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CAPITOLO QUARTO.

Le legioni urbane del principio del 537/217.

Quello che stiamo per dire non è meno importante di quello che abbiamo detto sin qui. Nei tre capitoli precedenti abbiamo voluto correggere le opinioni dei dotti sulla data della battaglia della Trebbia, sul piano di guerra del 537/217, e sulla partenza di Flaminio; in questo confronteremo quello, che si crede relativamente alla campagna suddetta, colle fonti antiche, e trarremo così in luce alcuni fatti male tramandati e caduti in dimenticanza.

Tutta la storia di quella campagna, così come ce la narrano Polibio e Livio, e come ce la ripetono gli storici moderni, comprende i movimenti dei due eserciti consolari, e termina colla catastrofe del Trasimeno, dove l'uno di essi accettò la sfida del nemico e venne distrutto, senza che l'altro fosse giunto a tempo per unirsegli. Ma forse e senza forse questi fatti, che sono i principalissimi, non furono però i soli.

Ho notato, nel capitolo precedente, il pregio della narrazione di Appiano; per essere coerenti ne dobbiamo dunque fare quel conto che essa merita. Or bene, presso Appiano vediamo svolgersi, allato di que' fatti principalissimi, alcuni altri fatti non privi d'importanza. Dopo aver narrato l'invio delle truppe romane nelle provincie e la partenza dei consoli incontro ad Annibale, Appiano soggiunge un'altra cosa: che cioè entrato Annibale in Etruria e

marciando alla volta di Roma, i Romani, spaventati, mandarono gli ultimi otto mila uomini, che rimanevano in Roma, al lago Plestino nell'Umbria, coll'ordine di intercettargli la strada occupando qualche passo stretto e di difficile accesso; e che il comando di quell'esercito venne conferito ad un certo Centenio, che era uomo allora privato, ma nondimeno illustre (1). Poscia, dopo aver narrato la battaglia del Trasimeno, Appiano racconta che, nel tempo in cui essa accadde, da una parte il console Servilio camminava a grandi giornate verso l' Etruria (per congiungersi, ben inteso, col collega), dall'altra parte Centenio, occupato un passo forte e oppostosi al nemico, fu vinto e disfatto totalmente (2).

Ora a me pare che le notizie di Appiano sull'esercito di Centenio e sulle costui gesta, rivelino un frammento di storia, desunto, per opera di Appiano, da Fabio Pittore, ma dimenticato così da Polibio, come da Livio, che qui attinse a Polibio; e poscia, perchè dimenticato da Polibio e da Livio, trascurato anche dai moderni. Non che i critici non avvertissero le notizie di Appiano; ma, colla cattiva applicazione di un principio buono, chiusero a sè stessi la via buona; imperciocchè leggendo in POLIBIO (3, 86, 8 segg.) e in LIVIO (22, 8, 1) che il console Servilio mandò al collega Flaminio un aiuto di 4 mila uomini a cavallo sotto gli ordini di un certo Centenio, il quale non giunse a tempo e fu vinto da Maarbale, si persuasero troppo facilmente che il racconto di Appiano non fosse altro che una versione più guasta del racconto polibianoliviano, e ambedue i racconti concernessero un medesimo fatto. Il vero è che i due racconti non hanno nulla di co

(1) Hann., 9.

(2) Hann., 10-11.

mune all' infuori del nome di Centenio, e che il fatto ricordato nell'uno non ha che fare con quello che è ricordato nell'altro. Il console Servilio mandava a Flaminio parte del proprio esercito, destinato a combattere insieme coll'esercito di Flaminio contro Annibale, mentre lo scopo degli 8 mila uomini di cui parla Appiano era quello di proteggere la capitale della Repubblica. In secondo luogo i due eserciti erano diversi l'uno dall'altro nella provenienza, nel numero e nel genere dell'arma a cui appartenevano. In terzo luogo le circostanze della battaglia, nella quale perì l'uno, sono diverse per più capi da quelle della battaglia nella quale perì l'altro. Poi c'è la condizione diversa dei due comandanti (1).

L'esame dei due racconti fa dunque manifesto che quello di Appiano contiene una serie di fatti minori svoltisi allato dei principali, ma ommessi da Polibio (2). Quest'è la con

(1) Di tutte le differenze che passano fra i due racconti, ai critici diede nell'occhio una sola; ma anche da questa difficoltà essi seppero sciogliersi con molta, con troppa disinvoltura. Era il numero delle truppe 8 mila presso Appiano, 4 mila presso Polibio, che si opponeva più evidentemente all' identità supposta e voluta dei due racconti. Ma il Drakenborch uscì a dire, nel suo commento liviano (vol. 7, 59), Appiano aver confuso l'esercito di Centenio coll'esercito di un secondo Centenio che s'incontra cinque anni più tardi nella storia romana (LIVIO, 25, 19, 9) e che in effetto comandò otto mila uomini. Dopo questa trovata nessuno più fiatò, e oggi ancora la si mette innanzi nei migliori commenti di Livio (cf. WEISSENBORN a Livio, 25, 19, 9). Non c'è bisogno di dire che quella trovata non prova proprio nulla, perchè divergenze fra i due racconti ce ne sono altre ancora; anzi non spiega nemmeno questa, perchè Appiano non fa mai menzione di quel secondo Centenio, nè poteva dunque scambiarlo col primo.

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(2) Ho detto, nell'ultima nota del primo capitolo, che Polibio fu solito volgere la sua attenzione ai grandi fatti militari apportatori di notevoli conseguenze, sorvolando invece sui minori; e citai un'asserzione dello storico, il quale scrive di aver voluto passar sotto silenzio i fatti d'armi avvenuti fra l'esercito romano e l'esercito cartaginese

clusione alla quale i critici non seppero ma avrebbero dovuto venire, per cavar qualche costrutto dalle notizie di Appiano; ogni altro tentativo fu e doveva essere vano (1).

in principio del 538/216 (mentre il primo di questi eserciti era comandato dagli ex consoli Atilio e Servilio in attesa dell'arrivo dei consoli Paolo Emilio e Terenzio Varrone), appunto per questa ragione. E trovai un'applicazione di questa stessa massima nel silenzio di Polibio sui fatti che tennero dietro alla battaglia della Trebbia durante il resto dell' inverno. Ora aggiungo due altri esempi. La battaglia del Trasimeno fu descritta a lungo da Polibio; dopo di essa accaddero senza dubbio molti fatti nell' Etruria e nell'Umbria (ad esempio le ostilità di Annibale contro Spoleto (Livio, 22, 9) e le gesta del Centenio di Appiano. Questi due fatti vengono riguardati come un solo dall'IHNE, Röm. Gesch., 2, 179, a torto come vedremo, ma egli non li narrò, e osservò soltanto che Annibale, non risolvendosi a marciare su Roma, attraversò in dieci giorni l'Umbria e il Piceno per giungere all'Adriatico (PoL., 3, 86, 8 segg.). Di nuovo, Polibio narrò a lungo il combattimento di Canne, ma tacque i fatti accaduti nel resto di quell'anno 538/216 (quali erano, ad esempio, le gesta di Marcello e la distruzione dell'esercito del pretore L. Postumio avvenuta nella Gallia. È vero che quest'ultimo fatto venne toccato da POLIBIO, 3, 118, 6, ma senza che lo descrivesse; e lo toccò soltanto allo scopo di dare un'idea compiuta della gravità delle circostanze in cui Roma allora si trovò; descritto invece fu da Livio, 23, 24, 6 segg.), che chiuse subito il libro terzo col ritrarre gli effetti di tanto avvenimento. Di Centenio parla Polibio solamente in quanto questo ufficiale era destinato a congiungersi con Flaminio, la sua storia essendo così parte della storia di Flaminio e della battaglia del Trasimeno.

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(1) Volgiamoci un momento a considerare lo stato della critica in questo proposito. Ho già detto che i moderni che scrissero la storia prammatica di Roma non videro altro, nel racconto di Appiano, fuorchè una versione guasta del racconto polibiano-liviano, malgrado le differenze essenzialissime che corrono fra i due racconti. Anche nei lavori speciali la critica fece poco, ma tuttavia qualche cosa; fino agli ultimi anni questo qualche cosa si riduceva ai dubbi del Klüver sul lago Plestino e alla confutazione di tali dubbi per opera dell'abate Giovanni Mengozzi; ma ora il racconto stesso di Appiano nel suo insieme fu sottoposto ad esame. Vediamo partitamente questi due passi successivi della critica.

La questione sul lago Plestino abbraccia naturalmente solo una circostanza locale della narrazione di Appiano, e fu suscitata dal

Alla stessa conclusione conducono più altre ragioni, e tali, che ciascuna di esse basterebbe, non che a confermarla, a provocarla. 1° Il titolo di praetor (1), o, più rettamente, di propraetor (2) che troviamo dato, ma non però da Polibio, a Centenio, prova che la persona di questo nome fornita di siffatto titolo non ha che fare colla persona di questo nome priva del titolo medesimo; il Cen

KLÜVER (Italia Antiqua, pag. 586 segg.), che, non credendo all' esistenza di un lago di tal nome, opinò che Appiano propriamente avesse scritto non Πλειστίνην ma bensi Περυσίνην, e avesse chiamato Perugino, perchè vicin di Perugia, il lago Trasimeno. Ma sulla fine del secolo scorso il MENGOZZI (De' Plestini Umbri, del loro lago e della battaglia appresso di questo seguita tra i Romani e i Cartaginesi nel vol. XI delle Antichità Picene di GIUSEPPE COLUCCI, pag. 3 segg.) confutò il Klüver; egli in primo luogo dimostrò coi documenti che un lacus Pistiae nell'Umbria tra Foligno e Camerino esisteva ancora nei secoli XIV e XV dell'êra volgare; e dimostrò in secondo luogo che, oltre al lago di tal nome, esistette anche una città di tal nome (PLINIO, Hist. Nat., 3, 14, 114, ricorda fra i popoli umbri i Pelestini; una iscrizione antica riferita dal Mengozzi, pag. 29, ed ora anche da altri, per es. dal Wilmanns, n. 2104, ricorda la res publica Plestinorum ; Plesteas occorre negli Acta Sanctorum. 2, 582; Plistia occorre in un documento di Ottone III riportato dal Mengozzi, pag. 107; infine sorge tuttora colà la chiesa della Madonna di Pistia). In tal modo il Mengozzi fece vedere che anticamente una città e un lago dei Plestini esistettero realmente nell' Umbria, e per questa parte speciale adunque mise in chiaro la bontà delle notizie di Appiano.

Ma fu solo negli ultimi tempi che i critici presero in considerazione il racconto intero di Appiano, sebbene senza frutto. II NISSEN (Rhein. Mus., 20, 227 segg.) si provò, sempre partendo dalla falsa supposizione che il Centenio di cui si parla nel racconto polibianoliviano sia il medesimo di cui si parla nel racconto di Appiano, a conciliare i due racconti. Lo stesso fa l'IHNE, Röm. Geschichte, 2, 174 segg.; 179. La conciliazione non si trovò e non poteva trovarsi, perchè i due racconti non hanno di comune che il nome di Centenio. (1) CORNELIO NEPOTE, Hann., 4, 3. L'uso di praetor e di consul invece di propraetor e di proconsul era abuso frequente nel tempo in cui Cornelio Nepote scriveva, quindi il praetor di Cornelio Nepote e il propraetor di Livio (vedi nota seguente), sono, nel nostro caso, la stessa cosa.

(2) Livio, 22, 8, 1.

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