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Ma i dotti d'Oltre-lonio non si danno facilmente per vinti. Loro sta sempre a cuore di purgare ad ogni costo la loro nazione dall'onta che, secondo loro, le si fa, di crederla non immune da mescolanza d' elementi stranieri; così appunto come sta lor a cuore di ricondurre, a ritroso dei fati, la loro lingua letteraria al tipo della lingua classica, di fare di tutto per iscostarla, con gravissimo danno della coltura generale del loro paese, dalla viva sorgente della lingua parlata. Eppure la miscela dei sangui non sarebbe punto una macchia propria del popolo ellenico, poich' è un carattere comune a tutti i popoli odierni di Europa. Qual è tra essi quello che possa vantarsi d'essere giunto da una remota antichità attraverso ai secoli fino a noi esente d'ogni contatto con altri? Forse che i Tedeschi, p. e., si reputano a disonore il fatto che nel loro sangue germanico s'è infiltrato molto sangue slavo e celtico? O forse è cagione di rammarico a noi Italiani il sapere che nel nostro organismo etnico quale si era costituito sotto la dominazione romana si sono introdotti, e in abbondanza, elementi germanici, greco-bizantini, arabi? il sapere che ancora oggigiorno vivono tra noi delle colonie francesi o provenzali, tedesche, greco-bizantine, albanesi, e persino, in Molise e in Friuli, proprio delle colonie slave? E poi il fatto dell' avere non già gli Slavi assimilato a sè i Greci, ma i Greci gli Slavi, nella lingua, nella religione, nei costumi, nella coltura (1), non è la prova più evidente e conclusiva di quella persistenza della nazionalità ellenica che l'A. e i suoi compaesani tanto si studiano di assodare e mettere in piena luce? E, in ogni caso, se anche si riescisse a dimostrare la Grecia pura d'elementi slavi, forse che con ciò la si dimostrerebbe immune d'ogni elemento straniero? Nessuno vorrà dire molto affini agli Elleni i pastori erranti Tsintsari o Cutsovlachi, un tempo così numerosi sui due versanti del Pindo, che si nominava una Gran Valachia in Tessalia e una Piccola Valachia in Epiro e che il loro capo, tra l'XI e il XII secolo, portò il titolo di Gran Vlaco; i quali ancora oggi vivono in parecchie migliaia, più o meno segregati dal consorzio ellenico, e ivi e nella valle dello Sperchio e nell' Eparchia di Calcide d'Eubea e non iscarseggiano neppure nel centro e nel mezzogiorno della penisola (2). E che si dirà degli Albanesi? Li incon

(1) V. SCHMIDT, Op. cit., p. 2 segg. (2) Diefenbach, Оp. cit., p. 187.

triamo in tutte le eparchie, tranne (almeno ora) in Etolia, Acarnania e Laconia, e in parecchie isole; furono sino a poco fa, se non sono ancora, il nucleo principale, l'elemento preponderante della popolazione, non già solo dell' Epiro, ma altresì del regno ellenico, donde si spiega nella parte maschile di questa l'uso comune dell' albanese fustanela, e come (il che è di gran lunga più importante) nel suo complesso questa riproduca il tipo fisico albanese piuttosto che il greco classico. Essi furono qua e là assai bene ellenizzati, ma generalmente sono ancora abbastanza distinti dagli Elleni nei costumi e anche nella lingua, continuando di solito ad usare in privato la propria anche quando l'hanno smessa in pubblico (1). Il Sathas, come già il Paparrigopulos (2), afferma che i Greci non considerarono mai come stranieri questi discendenti degli Illiri o dei Macedoni, se non anzi dei Pelasgi, venuti a stabilirsi tra loro; che accolsero anzi come fratelli e liberatori dalla odiata dominazione bizantina già quei primi che apparvero nella penisola sotto il nome di Avari o di Sclavi. Questa asserzione non parrà a tutti, così senz'altro, ammessibile. Ma, se anche si ammettesse, ne verrebbe forse cancellata la differenza glottologica e proprio etnica che tra i due popoli intercede? Sì, gli Albanesi calati in diversi tempi in Grecia furono e sono a poco a poco attirati nell' orbita della civiltà della patria loro adottiva e di questa non men degli Elleni si mostrarono e si mostrano amanti, nè men pronti a versare per questa il loro sangue; ma è pur vero, checchè dica la scuola capitanata dall'Hahn, che essi in sostanza [derivino o no dagli antichi Illiri o dai Macedoni], sotto l'aspetto glottologico ed etnico insieme, differiscono dai Greci, non dirò col Fallmerayer quanto gli Afgani, ma certo non meno o poco men degli Slavi.

E che fa ciò? Per un popolo piaccia che io ripeta qui le parole che un vero amico dei Greci odierni, Ulrico Koehler, pronunziava nella seduta de' 13 dicembre 1877 dell' Istituto Archeologico Germanico ad Atene (3)

per un popolo è un privilegio ben dubbio

(1) DIEFENB., ibid.; e SCHMIDT, Op. cit., p. 14 segg.

(2) Op. cit., p. 395.

(3) Ueber die Zeit und den Ursprung der Grabanlagen in Mykenæ und Spata, nelle Mittheil, des deutsch, archaeolog. Institutos in Athen, Athen, 1878.

quello d'avere un albero genealogico assolutamente puro. Mentre delle nazioni che superbamente rifuggono da ogni mescolanza con altro sangue si veggono fiorire per poco e di buon'ora scadere, insegna la storia d'ogni tempo che sono i più atti a vivere e incivilirsi quei popoli che hanno saputo accogliere elementi stranieri e assimilarseli. I Greci fino al giorno d'oggi tale attitudine la mostrarono. E qui appunto è una delle più sicure guarentige ch'essi vivranno e sul cammino della civiltà andranno via via progredendo.

Firenze, gennaio 1882.

GIUSEPPE MOROSI.

DELLA LUNGHEZZA DI POSIZIONE

NEL LATINO, NEL GRECO E NEL SANSCRITO

I. La questione ch' io sto per trattare non è forse senza importanza, come quella che può dall'una parte interessare il filologo e il glottologo, e dall'altra chi si occupa di studî metrici. E se considero che in questi ultimi anni ne trattarono il Corssen, il Baudry, il Pezzi, il Cannello, lo Schmidt, non mi resta alcun dubbio che la sua importanza ce l'ha veramente e non piccola. Piuttosto temo di aver mirato a troppo arduo segno prendendo a studiare un argomento, intorno al quale già si esercitarono tante belle intelligenze. E di questo chiedo venia anticipata.

Intorno alla lunghezza di posizione delle sillabe gli antichi grammatici Pompeo e Prisciano ci lasciarono una teoria che il CORSSEN espone diligentemente nella sua opera capitale: Ueber Aussprache, Vocalismus und Betonung der lateinischen Sprache (2a edizione, II, p. 613-14 e segg.). Pompeo e Prisciano ci insegnano che ogni consonante semplice, paragonata con l'unità di misura metrica ossia con

una mora (il xpóνos πρŵτоç di Aristosseno), vale un mezzo tempo, cioè una mezza mora; e che ogni consonante doppia, e a fortiori due consonanti che si seguono immediatamente valgono una mora intiera, e perciò hanno il valore metrico di una vocale breve. Questa teoria si ricava dai passi seguenti: POMPEII, p. 112 Keil: « e brevis unum habet tempus, t dimidium tempus habet, s dimidium tempus habet..... T consonans est et omnis consonans dimidium habet tempus... X, quae duarum consonantium fungitur loco, unum habet tempus..... Illud etiam sequitur, esse aliquas syllabas plurimas, quae et plura habent tempora, quam oportet, ut est lex. Ecce e ipsum naturaliter duo tempora habet; x, quae duarum consonantium fungitur loco, unum habet tempus; ecce invenitur ista syllaba habere tria tempora.....».

Ne avviene che quando alla durata di una vocale breve si aggiunge la durata di due consonanti semplici che le tengono dietro immediatamente, queste due durate, sommate insieme, equivalgono alla durata di una vocale lunga; di qui nasce la lunghezza di posizione delle sillabe. POMPEII, p. 112 Keil: « quae positione fit longa, duo habet tempora. Quomodo? unum habet a vocali, et unum habet a duabus consonantibus, quia duae consonantes dimidium et dimidium habent tempus et faciunt longam syllabam praecedentem ».

I grammatici latini ci insegnano eziandio che vi sono consonanti di una durata incommensurabile, ossia consonanti irrazionali. Tra le quali consonanti irrazionali essi annoveravano le liquide red 1: Cledon., p. 27k: liquidae eo dictae quia liquescunt in metro aliquotiens et pereunt »; quando cioè, spiega il Corssen, in unione con la muta e la vocale breve precedente, non producono lunghezza di posizione. Lo stesso dicono dell's iniziale seguito da muta, dinanzi al quale s la vocale finale della parola precedente rimane breve: Pompeii, p. 108: «s littera hanc habet potestatem, ut, ubi opus fuerit, excludatur de metro: « ponitě spes sibi quisque »; ergo talis est s quales sunt liquidae ».

Adunque, conchiude il Corssen, da questa incommensurabilità o irrazionalità di r, l, s dipende se queste consonanti spesso con una muta e una vocale breve precedenti non compiono la durata di due tempi, e quindi non producono lunghezza di posizione.

Questa è la teoria insegnataci dai grammatici antichi ed esposta dal Corssen. Eccone la sostanza: una vocale breve vale un tempo; una vocale lunga, due tempi; una consonante mezzo tempo. Perciò

una vocale breve seguita da due consonanti semplici o da una consonante doppia, diventa lunga per posizione: perchè la durata della vocale breve (un tempo) sommata con la durata delle consonanti (un tempo) ci dà due tempi ossia la durata di una vocale lunga. Però i suoni r, 1, s hanno valore incommensurabile; di qui ne viene che spesso, quando a una vocale breve tengono dietro due consonanti di cui l'una è rolo s, non abbiamo lunghezza di posizione; perchè la somma della durata della vocale e delle due consonanti non è uguale (non essendo da tener calcolo dell' r o lo s) che a un tempo e mezzo, cioè non è tale da potersi considerare come durata di una vocale lunga.

Questa teoria è talmente empirica che già fu combattuta da tutti coloro che in seguito si occuparono di quest'argomento; ed io dubito ancora che il Corssen l'abbia voluto patrocinare come vera e sostenibile, ma che semplicemente egli l'abbia esposta per far conoscere quali fossero a questo proposito le opinioni degli antichi.

È al tutto empirica l'affermazione che il suono d'una consonante valga la metà di una vocale breve. A ogni modo, bisognerebbe sempre distinguere se nella sillaba la consonante è preceduta o seguita dalla vocale: p. es. in ta il valore del tè ben diverso che in at. Ma di questo, più tardi.

Ancora, su qual fatto possiamo noi fondarci per dire che i suoni r, l, s sono irrazionali ?

E ammesso pure che lo siano, cioè che siano più brevi di un mezzo tempo, perchè dunque r ed I fanno sempre posizione quando essi precedono la muta, e quando sono doppi? Se tr può non far posizione con la vocale breve precedente, perchè dovranno farla sempre rt ed rr?

I BAUDRY (Grammaire comparée des langues classiques, p. 10-13) dichiara insufficiente la teoria suddetta, ed espone una sua idea, a vero dire, un po' vaga e un po' confusetta. Egli in sostanza attribuisce, mi pare, la lunghezza di posizione alla difficoltà di poter pronunziare più consonanti di seguito: < on s'en peut faire une idée quand on entend les Orientaux qui parlent aujourd'hui notre langue; un Persan qui parle français prononce ferançais, obejet... Il suffit qu'une difficulté semblable se soit rencontrée dans la prononciation des langues anciennes pour expliquer l'allongement d'une syllabe qui, à sa voyelle briève valant un temps, ajoutait un retard équivalant à une

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