile di spogliarci noi delle nostre idee, ricercando insieme a lui, nel suo sepolcro, le idee del suo tempo. A questa sola condizione è possibile intendere la storia, dove tutto è relativo. Noi non possediamo nè una morale, nè un' estetica assoluta. Per i seguaci dei vecchi sistemi la cosa era presto fatta: questo è il tipo, paragonate e traete le conseguenze. Ma per noi i tipi sono morti, per noi l'assoluto non è che una vana parola; per noi tutto è relatività; quindi l'opera nostra è ben più difficile; richiede che ci immedesimiamo ai tempi di cui dobbiamo parlare, richiede che quello spirito, quell' alito, quel soffio di vita noi lo risentiamo quasi in noi stessi; che ci tramutiamo per un momento in uomini d'altri secoli; che ci spogliamo di noi medesimi, per rivestirci d'altrui. Io non scriverò la biografia del Petrarca. Essa ci verrà fatta da sè, nello svolgersi del nostro studio, e allora ci sarà utile. Qui io entro subito in medias res, e tento di mettere sotto gli occhi al lettore il carattere del Petrarca. BARTOLI. Letteratura italiana. 55 E prima di tutto, non potremmo noi studiarci di rivederlo, quale egli era, nella sua giovinezza, questo poeta delle grazie e dell'amore? Noi tutti, pur troppo, ci siamo abituati a figurarcelo quale è in quei brutti ritratti che non adornano, ma deturpano le mille edizioni del suo Canzoniere: colla tradizionale corona d'alloro, colla faccia canonicale: un insieme antipatico ed antiestetico. Può essere che il Petrarca fosse tale nella sua età matura; ma tale non era certo nella sua giovinezza: quando destro ed agile, non bello (come egli stesso dice) ma piacente, di un bel colore tra il bianco ed il bruno, d'occhi vivaci (1), profumato, elegante nelle vesti che cambiava mattina e sera (2), colla chioma lungamente e studiosamente acconciata (3), lindo e azzimato, cercava la compagnia delle vaghe donne senza le quali non poteva vivere (4), si dilettava della musica (5) e dei conviti (6), era insomma un giovane elegante, già ammirato, già cercato per le vie, per le piazze, per le sale di Avignone (7) Avvertiamo che questo ritratto di sè stesso ce lo ha lasciato egli medesimo, e una parte di codesto ritratto in una lettera che egli in età di più di 70 anni dirigeva alla posterità, ad posteros, per narrar ad essi i casi della propria vita. Scrivere ai posteri non sarebbe per avventura un sintomo di orgoglio? E se anche fosse, dovremmo noi muoverne rimprovero al Petrarca? Noi possiamo ben ritenere che egli avesse la coscienza della sua grandezza; e in un uomo veramente grande, ciò è giusto, è necessario, è bello, perchè quella coscienza stessa fa parte dell'essere suo, della potenza del suo spirito, della influenza che egli ha esercitato sulla sua generazione, e che eserciterà sulle generazioni avvenire. Sentirsi grandi è una conseguenza necessaria dell'essere grandi. Però, l'aveva egli veramente codesta coscienza il Petrarca? In questa stessa lettera ai posteri egli dice che il suo nome è oscuro e meschino, ch'egli è un omiciattolo (8); altrove che è un uomo da nulla (9), piccolissimo (10); prega gli amiche non sieno mossi a schifo dalla rozzezza e povertà del suo stile (11); chiama inezie i suoi scritti (ineptias meas) (12), e li paragona a donna gozzutą, gobba e zoppa (13), e dice che se non fosse l'amore degli amici, le opere sue parrebbero cosa da gittarsi sul fuoco (14); chiama sè stesso un povero chierico già mezzo vecchio (15); si giudica tardo d'ingegno, di giudizio ottuso, rozzo di eloquio, incerto e dubbioso in ogni dottrina (16); e parla (verso i sessant'anni) del suo nome oscuro (17); e umilmente sente delle sue forze (18). (1) Epistolae de Rebus Senilibus, lib. XII, 1, Obtulisti mihi; Epistola ad Posteros; Epist. de Rebus Familiaribus, XXI, 13. (2) Epist. de Reb. Fam. X, 3. (3) Ivi. (4) Epist. de Reb. Fam. X, 5. (5) Epist. de Reb. Sen. XI, 5; de Reb. Fam. XIII, 8; Epist. Poet. V, 1. (6) Epist. de Reb. Fam. X, 3. (7) Ivi. (8) « Exiguum et obscurum nomen »; « Mortalis homuncio >>. (9) Epist. de Reb. Fam., Nota alla 13 del Lib. IV. (10) Ivi, lib. II, 9. (11) Ivi, lib. XIX, 8. (12) Variae, Epist. XXII. (13) Ivi. « Vidi ego, Barbate, virum optimum quem strumosae humerus, quem claudicantis incessus, et quem blesae confabulatio delectaret ». (14) Ivi. (15) Epist. de Reb. Sen., 1, 2. (16) Ivi, I, 7. (17) Ivi, II, 2. (18) Ivi, VI, 9. |