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meno, che abbiano trombe, corni, tamburi, cornamuse, cembanelle, cemboli, e d'ogni altra qualità romori, i quali, quando io alzerò un cappello, diano in quelli instrumenti, e suonando ne vengano verso il palco. Le quali cose, insieme con certi altri secreti rimedi, credo che faranno partire questo spirito. Fu subito dal re ordinato tutto, e venuta la domenica mattina, e ripieno il palco di personaggi e la piazza di popolo, celebrata la Messa, venne la spiritata condotta in sul palco per le mani di due vescovi e molti signori. Quando Roderigo vide tanto popolo insieme, e tanto apparato, rimase quasi che stupido, e fra sẻ disse: Che cosa ha pensato di fare questo poltrone di questo villano? Cred' egli sbigottirmi con questa pompa? Non sa egli ch'io sono uso a veder le pompe del cielo e le furie dello inferno? lo lo castigherò in ogni modo. E accostandosegli Gio. Matteo, e pregandolo che dovesse uscire, gli disse: Oh! tu hai fatto il bel pensiero! Che credi tu fare con questi tuoi apparati? Credi tu fuggire per questo la potenza mia e l'ira del re? Villano ribaldo, io ti farò impiccare in ogni modo. E così ripregandolo quello, e quell'altro dicendogli villania, non parve a Gio. Matteo di perder più tempo; e fatto il cenno col cappello, tutti quelli ch'erano a romoreggiar deputati, diedero in quelli suoni, e con rumori che andavano al cielo ne vennero verso il palco. Al qual rumore alzò Roderigo gli orecchi, e non sapendo che cosa fusse, e stando forte maravigliato, tutto stupido domandò Gio. Matteo che cosa quella fusse? Al quale Gio. Matteo tutto turbato disse: Ohimè! Roderigo mio, quella è la moglie tua, che ti viene a ritrovare. Fu cosa maravigliosa a pensare, quanta alterazione di mente recasse a Roderigo sentir ricordare il nome della moglie; la qual fu tanta, che non pensando s'egli era possibile o ragionevole che la fusse dessa, senza replicare altro, tutto spaventato se ne fuggì lasciando la fanciulla libera, e volle più tosto tornarsene in inferno a render ragione delle sue azioni, che di nuovo con tanti fastidi, dispetti e pericoli sottoporsi al giogo matrimoniale. E così Belfagor tornato in inferno fece fede de' mali che conduce in una casa la moglie, e Gio. Matteo, che ne seppe più che il Diavolo, se ne ritornò tosto lieto a casa.

DESCRIZIONE

DELLA PESTE DI FIRENZE

DELL'ANNO 1527.

PROEMIO (1)

Dilettissimo e da me molto onorato Compare (2).

Sebbene la vostra dolce compagnia mi è stata sempre giocondissima, e sempre ho preso singolar piacere, non solo degli onesti e cortesi costumi, ma de' piacevoli ed umanissimi ragionamenti vostri; non però, per esserne stato qualche tempo privo, come più volte è avvenuto per esser voi assente, o in più gravi occupazioni implicato, ho sentito dolore in parte alcuna simile a quello che di presente sento, per il lungo dimorar vostro lontano dalla città; il che io attribuisco a due principali cagioni. L'una credo che sia che, crescendo sempre la vostra benevolenza verso di me, con la continuazione di moltiplicarne gli infiniti vostri benefizi, conviene ancora che cresca l'affezione mia verso di voi; quantunque, sendovi io in tanti modi più anni sono obbligato, non pensassi che appena fusse possibile che più crescere potesse. L'altra cagione è che, se egli è vero che la moltitudine delle cose, e la diversità di quelle distragga le umane menti, io confesserò che la varietà delle conversazioni di molti amici, la quale al presente mi manca, non mi lasciava profondare così intensamente nella recordazione e considerazione di voi solo amico, e della vostra gentilissima consuetudine; della quale, sendone ora privato, mi accorgo che io manco in tutto di quel piacere, che altre volte solamente soleva sentire essere scemato alquanto. E non solo sono di un tale amico, e di tutti gli altri ben cari miei compagni privo, ma ancora di uomini a me noti, tanto che, riscontrandoli, mi fusse lecito il salutarli; che veramente se l'abito civile delle nostrali vesti, quantunque poco si vegga, non fusse, io mi crederei talora essere peregrino in qualche altra città. Onde, poi che il cielo non ci permette, unico e diletto compare, per la mortifera pestilenza pascere più le orecchie di quei dolci ragionamenti, e gli occhi di quei grati oggetti, che già solevano ogni noiosa cura alleggerirne, non ci priviamo almeno di visitarci con lettere; conforto non piccolo in tutte le miserie umane. Perciò mi sono io mosso

(1) Questo Proemio non è di mano del Machiavelli, come è la Descrizione che

segue.

(2) Non si è trovato qual sia la persona a cui è diretta questa descrizione. Qualche leggiero indizio farebbe sospettare che fosse a Filippo Strozzi.

(sapendo massime quanto a chi è dilungato dalla patria è grato l'intenderne ogni minima novella) a scrivere tutto quello che nell'egregia città nostra han visto, quantunque non asciutti, gl'infelici occhi miei; e sebbene la materia poco diletto vi recherà, e l'intender voi essere fuori di sì periglioso loco vi fia grato, senza che il certificarvi che io sia vivo, di cui forse la morte intesa avrete, vi dovrà fare men grave ogni malinconia o altra dolorosa noia.

DESCRIZIONE DELLA PESTE DI FIRENZE

Non ardisco in sul foglio porre la timida mano per ordire sì noioso principio; anzi quanto più le tante miserie fra la mente mi rivolgo, più l'orrenda descrizione mi spaventa. E sebbene il tutto ho visto, mi rinnova il raccontarlo doloroso pianto, nè so anche da che parte tale cominciamento fare mi deggia, e, se lecito mi fusse, da tale proponimento indietro mi ritrarrei. I soverchio disio nondimeno, quale ho di sapere se ancora voi vivo siete, romperà ogni timore.

Non altrimenti che si resti una città dagl' infedeli forzatamente presa, e poi abbandonata, si trova al presente la misera Fiorenza nostra. Parte degli abitatori, siccome voi, la pestifera mortalità fuggendo, per le sparte ville ridotti si sono, parte morti, parte in sul morire; in modo che le cose presenti ci offendono, le future ci minacciano, e così nella morte si travaglia, nella vita si teme. Oh dannoso secolo! oh lagrimabile stagione! Le pulite e belle contrade, che piene di ricchi e nobili cittadini esser solevano, sono ora puzzolenti e brutte, di poveri ripiene, per la improntitudine de' quali, e paurose strida, difficilmente e con timore si va. Sono serrate le botteghe, gli esercizi fermi, i giudicj o le corti tolti via, prostrate le leggi. Ora s'intende questo furto, ora quell'omicidio: le piazze, i mercati, dove adunarsi frequentemente i cittadini soleano, sepolcri sono ora fatti, e di vili brigate ricettacoli. Gli uomini vanno soli, e in cambio di amica, gente di questo pestifero morbo infetta si riscontra. L'un parente, se pure l'altro trova, o il fratello il fratello, o la moglie il marito, ciascuno va largo. E che più? Schifano i padri e le madri i propri loro figliuoli, e gli abbandonano. Chi fiori, chi odorifere erbe, chi spugne, chi ampolle, chi palle di diverse spezierie composte in mano porta, o, per meglio dire, al naso sempre tiene; e questi sono i provvedimenti. Sonci certe canove ancora, ove si distribuisce pane, anzi per ricorre gavoccioli si semina. I ragionamenti ch'esser solevano in piazza onorevoli, e in mercato utili, in cose miserabili e meste si convertono. Chi dice: Il tale è morto, quell'altro è malato, chi fuggito, chi in casa confitto, chi allo spedale, chi in guardia, chi non si trova, e somiglianti nuove, atte con la sola immaginazione a fare Esculapio, non che altri, ammorbare. Molti vanno ricercando la cagione del male, ed

MACHIAVELLI

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alcuni dicono: Gli Astrologi ci minacciano; alcuni, i profeti l'hanno predetto; chi si ricorda di qualche prodigio, chi la qualità del tempo, e la disposizione dell'aria atta a peste ne incolpa, e che tal fu nel 1548 e 1478, ed altre di tal maniera cose, in modo che d'accordo tutti concludono, che non solo questa, ma infiniti altri mali ci hanno a rovinare addosso. Questi sono i piacevoli ragionamenti, che ad ogni ora si sentono, e benchè con una sola parola dinanzi agli occhi della mente questa nostra miserabile patria porre vi potessi, dicendovi che di vederla tutta dissimile e diversa da quella che veder solevi già, v'immaginaste (che niuna cosa meglio che tale comparazione in voi medesimo fatta dimostrarlavi potrebbe), voglio nondimeno che considerare più particolarmente la possiate, perchè la cosa immaginata alla verità di quello che s'immagina al tutto mai non aggiugne. Nè mi pare da potervela dipignere col migliore esempio che con il mio; perciò io vi descriverò la vita mia, acciò da essa possiate tutta quella di qualunque altro misurare.

Sappiate adunque che ne' giorni di lavoro, partendomi io di casa in su quell'ora che i terrestri vapori tutti dal sole sono resoluti, per andare al mio solito esercizio, fatti prima alcuni rimedi, e presi contro alla venenosa infermità certi antidoti, nei quali quantunque l'egregio Mingo (1) dica che son corazze di carta, ho fede certamente e non piccola; non sono molti passi da quella lungi, che ogni altro pensiero conviene benchè grave, e di cose importanti e necessarie, dalla testa sgombri, perchè i! primo riscontro che si offerisce agli occhi mia, per mio buono augurio, sono i becchini, non quelli degli ammorbati, ma i consueti, i quali, come già de' pochi, ora de' molti morti si dolgono, perchè pare a quelli che tanta abbondanza generi loro carestia. E chi avrebbe mai creduto che venisse tempo, nel quale eglino la sanità di qualunque infermo desiderassero, come veramente di desiderare giuravano? Io facilmente lo credo, perchè morendo in altro tempo, e di altro male, ne potranno all'usato guadagnare. E così passando da s. Miniato infra le torri, dove per lo strepito de' camati (2), fischi e ragionamenti ciompeschi assordare quasi solea, trovo grande e non molto desiderato silenzio. Segui il mio viaggio, e vicino a Mercato Nuovo incontrai a cavallo la morìa, di che ingannato per la prima volta ne rimasi; imperciocchè veggendo da lungi da bianchi cavalli, quantunque come neve non fussero, portata una lettiera, che fusse qualche gentildonna o persona di gran lignaggio, che andasse a suo diporto, mi pensai. Ma veggendogli dipoi attorno in vece di servitori, servigiali di ́s. Maria Nuova (3), non fu mestiero che di altro domandassi. Non mi bastando questo, e per potervi del tutto più ampla notizia dare, la mattina del lieto principio di maggio en. trai nell'ammirabile e veneranda Chiesa di s. Reparata (4), dove tre sacerdoti soli erano, l'uno la Messa cantando diceva, l'altro per coro ed organo serviva, il terzo per confessare in una sedia quasi di mura cinta nel mezzo della prima nave si posava, tenendo i ferri in gamba nondimeno, ed alle braccia le manette; che così dal

(1) Mengo Bianchelli da Faenza, che ha scritto sopra la peste.

(2) Camati o Scamati sono quelle bacchelle, colle quali si balle e slarga la lana; lavorio che si faceva principalmente in quel sito della città di Firenze qui

accennalo.

(3) È lo Spedale della città di Firenze.

(4) La Cattedrale.

vicario ordinato stato gli era, acciò potesse le canoniche tentazioni meglio in tanta solitudine schifare. Le devote della Messa erano tre donne in gamurrino, vecchie scrignute, e forse zoppe, e ciascuna separatamente nella sua tribuna si stava; tra le quali solo dell'avolo mio la nutrice mi parve riconoscere. Erano tre similmente i devoti, i quali, senza mai vedersi, a gruccie volgevano il coro, dando talvolta d'occhio alle tre amorose; cose veramente da non le poter credere se non chi viste le avesse. Onde io, a guisa di chi vede quello che vedendolo appena il crede, rimasi stupefatto, e dubitando che il popolo non fusse, come in sì celebre mattina solito era, dietro agli armeggiatori ridotto in piazza, là con tale speranza mi condussi, dove armeggiare vidi, in cambio di uomini e cavalli, croce, bare, cataletti e tavole, sopra le quali diversi morti si vedevano portati dai becchini, i quali per necessità furono dal Barlacchio per mallevadori degli eccelsi signori chiamati, che in quell'ora la ceremonia facevano nell'entrata loro (1). E credo per avventura che non bastando il numero de' vivi, si servisse del nome di alcuno dei morti, secondo il costume chiamandoli, benchè a niuno come a Lazzero avvenisse.

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Non mi parendo questo spettacolo degno o sicuro molto, dimora non vi sei, e non potendo credere che in qualche parte della città non fusse maggior frequenza di nobili ristretta, verso la famosissima piazza di s. Croce i miei passi rivolsi, laddove vidi un grandissimo ballo tondo di becchini, che ad alta boce Ben venga il morbo, ben venga il morbo = dicevano. Questo era il lieto loro Ben venga maggio, l'aspetto de'quali insieme con il tuono della canzone, e le parole di quella altrettanto di dispiacere ai miei occhi ed orecchi porsero, quanto già le oneste fanciulle con la loro lieta canzone a quelli di piacere porgevano; tale che senza dimora in chiesa mi fuggi, dove, facendo le consuete mie devozioni, nè veggendovi pure un testimone, sentii, benchè lontana, una affannata e spaventevole voce, a cui avvicinandomi, alle sepolture del dicontro vidi in terra distesa in veste negra una pallida e travagliata giovane, la cui effigie più di morta che viva mi pareva, rigando le sue belle guance di amare lagrime, ora le nere sue belle sparse trecce stracciandosi, ora il petto, ora il volto con le proprie mani battendosi, da muovere a pietà un marmo; di che io oltremodo spavento e dolore presi. A lei nondimeno cautamente appressandomi le dissi: Deh perchè si fattamente ti lamenti? Onde ella, perchè io non la conoscessi, subito con il lembo della veste il capo si coperse. L'atto, come è natural cosa, mi fe' crescere di conoscerla il desio; la paura dall'altro canto, che della pestifera contagione macchiata fusse, i passi ritardava, dicendole nondimeno che di me non temesse, perchè quivi era per darle e consiglio ed aiuto. Trovandosi ella da sì gravosi affanni oppressa e tacendo ella, soggiunsi, che non mi partirei se prima lei partire non vedessi; prese, benchè alquanto stesse, pur poi, come donna d'assai ed animosa, partito di scuoprirsi, dicendo: Quanto sono stolta, se nel cospetto di un popolo non ho temuto, ora di un uomo solo, quale ai miei bisogni sovvenir cerca, temerò? Era per l'abito e per la smisurata passione trasfigurata, sicchè per la boce più che per l'effigie la riconobbi. E domandandole di tanta afflzione la causa: Ahi misera! a me disse ella non saperla fingère. Duolmi e poi mi duole che ogni mia contentezza ho persa,

(1) Prendevano il possesso della loro magistratura.

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