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CONGETTURE CATONIANE

I. Oltre a tutte quelle varie obbiezioni che da Gio. Matt. Gessner (1) in poi furono messe in campo per dimostrare che il libro De re rustica di M. PORCIO CATONE Subì un grande rimaneggiamento nell'ordine e nella lingua; obbiezioni alle quali risposero per buona parte Gio. Ugo di Bolhuis (2) e Rinaldo Klotz (3); nell'edizione dei Rustici latini volgarizzati (Venezia, stamperia Palese, 1792-94, vol. I, p. 148, n. 4) si legge la seguente, ch'io credo gravissima, alla quale i critici non hanno per anco tentato di dare una risposta: < .....Catone comincia così il suo libro: «Est interdum praestare (populo aggiunge un cod. della libreria di S. Marco) mercaturis rem quaerere, ni tam periculosum siet etc. ». Per me un tale modo di cominciare un'opera non va a garbo. Infatti veggo che i commentatori si sbracciano a trovarvi il senso vero. Ma checchè sia della giustezza di questo modo di cominciamento, le ultime linee del Proemio sembrano sciogliere, a mio favore, la questione. Catone termina così: << Nunc, ut ad rem redeam, quod promisi institutum principium hoc erit». Che è quanto dire: Ora, ritornando al proposito, ecco come do principio a quanto promisi. Se noi non vogliamo riguardare Catone come un babbuino smemorato, che crede d'aver detto ciò, che non ha detto per nissun conto, siccome apertamente consta, che in

(1) Scriptores rei rusticae. Lipsiae, MDCCXXXV, prefaz. (2) Diatribe literaria in M. Porcii Catonis Censorii quae supersunt scripta et fragm., Trajecti ad Rhenum. MDCCCXXVI, p. 176-187.

(3) Ueber die urspr. Gestalt von Cato's Schrift de re rustica. Jahn's, Jahrbb., Suppl. X, 1844, p. 5 sg.

tutto il proemio suo nè ha specificato di voler trattare dell' agricoltura, nè lo ha promesso, forza è concludere che realmente manca buona parte del proemio scritto da Catone, e che questo, che ora ci rimane, è mutilato..... ».

Sorvolando alle parole « est interdum praestare mercaturis rem quaerere e. q. s. » che non è il caso di giustificare, con moltissime altre, dalle accuse di commentatori, i quali per colpa tutta loro non intendono Catone (1), vengo a proporre una variante nella chiusa del proemio: « nunc, ut ad rem redeam, quod promisi institutum principium hoc erit »: dove invece di promisi leggerei promsi, modificando il senso nel modo seguente: « Questo che [finora] ho detto sarà (opp.: valga per) l'introduzione ch'io aveva divisato [di premettere all'opera mia] ».

Per tal guisa sarebbe tolto il sospetto di una lacuna, la quale del resto non si saprebbe dove ammettere: non in principio del proemio, perchè esso è troppo solenne, se posso dirlo, per doversi considerare mutilato non in mezzo, perchè la successione logica delle idee non è affatto interrotta.

Per altro contro questa congettura sorge una difficoltà. Nel periodo Catoniano precitato, si legge il verbo redeam, il quale naturalmente parrebbe implicare l'idea di ritorno ad una cosa alla quale l'autore sia di già venuto; ma di ciò si può dare spiegazione.

Catone, l'uomo pratico per eccellenza, che va sempre diritto, senza ambagi, al suo scopo, tanto nella vita come nelle opere sue e segnatamente nel libro De re rustica, dove precetti sono aggiunti a precetti, spesso perfino senza legame, dopo aver premesso una prefazione alquanto larga e generica, accennando ai pericoli del commercio, alla disonestà dell'usura, all'eccellenza dell'agricoltura, che fa gli uomini forti ed onesti e i soldati valorosi, ed alla ingenua semplicità de' costumi presso i maggiori, i quali per lodare un uomo dabbene lo chiamavano bonum agricolam bonumque colonum, s'accorge di aver fatto una digressione che lo ha allontanato dal dare principio all'argomento tutto pratico ch'egli si era proposto di svolgere nel

(1) Chi volesse consultare l'opera da me citata, avrebbe più volte occasione di osservarvi che i saggi di spirito frequentissimi e inopportuni, si conciliano mirabilmente colla scarsa cognizione del linguaggio Catoniano.

De r. r., e quindi, come pentito, ritorna ad esso « nunc, ut ad rem redeam, quod promsi institutum principium hoc erit ».

Questo va detto qualora s'intenda il verbo redire nella significazione primitiva di ritornare. Se poi piacesse invece considerarlo come usato semplicemente nel senso di venire, venire realmente, ecc., giusta parecchi esempi classici, la difficoltà sarebbe anche minore.

II. Forse perchè in PRISCIANO, lib. VI, p. 226 e 266, ediz. HERTZ, si legge: < M. Cato in censura de vestitu et vehiculis... », Enrico Jordan (1) credette che il titolo dell'orazione Catoniana, alla quale si allude, fosse « In censura de vestitu et vehiculis »; mentre è da ritenersi, con molta probabilità, per solo titolo genuino: De vestitu et vehiculis ».

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Le parole in censura sono state aggiunte, a mio credere, dal grammatico per indicare che Catone avea pronunziato quell'orazione mentre

era censore.

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Che poi la cosa stia veramente così lo proverebbe PRISCIANO stesso, il quale al libro XIII, p. 8, dice semplicemente: Marcus Cato de vestitu et vehiculis... senza aggiungervi che l'orazione era stata detta in censura, perchè l'avea già accennato due volte,

Parimenti, dalle parole di GELLIO, lib. V, 13, 4, ediz. HERTZ « M. Cato in oratione quam dixit apud censores in Lentulum », se ne è ricavato il titolo In Lentulum apud censores» che ancora si legge nelle edizioni catoniane, compresa quella, del resto diligentissima, di Enrico Jordan a p. 59, mentre il vero titolo parmi « In Lentulum ».

III. Conosceva Tito Livio l'orazione Catoniana « De lege Oppia »? Feder. Lachmann (2) dice: « An Catonis pro lege Oppia orationem legerit Livius incertum est. Non in omnium manibus erant Catonis orationes. Ciceronem scimus quasdam data opera invenire non potuisse. Illa Catonis pro lege Oppia oratio quae libro 34, 2 et sq. legitur, Livii debetur ingenio, apte, ut Fabricius dicit, ad rem et Catonis personam expressa, et in aliis locis Livius, ubi orationes a

(1) M. Catonis praeter librum de re rust. quae extant. Lipsiae, MDCCCLX, p. 50.

(2) De fontibus Historiarum T. Livii, commentatio altera. Gottingae, MDCCCXXVIII, p. 18.

magnis viris habitas superesse sciret, alias ipse suo ingenio proferre noluit. Cfr. 45, 25 ubi dicit: non inseram simulacrum viri copiosi quae dixerit referendo. Ipsius oratio extat Originum quinto libro inclusa. Idem facit 39, 42, 43 ubi nonnulla commemoratur e Catonis in Flamininum oratione desumpta, etiam 38. 54 ubi extare dicit orationem de pecunia regis Antiochi, et 43, 2, de qua re Catonis extabat oratio in P. Furium (non Lucium, ut in fragm. coll. legitur), pro Lusitanis dicta s. Lusitanis Hispanis, ut Charis, p. 198 dicit, qui locus ad hanc orationem referendus est. Et hi sunt loci, in quibus Catonis orationibus usus est Livius e. q. s. ».

Ora tutto questo si riduce, a parer mio, a dire in altre parole che Livio quando conosce le orazioni di Catone non le riferisce; ma quella « De lege Oppia > la riferisce, dunque non la conosce. Il quale ragionamento non sembrami intieramente giusto, poichè altro è dire che nei quattro esempi (il secondo e il terzo si riducono ad uno) citati da Lachmann, Livio mostra di conoscere le orazioni Catoniane senza riferirle, altro è dire che ogni qualvolta le conosce non le riferisce. Livio potea in quei luoghi conoscere le orazioni di Catone e non riferirle, ed altrove, pur conoscendole, riferirle se gli pareva opportuno. Per cui, chi vorrà derivare da pochissimi esempi una legge certa alla quale si attenesse strettamente Livio senza riservare alcuna libertà al suo ingegno, non foss' altro per variare? In que' tempi la storia non era ancora una scienza, ma, come parte dell'epopea, opera d'arte (1) e quindi non si può riscontrare in essa il metodo costante, la precisione rigorosamente scientifica dei lavori storici recenti.

Enrico Jordan (2) che di Catone pubblicò con molta diligenza i

(1) Cfr. QUINTIL., X, 1, 31-32, ediz. BONNELL: « Historia..... est enim proxima poetis, et quodammodo carmen solutum, et scribitur ad narrandum non ad probandum; .....neque illa Livii lactea ubertas satis docebit eum qui non speciem expositionis sed fidem quaerit ».

(2) Op. cit., p. LXIV, proleg.: « Praeclara extat oratio a Livio, XXXIV, 2, composita, quo auctore quod ne titulum quidem orationis agmen reliquiarum ducere passus sum, scio fore qui reprehendant. Verum cum Livius ubicunque Catonis orationum meminit ibi fere, quoniam integrae etiam tum extarent, simulacrum viri copiosi »>, ut ait XLV, 25, annalibus inserere quasi religiosum habeat, Oppiae legis suasionem, quam uberrime exposuit, a Catone scriptam ignorasse videtur ».

frammenti superstiti, non fa che ripetere l'argomento di.Lachmann. Per questa ragione non aggiungo parola intorno ad esso.

Ermanno Peter (1), dopo aver rifatto il riscontro che Jordan (2) avea già tentato fra quello che dicono i frammenti Catoniani della orazione « Dierum dictarum de consulatu suo » (3), e Livio nel lib. XXXIV, 8-21, esce in queste parole: « Vix enim mihi persuadere possum, Livium, cum omnes res a Catone gestas conlectas et dispositas in Originibus videret, ipsum quae opus erant, ex orationibus laboriose conquirere maluisse, praesertim cum perpaucos libros, qui non essent annales, in scribendo ante oculos habuisse videatur, origines autem noverit atque ita eorum mentionem fecerit, ut magnam eius auctoritatem habitam cognoscamus. Accedit quod consensus fragmentorum Catonis et Livii non est talis, ut quin Livium ipsis orationibus usum esse statuere cogamur. res concinunt, non verba. atqui Catonem consulatum suum in Originibus silentio non praeteriisse eademque narrasse quae in illis orationibus apertum est: quid ni igitur hanc rerum expositionem Livium secutum arbitremur? »

Prima di tutto osserverò che se perpauci erano i libri consultati da Livio all'infuori degli annali, non si può a tutto rigore negare che fra que' perpauci si annoverassero anche le orazioni, molte delle quali avevano stretta relazione colle cose narrate nelle Origini.

In secondo luogo ancorchè si ammettesse, per voler essere più severi dello stesso Peter, che Livio non abbia consultato altri libri che annali (4), colla congettura non infondata che farò più sotto, Livio, leggendo le Origini Catoniane (che spesso sono anche dette annali) leggeva pure implicitamente molte delle di lui orazioni, e fra queste

(1) Historicorum romanor. relliquiae. Lipsiae, MDCCCLXX, vol. I, p. CLIV-CLVI.

(2) Op. cit., p. LXVI-LVII, proleg.

(3) Vedili a p. 33-36, JORDAN, Op. cit.

(4) Oltre a non poche ragioni si potrebbe addurre in contrario anche la seguente osservazione: Livio al lib. XXXIII, 15, 9, dice: « Cato ipse haud sane detrectator laudum suarum », la quale espressione pare alludere alle orazioni di Catone anzichè alle origini, perchè con quelle ebbe spesso a lodarsi, ad opporre, come realmente faceva, la propria condotta a quella degli altri e a difendersi quaranta e più volte; cfr. l'orazione « de suis virtutibus contra Thermum », « de sumptu suo >> « ad litis censorias» (p. 43. 37. 51 JORDAN, Op. cit.) ed altre.

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