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tire versi ammirabili di sublime poesia: di che si hanno bellissimi esempî nelle Nuvole, negli Uccelli e nelle Rane di Aristofane. - Lingua e metro sono di purissima lega; la dizione è tutta speciale, e va distinta coll'appellativo di comica: l'ufficio del traduttore è quindi spinosissimo, e spesso bisogna accontentarsi di approssimazioni, massimamente chi pensi che talora il linguaggio comico non è che una fine parodia del linguaggio tragico.

Nella seconda parte dell'Introduzione, il Comparetti dà in breve il tessuto della favola delle Nuvole, mostrando che si divide in due parti, ciascuna di tre scene principali. Analizza quindi il contenuto. Scopo precipuo d'Aristofane è di satireggiare la dialettica nuova dei sofisti, presa nel suo peggior senso, come arte, cioè, di far parere diritto ciò che è storto; giusto ciò che è ingiusto, abbattendo così ogni principio di religione e di moralità. Luogo rilevantissimo della commedia delle Nuvole è il dialogo tra i due parlari, il giusto e l'ingiusto, dove viene anco satireggiata l'educazione contemporanea in confronto dell'antica, mettendo in rilievo le tristi conseguenze di quelle teoriche nuove. Oltre che la dialettica, i sofisti promovevano in genere ogni studio, sia fisico sia speculativo. Al commediografo conservatore tutte queste paiono vanità (e in parte non avea torto), e però le mette in burla colla creazione delle Dee Nuvole. Le Nuvole, Socrate, Strepsiade, e Fidippide sono i quattro caratteri della commedia, e Strepsiade, dopo che è stato a scuola nel Pensatoio (ppoνtiotńpiov) non vuol più saperne di pagare i suoi debiti, e si beffa de' creditori. Indarno Pasia incollerito gli grida:

<< Ah no! pel sommo Zeus, per tutti i Numi,
Non t'hai da pigliar giuoco impunemente

Di me! ».

Strepsiade ormai non crede più a Numi, e gli risponde:

« Mi svaghi proprio co' tuoi Numi,

Udir Zeus invocato in giuramento

Fa ridere oggimai color che sanno ».

Il figlio Fidippide, che prima non ci voleva andare, per accontentare il padre, alla fine si piega e va anch' egli al Pensatoio, e vi impara

l'arte così bene, che si mette a picchiare il padre, e dice che vuol battere anche la madre, e prova che ha ragione lui. In tal maniera Aristofane colpisce e satireggia nella sua applicazione pratica, l'idea che egli ha tolto a combattere. Una cosa sola non può non parerci per lo meno assai strana, il vedere cioè Socrate posto qua come tipo de' vani e cavillosi sofisti. Su questo punto le osservazioni del Comparetti sono acute e belle. È un fatto, egli dice, che Socrate, sia pur giustamente, combatteva le abitudini del popolo ateniese, e i vecchi pregiudizi del pensiero comune, usando il metodo della discussione e del fino raziocinio: come poteva non parere paradossale? Quanto non era facile allora mettere a fascio il suo con quel raziocinare ardito e falso, proprio dei sofisti, e dal quale vedeva Aristofane derivare tanti mali? L'attività e l'influenza d'un uomo grande può essere giudicata ben diversamente dai contemporanei e nel suo paese, che da uomini lontani che dopo ventiquattro secoli contemplano il suo nome e veggono il suo vero posto nella storia della umanità civile. E si noti che il Socrate delle Nuvole è bensì il Socrate reale, ma è insieme il tipo di quel genere di filosofanti, contro cui, con tutta ragione, Aristofane appuntava i suoi dardi satirici : però alcuni tratti caratteristici del Socrate reale qui non si trovano, e se ne trovano invece altri che non sono proprî del Socrate della storia. Vuolsi anche osservare che Aristofane non inveisce contro Socrate, e non lo tratta alla maniera con cui tratta Euripide e Cleone. Da ultimo è bene osservare che non fu solo Aristofane che abbia preso di mira Socrate, ma altri comici lo attaccarono nei loro drammi e più violentemente di lui. Epperò il Comparetti crede di poter affermare che tra la commedia delle Nuvole e la morte di Socrate, avvenuta ventisei anni dopo, non ci sia alcuno special rapporto di causa ed effetto, e osserva che in Platone vediamo che i discepoli stessi ed amici di Socrate erano ben lungi da attribuire ad Aristofane alcuna responsabilità di questo fatto. Il Comparetti chiude la dissertazione mostrando come la commedia nello stato in cui è a noi pervenuta, non potè essere rappresentata in esso infatti si rileva un rifacimento cominciato e non terminato, per cui vi si notano lacune e contraddizioni. Non mancano memorie antiche che ci dicono, che le Nuvole, in seguito all'insuccesso avuto nella prima rappresentazione, furono dall'autore rivedute e corrette.

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La versione del Franchetti, ha i due grandi meriti della fedeltà e

Fr. è incorso nella traduzione del v. 530 ha già avvertito il D'Ovidio. Per i v. 595 e seg., e 624 e 767 conf. le osservazioni del D'Ovidio. L'ultimo di questi versi è tradotto da G. Hermann: « Tu ipse primus aliquid inveni idque mihi expone ». v. 661, l'ěžάuapte non mi par tradotto con << svagati a tuo piacere ». Str. vuol dire, che il figlio poi potrà scialacquare a suo piacimento, dacchè frodi ed inganni gli procureranno i mezzi per farlo. Per il v. 925 e seg. avrei desiderato qualche nota; così come si leggono comunemente dànno luogo a grandi dubbî e rimangono oscuri non meno dei v. 912-913. Il v. 955 è tradotto, forse in causa della rima: « che a grave cimento gli amici porrà ». Il concetto del ἧς (σοφίας) πέρι τοῖς ἐμοῖς φίλοις ἐστὶν ἀγὼν μέγιστος esprime meglio la versione latina dell'ed. Didot: « de qua meis amicis maximum est certamen ». A tal condiscendenza alla rima attribuisco anche il πρоç ToÚTоiç del v. 1022, tradotto con: « per tal cagione. Vorrei dire anche contro l'« echeggiavano » del v. 968, con cui rende l'èvτειναμένους « ed intuonavan l'armonie ». Nel v. 920 il Fr. non rende Γ' ἁρπάζειν << servirsi prima ». Il кıxλížetv presso gli Attici vuol dire mangiar tordi, ed in genere cose ghiotte, cioè quasi lo stesso che ỏyopayeîv, nella posteriore grecità vale anche « ridere sottecchi »; tratterebbesi di ragazzi che discorrendo tra loro scherzano, ridono e sghignazzano, il << darsi ad oscena risata è certamente troppo forte. Al v. 1001 osservo che il Kock cita solo due figli d'Ippocrate, Telesippo e Demofonte, mentre lo Scoliaste aggiunge Pericle; i passi de'comici che ad essi si riferiscono e son citati dal Kock, hanno il plurale, non il duale. ν. 1040, il τοῖσιν νόμοις ἐν ταῖς δίκαις τἀναντί ̓ ἀντιλέξαι «io pel primo mi son accinto a contraddire le leggi ne' processi» non è certamente ben tradotto con < primo a contraddir mi feci le leggi e la giustizia, segue un xai, e non « ma ». Nel v. 1126 non è tradotto l'ůooμev. v. 1242, pare che il Fr. legga uèv σù пάντшν, lezione che non trovo registrata; la comune è ToÚTwv, il Kock seguendo il codice di Ravenna legge Toúτw, e lo riferisce all' antecedente Zeuç, contro il quale ha egli massimamente peccato. La traduzione del v. 1255 è sbagliata, come ha osservato il D'Ovidio. Quanto ai versi 1365-1368 credo che sia da accettare la trasposizione del Kock, 1365, 1367, 1368, 1366. Il 1418 è certamente guasto, e poco hanno giovato le emendazioni fin qui proposte, per il senso però è quello che ne dà il Fr. Nel v. 1435 guardi il Fr. se il suo « e busse io prendo possa stare. I versi 1488-89 si potrebbero per avventura tradurre più

fedelmente. Per il v. 1506 confr. il D'Ovidio, che fece pure osservare altre minori cose, che il lettore vorrà vedere nel citato giornale, in cui il nostro egregio collaboratore esprime ancora il desiderio, al quale mi associo, che cioè il Comparetti fosse stato meno parco colle sue opportune note, dacchè parecchi passi potrebbero pur abbisognarne per il lettore, che vuol gustare l'Aristofane reso italiano dal Franchetti, senza ricorrere al testo ed ai suoi commentatori. Ne' più recenti di questi il traduttore, confrontandoli fra loro, potrà per avventura rinvenire proposte di lezioni ed emendamenti, di cui giovarsi in una seconda edizione e nella continuazione della sua nobile fatica.

Torino, maggio, 1882.

GIUSEPPE MÜLLER.

D. COMPARETTI, On two inscriptions from Olympia. Reprinted from the Journal of Hellenic studies. London, 1881.

Già altra volta la Rivista ha reso conto delle dotte fatiche che il Comparetti dedica all'illustrazione delle iscrizioni greche, dovute agli scavi di Olimpia. Ora non può che brevemente accennare al lavoro inserito in uno dei volumi di « Studî ellenici » che si pubblicano in Inghilterra ed in cui intraprende in contradittorio col Kirchhoff e col Purgold, che se ne sono occupati nella « Gazzetta archeologica di Berlino, l'illustrazione nelle due epigrafi no 382 e 383. Il Kirchhoff trascrivendole aveva addirittura dichiarato di non poter interpretare il loro contenuto. Il Comparetti, sebbene dovesse soltanto lavorare con un facsimile, è riuscito, a parer mio, ad una lezione di molto migliore del Kirchhoff, emendando con molto acume e con vasta dottrina i non pochi errori dei due bronzi che portano le iscrizioni, ed a giungere ad una intelligenza generale dei due frammenti, di cui il primo, secondo lui, è il frammento d'una legge, concernente i coxóλoι (carica intorno ai diritti e doveri, dei quali si sperano ulteriori notizie dalle iscrizioni d'Olimpia, ancora inedite). Sembra che essi, oltre all'ufficio sacro, avessero anche parte nell'amministrazione del territorio appartenente al tempio, e fossero persino possessori di porzione

di esso, e che il frammento contemplasse il caso in cui potessero ad altro cedere parte del loro diritto. Il frammento della seconda iscrizione sembra quello d'una legge intesa a guarentire al Dio il rispetto dovutogli. L'importanza particolare dello scritto del Comparetti consiste poi nelle sue considerazioni sui singoli vocaboli dei due frammenti, considerazioni che accrescono notabilmente le nostre notizie sul dialetto dell'Elide, ancora sì poco conosciuto.

Torino, maggio, 1882.

G. MÜLLER.

M. PORCII CATONIS, De agri cultura liber M. TERENTI VARRONIS, Rerum rusticarum libri tres ex recensione HENRICI KEILII, vol. 1, fasc. I, Lipsiae, MDCCCLXXXII.

Nella mancanza assoluta di un'edizione critica degli Scriptores rei rusticae, non è a dire se la presente, annunziata già da qualche anno (1), fosse attesa vivamente da chi si occupa di tali studî.

Il primo fascicolo, di cui ora discorro, è unicamente dedicato all'opera di M. Porcio Catone, per la quale il Keil si è attenuto quasi per intiero all'edizione di PIER VETTORI (Lugduni, 1541), e agli Excerpta che Angelo Poliziano avea fatto dal codice Marciano, collazionandolo coll'edizione principe (2).

Ciò mi risulta dall' esame del testo; chè il presente fascicolo non porta prefazione.

Già fin dal 1849, nelle Observationes criticae in Catonis et Varronis de re rustica libros (p. 66-67) il K. avea detto che per vero titolo del libro Catoniano era da ritenersi De agricultura anzichè De re ru

(1) Cfr. TEUBNER'S, Mittheilungen, 1878, Nr. 2, S. 25.

(2) Cfr. A. M. BANDINI, Ragionamento istorico sopra le collazioni delle fiorentine Pandette fatte da ANGELO POLIZIANO, Livorno, 1762, p. 67.

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