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Quel che diletta e giova,

Saria vostro costume;

Nè del più nè del meno

Doglia o desio, ch' or par che vi consume,
Turberia 'l vostro nè l' altrui sereno.
Regneria sempre meco Amor verace,
E pura Fede; e fora il mondo pieno
Di letizia e di pace.

Ma verrà tempo ancora,

Che con soave imperio al viver vostro
Farà del suo costume eterna legge.
Ecco che già di bisso ornata e d' ostro
La desiata aurora

Di si bel giorno in fronte gli si legge.
Ecco già folce e regge

Il cielo; ecco che doma
I mostri: oh sante,

oh rare

Sue prove! oh bella Italia, oh bella Roma!
Or sì vegg' io quanto circonda il mare
« Aureo tutto e pien dell' opre antiche.
Adoratelo meco, anime chiare

E di virtute amiche.

Così disse, Canzone;

E del suo ricco grembo,

Che giammai non si serra,

Sparse ancor sopra me di gigli un nembo.
Poi con la schiera sua, quanto il Sol erra,
E dall' un polo all' altro si distese.

Io gli occhi apersi, e riconobbi in terra
La gloria di Farnese.

BERNARDINO BALDI.

CELEO E L'ORTO,

POEMETTO.

Si loda la vita campestre, e s'insegna la maniera di manipolare quel cibo che si chiama POLENTA.

SPARIR vedeasi già per l' oriente Qualche picciola stella, e spuntar l' alba: Già salutar il giorno omai vicino S' udia col canto il coronato augello; Quando pian pian del letticiuolo umile CELEO, vecchio cultor di pover ORTO, Alzò, desto dal sonno, il pigro fianco; E d'ogni intorno biancheggiar vedendo Dell' uscio agli spiragli il dubbio lume,

Cinto la vile e rozza gonna ond' egli
Solea coprirsi, indi calzato piede
Col duro cuojo rappezzato ed aspro,
Bramoso di saper se fosse il cielo
Ver l' oriente o torbido o sereno,
Mirollo; e poi che senza nubi il vide,
Prendendo augurio di felice giorno,
Tornò la 've ad un chiodo arida scorza
Pendea di vota zucca,
il cui capace
Ventre fatta s' avea di molti semi
Separati fra lor fida conserva :
E di lor quegli eletti onde volea
L'ORTICEL fecondar, postosi sopra
La manca spalla il zapponcello e 'l rastro,
Nell' ORTO entrò, cui diligente intorno
Di prun contesta avea spinosa siepe,
Ove parte spargendo i semi, parte
Svellendo dal terren l' erbe nocive,
Parte i solchi nettando, e parte ď
Empiendo largo vaso, onde la sera
Innaffiarne potesse i fiori e l' erbe,
Tanta dimora fe', che non s' avvide
Tre il Sol già di que' spazi aver trascorso
Onde i giorni e le notti egli misura :

acque

E tal dell' opra sua prendea diletto, Che tempo assai più lungo ito vi fora, Se 'l natural desio che mai non dorme In uom che neghittoso il dì non mena, Desto in lui non avesse altro pensiero. Per pagar dunque il solito tributo Al famelico ventre ed importuno, Entrato nel tugurio, e giù deposte Le lucid' arme sue, tutto si diede A prepararsi il consueto cibo. E prima col fucil la dura selce Spesso ripercotendo, il seme ardente Della fiamma ne trasse, e lo raccolse In arido fomento; e perchè pigro E languente gli parve, il proprio fiato Oprò per eccitarlo, e di frondosi Nutrillo aridi rami; e quando vide Che in tutto appreso avvalorossi ed arse, Cinto d' un bianco lino, ambe le braccia Spogliossi fino al cubito; e lavato Che dal sudore ei s' ebbe e dalla polve Le dure mani; entro stagnato vaso, Che terso di splendor vincea l' argento, Alquanto d' onda infuse, ed alla fiamma

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