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volere entrar in lega a benefizio universale. Accettava papa molto volentieri il proposito e per se e per altrui. Mandava a Messina per ivi congiungersi coll' armata Veneziana e Spagnuola dodici galee sotto Marcantonio Colonna, e tanto operò col re di Spagna, che mostrò contentarsi della lega, e mandò ordine a Gianandrea Doria, suo capitano generale di mare nel Mediterraneo, adunasse ai disegni comuni cinquanta galee in Messina, e coi Veneziani e pontificj cooperasse. I duchi di Savoja, di Firenze e d' Urbino soccorsero anch' essi i Veneziani o con denari, o con navi armate in guerra. Emanuele Filiberto mandò quattro galere sotto la condotta di Andrea Provana, signore di Leinì. Ugual numero ne mandò Cosimo sotto Tommaso de' Medici. Così il capitano Piemontese, come il Toscano erano uomini di valore e molto esperti nelle cose di mare. Nè la religione di Malta se ne stava oziosa in mezzo a tanto tumulto, mandate avendo alcune galere contro il nemico, il cui furore aveva lasciato fresche vestigia nella loro forte e famosa sede. Solo il duca di Ferrara per alcune sue differenze col papa, rifiutando questi consigli, non volle intrigarsi nella pericolosa guerra.

Mentre i Cristiani si preparavano, i Turchi operavano. Erano contro Cipro destinati Piali, ammiraglio del mare, Mustafà, supremo capitano delle genti da terra. Il primo guidava cencinquanta galee fornitissime di ogni cosa, il secondo settanta mila combattenti fra fanti e cavalli, e tuttavia, provvido come

egli era, andava assoldandone dei nuovi. Già sulle spiagge della vicina Caramania strepitavano pronti ad invadere la Veneziana isola nelle loro fauci stesse, per così dire, posta, e che sola in quelle lontane regioni rizzava al vento Italiane insegne.

I Musulmani sbarcavano nel mese di luglio ad un porto nominato le Saline quasi senza contrasto, sì perchè i Veneziani non avevano forze sufficienti per correre la campagna, a gran fatica bastando ai presidj delle piazze forti Nicosia e Famagosta, e sì perchè i villaggi di Lefcarà e col loro esempio parecchi altri, mancando di fede, si erano dati al nemico. Mustafà aveva con se sull'isola intorno a cinquanta mila fanti, fra i quali si numeravano sei mila Giannizzeri, gente eletta, duemila cinquecento cavalli da battaglia, altrettanti da soma, tremila zappatori con un provvedimento fioritissimo di munizioni e di armi di ogni sorta. Trattavano crudelmente con incendi, ruine, morti e schiavitù i fedeli, accarezzavano i Lefcariani e chi gli seguitava. Misersi intorno a Nicosia, mandando però cinquecento cavalli ed alcuni fanti leggieri per tener assediata per terra al largo Famagosta.

Morto Lorenzo Bembo, reggeva con suprema autorità Nicosia Nicolò Dandolo, uomo certamente nè per ingegno, nè per valore atto a governare una così malagevole impresa, qual era la difesa di quella città principale di Cipro, ancorchè vi fossero dentro, tra Italiani e Stradiotti, soldati valorosissimi, meglio di tremila combattenti, ed oltre di questo il conte di

Singa vi avesse adunato di uomini del paese, tra nobiltà e popolo, oltre a tremila.

Mustafà piantò il suo mastro padiglione sopra alcune collinette, che scoprivano la città; col resto del campo vi si strinse intorno. I difensori non dimostrarono nè arte, nè valore nell' impedire gli approcci del nemico, per modo che quasi senza alcun danno si era fatto tanto avanti con le zappe che quei di dentro poco il potevano nojare. Si vedeva manifesta la rovina di quella piazza, nè da Famagosta poteva venire alcun soccorso. Il conte Piovena, Vicentino, saltò fuora con Italiani, Stradiotti ed aleun numero della gente del popolo per guastare i bastioni fatti dai Turchi. Fece improvvisamente soppraggiungendo, e valorosamente combattendo qualche danno; ma furono i suoi rimessi dentro con grave uccisione restandovi morto egli medesimo col conte Alberto Scotto, e molti altri buoni guerriéri.

Si venne agli assalti. In quaranta cinque giorni i Turchi ne diedero quindici, che furono tutti fortemente sostenuti dar Cristiani. Infine ai nove di settembre ne diedero uno generale, e per viva forza entrarono nella piazza. L'uccisione durò molte ore. Finalmente Mustafà, avendo sortito i suoi desiderj ed entrando nella vinta città, comandò a' suoi, che cessassero dal sangue. Dei nobili pochi rimasero vivi, gl' Italiani quasi tutti uccisi, e del popolo migliore una gran parte. Videro in quel funesto giorno per le violente mani dei Turchi l' ultima ora venti mila

per

sone. Il numero degli schiavi fu grande, e special

mente di donne e giovani nobili, menati, chi in Alessandria, chi in Costantinopoli, e chi altrove. Narrasi di una gentildonna, la quale fatta schiava, anteponendo la morte al disonore ed alla sozzura, mise fuoco alla munizione della nave, che la portava, sì che dall' impeto dell' ardente polvere fu disfatto il vascello con due, che gli erano vicini, parimente carichi di schiavi, che tutti con lei o infelicemente, o felicemente che si voglia credere, perirono.

La preda fatta a Nicosia, d'oro, d'argenti, di gemmé e d'altra suppellettile preziosa, fu ricchissima. Ai gentiluomini Veneziani, che vi esercitavano uffizj pubblici, furono mozze le teste, degli altri fatti molti strazj. Mustafà andò mostrando in punta di picca la testa tronca di Nicolò Dandolo a Marcantonio Bragadino sotto le mura di Famagosta, di cui era governatore. Minacciò, farebbe a lui lo stesso che al Dandolo, se non si arrendesse. L'invitto Bragadino rispose: facesse pure l'estremo di sua possa, venisse pure avanti, che il troverebbe, fermo in volere la morte piuttosto che l'infamia. Andarono i Turchi all' espugnazione di Famagosta, e se gli strinsero in

torno.

Mentre Nicosia periva e Famagosta pericolava, l'armata dei confederati con tardità méssasi insieme, era finalmente giunta al porto di Suda nell'isola di Candia. Erano i capi discordi su quello, che avessero a farsi. Siccome la signoria di Venezia aveva l'animo tutto intento all' ajuto di Cipro, aveva dato commissione a' suoi capitani di andarsene a trovare per la

più diritta l'armata Turchesca, e combatterla. Laonde il Zane, il Veniero, Marco Quirino insistevano, perchè questo partito si abbracciasse. Solo Sforza Pallavicino, altro capo dei Veneziani, voleva, che la guerra si facesse per diversione, e che si andasse sopra a qualche terra importante di Turchia. All' opinione dei primi si accostava Marcantonio Colonna, generale della Chiesa, e come tale generalissimo di tutta l'armata. Ma Gianandrea Doria, mosso forse da segreto odio contro i Veneziani, contraddiceva allegando il cattivo fornimento delle galere Veneziane, in cui per contagiosa malattia era morto gran numero di remieri e soldati. Si fondava altresì sulla stagione già molt oltre trascorsa, per la quale si rendeva pericoloso il soprastare più lungamente in quei mari.

Prevalse, l'opinione dei più. Mossersi adunque il diciottesimo giorno di settembre al viaggio di Cipro con cento settant' una galee sottili, undici galeazze, un galeone, e sei navi ottimamente fornite. Già s' avvicinavano alla tormentata, isola, quando soppraggiunse loro la novella della presa di Nicosia. Distratti da pensieri dubbj tornarono a far consulta. Gianandrea disse chiaramente, che essendo il fine del mese di settembre, non poteva più dimorare in quelle parti, , e che fallendogli il provvedimento da vivere, gli conveniva tornare verso, ponente. Proposersi alcune altre imprese diverse da quella di Cipro per far diversione, ma niuna fu accettata. Finalmente, contrapponendosi invano i più dei generali Veneziani, parve agli altri, che si dovesse seguitare il partito

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