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gli adornava l'animo, si trasfondeva nei magistrati. Erano anche meno frequenti le occasioni dei giudizj aspri, perchè essendo gli spiriti repubblicani dei Fiorentini domi da tre regni lunghi e sussecutivi, di miglior voglia piegavano il collo sotto il nuovo doninio. Quando ancora cardinale essendo Ferdinando abitava in corte di Roma, molto si era mostrato inclinato alle cose amatorie, nè senza scandalo si vedeva, ch'ei corteggiasse una figliuola del cardinal Farnese. Ma quando fu esaltato al seggio ducale della Toscana, mutò costume, e purgò la corte da quelle infamie, che avevano scandalizzato il mondo ai tempi di Cosimo, di Francesco e di Bianca. Nè questo fu il solo cambiamento, che in lui si operò da cardinale a principe. Fiero, superbo, armigero non temeva in Roma papa che fosse, e il papa era pur Sisto. Narrasi, che Sisto avesse vietato ad ognuno portare armi corte sotto pena della vita, e fosse chi si volesse, o qual nome chi le portava, avesse. Cadde per caso di tasca in quei dì ad un giovane principe Farnese una pistola corta, mentre era a udienza del papa. Sisto il voleva far impiccare: ad un'ora di notte la corda il doveva strangolare. Il cardinale Ferdinando trovò modo di far ritardare tutti gli orologi pubblici di Roma; poi andò all'ora dell' esecuzione all' udienza del papa, della grazia del Farnese supplicandolo. Sisto, che dal suono degli orologi credeva, che l'ora fosse passata, ed il fiato del giovane principe tronco, facilmente la concedè. Il Medici la mandò prestamente in castello, dove trovò ancora il principe in vita : così fu salvo. Seppe il papa il pietoso inganno, e se

ne corrucciò. Tra per questo fatto e l'insolenza del suo procedere in molte cose, e specialmente in amoreggiamenti di donne, Sisto, che non era tenero al sopportare, voleva far arrestare il cardinal Ferdinando. A questo fine il chiamò un giorno a palazzo, e gli sbirri erano pronti. Ma il destinato a carcere ne ebbe sentore, s' armò d'armi corte e di corazza, adunò la sua corte, ed i suoi Fiorentini, fè da loro occupare i capostrade e i dintorni del Vaticano; poi entrò da Sisto. Era intenzione del pontefice, che il Medici nel partirsi fosse trattenuto, e pel corridore condotto in castello; ma avvertito dal maestro di camera, che il palazzo era preso dagli uomini di Ferdinando, e che vi era pericolo nel tentativo, se ne rimase, e dissimulando lo accolse. Il cardinale inchinatosi profondamente al pontefice, e lasciando a bella posta, che se gli aprisse sul petto l'abito cardinalizio, si mostrò armato della corazza. A che il papa : Cardinale, che abito è questo? E Ferdinando, alzando con le mani la porpora, Questo, rispose, o beatissimo padre, è abito da cardinale; ed aprendo poi la stessa porpora, e battendo sulla corazza, e questo, soggiunse, è abito da principe Italiano, Ed

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papa, crollando la testa per lo sdegno, Cardinale, cardinale, disse, noi vi sapremo cavar di testa il cappello rosso. E l'altro, Se vostra beatitudine mi torrà di testa il cappello di feltro, io ne piglierò uno di ferro. Ciò detto, si partì dall' udienza, e seguitato da' suoi traversò Roma, dove stette più giorni guardandosi, e senza essere molestato : poi se n'andò a Firenze.

Tale fu Ferdinando de' Medici cardinale : principe, mutò l'uomo. Colui, che non aveva temuto un papa terribile, mostrossi poscia ossequente, irresoluto, timido, quando, tenendo in mano il governo della Toscana, si trattò di deffinire le materie giurisdizionali, molto lontano da quella fermezza, che in questo proposito si era veduta in Cosimo ed in Francesco. Le insolenze degli ecclesiastici sì nel carpire le eredità, e sì nel rifiutare il pagamento delle contribuzioni, andarono al colmo : regnava la cœna Domini, regnando Ferdinando. Già i tre quarti del territorio Toscano erano in proprietà di preti e frati, e tuttavia andavano acquistando, per modo che poco mancava, che tutta la Toscana divenisse patrimonio di chiesa. Si vede quanto fosse provvida la legge di Venezia. Si avverò, che i gesuiti erano in questa bisogna i più attivi di tutti, e davano maggior molestia al gran duca; ma di ciò non si curavano, ancorchè ei fosse stato intercessore presso il re Enrico, affinchè fossero rintegrati in Francia. I popoli si sdegnavano, e se non fosse stato il governo, che tutelava gl'Ignaziani, gli avrebbero cacciati a furor di sassi. Erano veramente solennissimi involatori di eredità. A tali arti debolmente si opponeva Ferdinando, più sollecito di non dispiacere a Roma, che di avere in protezione i suoi popoli.

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Fu più benefico per la mercatura e la coltivazione. Con immense spese ampliò il porto di Livorno, e l'arricchi di fabbriche e di comodi di ogni sorte per benefizio di chi navigava o commerciava. Diede poi

con una legge a posta intiera franchigia in quel porto a tutte le nazioni, specialmente ed espressamente all'Ebrea; il che vi chiamò un' ampia mercatura ed un grosso numero di commercianti. Prosciugò la Chiane, facendo in tal modo fruttificare terreni fertilissimi, i quali per lo innanzi giacevano sterili per essere o paludosi o sommersi; onde sorse anche quell' altro benefizio, che, purificatasi l'aria da aliti morbiferi, fu meglio provvisto alla salute degli abitatori. Non trattò colla stessa felicità la maremma di Siena, quantunque con grave dispendio vi si fosse travagliato; ma la natura più ribelle che in val di Chiane, non si lasciò vincere dagli sforzi dell' arte. Del resto, Ferdinando fu degno successore dei Medici per la munificenza ed il patrocinio delle belle arti, non per la salvatichezza, nè per la crudeltà, tenendo più mite ed umano costume così nel governare, come nel conversare. Cosimo suo figliuolo gli successe sotto nome di Cosimo II.

La potenza della casa d'Austria spaventava i principi, e l' invidia le era addosso. Premeva co' suoi stati ereditarj e colla dignità imperiale l' Alemagna, colle sue possessioni e presidj l' Italia. Sebbene quel ramo di lei, che fra gli Alemanni regnava, inclinasse a moderazione e benignità, quello di Spagna, o fosse la natura di Filippo, o quella della nazione, cui reggeva, che sel facesse, con molto fasto ed alterigia procedeva. Un tale alto costume usava principalmente verso i principi d'Italia, che piccoli, ciascuno per se, nè consentendo a divenir forti per l'unione, se ne viveano in non poca soggezione, ma il rancore e il

desiderio di redimersi accendevano tutti i cuori. Il duca di Savoja massimamente, che sentiva altamente di se medesimo, forte d'ingegno, d'arti, d'armi, d'attività, di fama, di sperienza in guerra, aveva a schifo la superiorità Spagnuola. Venne ad aggiungere stimoli a quell'animo fiero ed intollerante il trattamento, che si faceva in corte di Spagna a'suoi tre figliuoli; imperciocchè il principal ministro, che girava il re in ogni sua voglia, dubitando, ch'eglino fossero per acquistarsi nelle deliberazioni tanta autorità di quanta aveva goduto Emanuele Filiberto loro avolo, gli teneva lontani dalle faccende, e per sino dalle udienze del re. In mezzo ad onori apparenti vivevano in realtà trascurati e derelitti. Il duca per altezza d'animo e per tenerezza di padre ne sentiva grandissima molestia.

Il re Enrico, che già aveva fatto grandi cose, ed aspirava a farne delle maggiori, vide la superbia Austriaca e la mala contentezza dei principi. Gli doleva la depressione, in cui gli pareva essere caduta la Francia, desiderava di rinnalzarla al suo grado, gli stava a cuore d'abbassare l'emula antica, ambiva d'acquistare il nome di liberatore d'Europa. A tal fine tendevano i vasti suoi pensieri. Per condurgli ad effetto, due mezzi gli si appresentavano, le forze proprie e quelle d'altrui. Confermata in ogni luogo la sua autorità in Francia, aveva di più il suo nome grande in pace, grande in guerra, capitani espertissimi, soldati valorosi, e quel, che più importava, in lui confidentissimi. Avvezzi all' armi, siccome quelli che nell' armi erano nati, cresciuti ed allevati, non

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