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di fatica, di ferite e di febbri perniziosissime. Sampiero, che più franco sempre risorgeva, quanto più la fortuna il batteva, veduta la strada presa dai nemici da Campoloro ad Aleria, erasi messo a costeggiargli, tenendo i monti, ai quali aveva fatto ritirare tutti gli armenti e rotti i canali, pei quali le acque calavano in rivoli regolati al piano. Questa gita poteva agevolmente fare, perchè conoscendo bene il paese sapeva come sorgono i monti, come imboccano le valli, come giacciono i piani. Le ultime necessità sopraggiunsero i soldati della repubblica. Doria lasciò il pensiero di soccorrere il castello di Corte, facendo disegno di tornarsene a Bastia. Seguitollo sempre a seconda dai monti l'accorto e forte avversario, e gli fece molto danno. Il Genovese arrivava a Bastìa più da vinto che da vincitore: il castello di Corte si arrese.

Poscia il Doria volle tentare le cose d'Oltramonti, ma con piccole fazioni poco degne di memoria. Solo si ostinò a voler correre contro Bastelica, terra natale di Sampiero, così per vendetta, come per far vedere ai Corsi, che chi non aveva potuto difendere la casa propria, molto meno potrebbe quelle d'altrui. Venne a capo del suo disegno, rovinò dal fondo la casa di Sampiero, poi si ritrasse in Ajaccio, indi in Bastia. Le due parti facevano guerra crudele : incendj, rovine, ammazzamenti d'inermi e di arresi, rabbia repubblicana da una parte, rabbia isolana dall' altra,

Niuna cosa molto notabile si fece in Corsica nel presente anno, se non due operazioni, l' una appartenente al civile, l'altra alla guerra. Sampiero, che

oggimai da due anni aveva esercitata la guerra senza denari, ajutato solamente dalla buona volontà dei popoli, ed accorgendosi, che con quel procedere tumultuario non poteva aspettare tasse regolari, nè soccorsi stranieri, congregò in piè di Corte una dieta col pensiero di eleggere secondo l'antica consuetudine e colle voci dei popoli i nobili, affinchè con essi gli affari si trattassero più facilmente, e si risolvessero colla pubblica autorità. Furono eletti dodici della Gismontana, sei dell' Oltramontana. Mandarono come ambasciatore Antonpadovano del Pozzo di Brando chiedendo denari alla regina Caterina in Francia, poi dopo, per più efficacia e maggiore dignità gli arrosero Leonardo di Corte. Andati e ritornati nel gennajo dell'anno seguente recarono quantità di denaro e otto insegne di fanteria con su scrittovi a lettere grandi Pugna pro patria. Sampiero dispensava l' uno e le altre ai soldati. I due ambasciatori condussero con se, a gran contentezza della nazione, Alfonso, figliuolo di Sampiero, quello, che fu poi pel suo valore innalzato al grado di maresciallo di Francia.

La fazione militare fu, che il Doria s'impossessò del castello di Corte cacciandone a viva forza i Corsi, che vi si erano difesi con coraggio, non che virile, eroico.

In questo tempo Cristoforo Fornari, richiamato a Genova, lasciava il governo a Stefano Doria, al quale poco appresso venne sostituito Giovanpiero Vivaldi, Si rallentava la guerra, succedevano solamente piccoli incontri notabili per poco l'effetto, molto per la

rabbia. Prevalevano le devastazioni e le rovine, i Genovesi devastavano per vendetta, i Corsi per tor loro il pascolo: appoco appoco la Corsica già sterile per se, diveniva deserta, selvaggia e barbara pel furore degli uomini.

Il commissario Vivaldi vedendo quanto valore mostrassero i Corsi in tutti gli abbattimenti, nè sperando vincergli con la forza, si rivolse ai veleni ed agli assassinamenti. Uno dei capi più riputati di Corsica fedelissimo a Sampiero, era Antonio da San Fiorenzo. Costui postosi al borgo di Bagnaja tribolava continuamente con le sue correrie i Genovesi, che stavano in Bastia, nè il Vivaldi, quantunque assaltato l'avesse vigorosamente, l'aveva potuto vincere, o torselo davanti. Stava allora al servizio di Genova un certo Paolo Mantovano, uomo facinoroso: il commissario si lasciò intendere da costui; promise di finire Antonio o col ferro, o col veleno. Diedegli denaro, archibugio a ruota, veleno, cavallo velocissimo. Se n'andò da Antonio, raccontava sue fole: essere fuggito da Bastia per litigio con un soldato. Vedendolo bene armato, bene a cavallo, bene in aspetto, il Corso gli prestò fede. Il traditore l'invitava a cavalcare per diporto alla campagna: suo intento era, ove il vedesse discostato, ed in luoghi ermi giunto, ucciderlo coll' archibugetto, poi salvarsi sul corsiero. Per caso fortuito non gli venne fatta questa prima sceleraggine. Diè mano al veleno, ne asperse le ospitali vivande, che cuocevano, il vino, che stava non a cotal fine preparato. Ma il bollore ne aveva versato fuor parte, il vino tro

pa

vato torbo, fu gettato via. Pure rimasene nelle vivande tanto, che gustandone Antonio, sentissi recchi giorni infermo, e s'accorse d'essere stato avvelenato. Due figliuole di un suo amico state a mensa con lui furono malconce, e portarono pericolo di vita. Il traditore tornava a Bastìa, ebbe ricompensa dal Vivaldi. Ciò successe nel 1566.

Altra e più fiera tragedia accadde in gennajo del 1567 per opera di Francesco Fornari surrogato al Vivaldi, e di Raffaello Giustiniani, comandante dei cavalli. Risoluti, in qualunque modo il facessero o per veleno, o per tradimento di sangue, di levarsi dinanzi Sampiero, da cui riconoscevano tutte le turbolenze dell' isola, ed alle quali non vedevano fine, sinchè quel uomo vivesse, usarono per dargli morte, l'opera di un frate Ambrogio da Bastelica, famigliare del temuto Corso, ed amicissimo di un suo domestico, che aveva nome Vittolo. Questo scelerato frate andava e veniva spesso da Vico, dove allora il Sampiero dimorava, ad Ajaccio. Il generale non ignorava queste gite, ma essendo Ambrogio frate ed amico di casa, non sospettava delle insidie, che si tramavano. Il preparatore dei sicarj vedeva in Ajaccio i capi Genovesi, vedeva Ercole d'Istria, dichiaratosi nemico di Sampiero, vedeva i fratelli Michelagnolo, Gianantonio e Gianfrancesco d'Ornano, suoi nemicissimi. Finsero lettere di alcuni suoi amici della signorìa della Rocca, le quali lo avvisavano, che in quel distretto i paesani erano in punto di ribellarsi, e che unico spediente fosse per frenargli, ch'egli venisse. Credè vero ciò, che era falso

misesi in un viaggio, che per lui doveva esser l'ultimo, andò da Vico a Corsichiatti, passò per Ciglio e per Cauro, voleva andare alla Rocca. Raffaello Giustiniani, che stava continuamente in sull'avviso, e che uomo accorto era, essendo per l'appunto informato dalle sue spìe di quanto Sampiero faceva, e dove andasse e per dove passasse, già si era mosso con una squadra di cavalli e messo al passo di Cauro. L'agguato era tale Giustiniani occupava un colle sul ciglione di una valle ingombra di boscaglie, e rigata in fondo da un fiumicello. Sampiero arrivava sul colle a rincontro dalla parte opposta della valle. L'intrepido guerriero, veduti i nemici, nè credendo, che fossero tanti, e confortato anche da qualche traditore, che l'accompagnava, vago di combattere scese dall' erta all' ingiù, spinsesi nella valle, passò il guado a cavallo : il cavallo quasi presago di quanto di funesto si apprestava, annitriva, scalpitava, indietreggiava. L'insidiato capitano commise a' suoi, che forse erano un sessanta in quella ferale stretta, che lo seguitassero. Per salire all'incontro dei nemici gli era mestiero passare per una strada fonda e chiusa : là erano i sicarj Ercole d'Istria, e i tre fratelli Ornani. Sampiero vedutosi in luogo di pericolo, poichè già i Genovesi dall'alto si scoprivano, disse ad Alfonso, suo figliuolo, che a quel crudo mestiero della guerra si era giunto a lui, si salvasse. Ricusando il giovane di ciò fare, conscio del fatale momento sopraggiunto al padre, questi gli replicò con voce ancor più imperativa, salvassesi, e ad odio e a vendetta e a guerra contro Genova serbas

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