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datum ab senatu, memorans. Varia fortuna belli, atroci discordia domi forisque annum exactum, insignem maxime comitia tribunitia efficiunt, res maior victoria suscepti certaminis, quam usu: plus enim dignitatis comitiis ipsis detractum est, Patribus ex concilio summovendis, quam virium aut plebi additum aut demptum Patribus.

LXI. Turbulentior inde annus excepit, L. Valerio, Ti. Aemilio consulibus, quum propter certamina ordinum de lege agraria, tum propter iudicium Ap. Claudii: cui, acerrimo adversario legis, causamque possessorum publici agri, tanquam tertio consuli sustinenti, M. Duilius et C. Sicinius diem dixere. Nunquam ante tam invisus plebi reus ad iudicium vocatus populi est, plenus suarum, plenus paternarum irarum. Patres quoque non temere pro ullo aeque annisi sunt; propugnatorem senatus, maiestatisque vindicem suae, ad omnes tribunicios plebeiosque oppositum tumultus, modum duntaxat in cerlamine egressum, obiici iratae plebi. Unus e Patribus, ipse Ap. Claudius, et tribunos et plebem et suum iudicium pro nihilo habebat. Illum non minae plebis, non senatus preces perpellere unquam potuere, non modo ut vestem mutaret, aut supplex prensaret homines, sed ne ut ex consueta quidem asperitate orationis, quum ad populum agenda causa esset, aliquid leniret atque summitteret Idem habitus oris, eadem contumacia in vultu, idem in oratione spiritus erat: adeo ut magna pars plebis Appium non minus reum timeret, quam consulem timucrat. Semel causam dixit, quo semper agere omnia solitus erat, accusatorio spiritu: adeoque constantia sua et tribunos obstupefecit et plebem, ut diem ipsi sua voluntate prodicerent: trahi deinde rem sinerent. Haud ita multum interim temporis fuit. Ante tamen, quam prodicta dies veniret, morbo moritur. Cuias quum laudationem tribuni plebis impedire conarentur, plebs fraudari sollenni honore supremum diem tanti viri noluit; et laudationem tam aequis auribus mortui audivit, quam vivi accusationem audierat; et exsequias frequens cele

bravit.

delle quali i soldati non manco si rallegrano, che del guadagno. Tornossi dunque l'esercito amico e ben disposto verso il capitano, e conseguentemente, per sua cagione, manco nemico a' Patrizii, dicendo che a loro dal senato era stato dato un padre, ed a quell'altro esercito un tiranno. In cotal guisa fu compiuto l'anno con varia fortuna di guerra, e grave discordia in casa e fuori. Ma fu massimamente notevole per gli squittini, che si cominciarono a fare dalle tribù. La cosa in sè fu maggiore per la vittoria della gara cominciata, che per frutto che se ne traesse; perciocchè a'detti squittini fu assai più tolto della solita dignità rimovendone i Padri, che alla plebe aggiunto di forze,o tolto a'Padri.

LXI. L'anno nuovo al tempo di L. Valerio e di T. Emilio, consoli, fu più travagliato, sì per la contesa e gara de diversi ordini, per la legge agraria, sì ancora pel giudicio di Ap. Claudio. Al quale aspro avversario della legge, e difenditore della causa dei pubblici terreni, come se egli fosse stato un altro terzo console, M. Duilio e C.Sicinio posero l'accusa. Non fu mai per lo tempo passato chiamato in giudicio alcun reo più odioso al popolo, pieno delle sue, pieno ancora delle paterne ire ed ingiurie. I Patrizii ancora rarissime volte fecero per altri tanta forza, avendo per male che un difensore del senato e conservalore della maesla sua, opposto contro a lull'i tumulti della plebe e de' tribuni, fosse così dato in preda all'adirata plebe, non avendo in altra cosa punto erralo, che nel trapassare alquanto il modo delle contese civili. Solo tra'Padri, Ap. Claudio teneva per nulla i tribuni e la plebe, e la sua propria accusa. Nè le minacce della plebe, o i prieghi dei Patrizii, lo poteron punto muovere, non solamente ch'ei mutasse la veste, ovvero umilmente si andasse a raccomandare agli uomini, ma nè anche ch'egli diminuisse alquanto della sua usata asprezza del parlare, avendosi a trattare la causa sua appresso il popolo. Riteneva per tanto il medesimo aspetto, la medesima contumacia nel volto, e la medesima audacia nel parlare. In modo che gran parte della plebe temeva non manco Appio accusato, che essa l'avesse già temuto nel suo consolato. Fece una volta la sua difesa, parlando e difendendosi con quel suo spirito ed empito di accusatore, come soleva trattare ogni sua cosa; tanto ch'ei fece in modo stupire i tribuni e la plebe, con quella sua costanza, ch'essi medesimi gli prolungarono il dì, e poi lasciarono scorrere la cosa. Non fu perciò l'intervallo del tempo molto grande; senonchè avanti che venisse il giorno determinato, egli si morì di malattia. Nel cui mortorio, sforzandosi i tribuni d'impedire la orazione delle suc lodi, la plebe non volle che l'ultimo giorno di tanto uomo fosse defraudato del solenne e debito

LXII. Eodem anno Valerius consul, cum exer. citu in Aequos profectus, quum hostem ad proelium elicere non posset, castra oppugnare est adortus. Prohibuit foeda tempestas, cum grandine ac tonitribus coelo deiecta. Admirationem deinde auxit, signo receptui dato, adeo tranquilla serenitas reddita, ut, velut numine aliquo defensa castra oppugnare iterum, religio fuerit. Omnis ira belli ad populationem agri vertit. Alter consul Ae milius in Sabinis bellum gessit: et ibi, quia hostis moenibus se tenebat, vastati agri sunt. Incendiis deinde, non villarum modo, sed etiam vicorum, quibus frequenter habitabatur, Sabini exciti, quum praedatoribus occurrissent, ancipiti proelio digressi, postero die retulere castra in tutiora loca. Id satis consuli visum, cur pro victo relinqueret hostem, integro inde decedens bello.

onore: e udì le lodi del morto tanto attentamente e volentieri, quanto ella avea prima udito l'accusa del vivo: e così con grande frequenza celebrò le sue esequie.

LXII. Nel medesimo anno Valerio console andò con l'esercito contra gli Equi, e non potendo allettare fuora i nemici alla battaglia, cominciò a combattere gli steccati. Ma fu impedito da una crudele tempesta del cielo con assai grandine e tuoni. Accrebbe assai la maraviglia, che avendo poi fatto suonare a raccolta, si fece il tempo tanto sereno e tranquillo, ch' ei fu ritenuto dal rispetto della religione dal combattere di nuovo gli alloggiamenti, come se qualche virtù divina li difendesse. Onde tutto lo sforzo della guerra si rivolse a predare il contado. Emilio, l'altro console, fece guerra nello stato de' Sabini, e quivi perchè i nemici si stavano dentro alle mura, fu dato il guasto alle possessioni. Di poi mossi i Sabini dalle arsioni non solamente delle ville, ma de' borghi assai popolosi, essendosi incontrati e combattuti coi predatori, e spiccata poi la zuffa con grande pericolo, il dì seguente levarono il campo, e si ridussero in luogo più sicuro. La qual cosa parve al console essere abbastanza, lasciando il nemico per vinto, partendosi quindi, benchè durasse ancora la guerra.

LXIII. (A. R. 283, A. C. 467) Tra queste guerre, durando a casa la discordia, furono fatti consoli T. Numicio Prisco ed A. Virginio. Non pareva che la plebe avesse a sopportare più oltre la dila

LXIII. (4. U. 283, A. C. 467) Inter haec bella, manente discordia domi, T. Numicius Priscus, A.Virginius consules facti. Non ultra videbatur latura plebes dilationem agrariae legis, ultimaque vis parabatur, quum, Volscos adesse, fumo ex in-zione della legge agraria; e già si apparecchiava cendiis villarum fugaque agrestium cognitum est. Ea res maturam iam seditionem ac prope erumpentem oppressit. Consules, coacti extemplo ab senatu ad bellum, educta ex urbe iuventute, tranquilliorem ceteram plebem fecerunt. Et hostes quidem, nihil aliud quam perfusis vano timore Romanis, citato agmine abeunt. Numicius Antium adversus Volscos, Virginius contra Aequos profectus. Ibi ex insidiis prope magna accepta clade, virtus militum rem, prolapsam negligentia consulis, restituit. Melius in Volscis imperatum est. Fusi primo proclio hostes, et in urbem Antium, ut tum res erant, opulentissimam, acti. Quam consul oppugnare non ausus, Cenonem, aliud oppidum, nequaquam tam opulentum, ab Antiatibus cepit. Dum Aequi Volscique Romanos exercitus tenent, Sabini usque ad portas urbis populantes incessere (A. U. 286, A. C. 466): deinde ipsi paucis post diebus a duobus exercitibus, utroque per iram consule ingresso in fines, plus cladium, quam intulerant, acceperunt.

l'ultima forza, quando s'intese che i Volsci erano
presenti, per lo fumo delle arsioni delle ville, e
per la fuga de'contadini. Questo accidente raffre-
nò la sedizione, già quasi atta a nascere. I con-
soli costretti dal senato incontanente ad andare
alla guerra, tratta la gioventù della città, fecero
restare più quieta l'altra plebe. Ma i nemici non
fecero altro, che avendo con vano timore trava-
gliato i Romani, con tutte le genti andarsene in
fretta. Numicio andò ad Anzio contra i Volsci,
Virginio contra gli Equi. Quivi avendo egli rice-
vuto un gran danno da insidie postegli su' primi
passi, la virtù de' soldati rinfrancò la cosa, quasi
per negligenza del console ruinata. L'esercito
contra i Volsci fu meglio capitanato, perciocchè
i nemici vi furono rotti nel primo assalto, e rimes-
si, fuggendo, nella città di Anzio, opulentissima
secondo la ragione de' tempi. 'La quale il console
non ebbe ardire di combattere, ma prese Ceno-
ne, un'altra terra degli Anziati non così ricca.Men-
tre che gli Equi e i Volsci tengono occupati gli
eserciti Romani, i Sabini saccheggiando corsero
insino su le porte di Roma (A. R. 286, A. C.
466). Ma eglino dopo pochi giorni, entrando l'uno

LXIV. Extremo anno pacis aliquid fuit; sed, ut semper alias, sollicitae certamine Patrum et plebis. Irata plebs interesse consularibus comitiis noluit. Per Patres clientesque Patrum consules creati T. Quinctius, Q. Servilius. Similem annum priori consules habent, seditiosa initia, bello deinde externo tranquilla. Sabini, Crustuminos campos citato agmine transgressi, quum caedes et incendia circum Anienem flumen fecissent, a porta prope Collina moenibusque pulsi, ingentes tamen praedas hominum pecorumque egere. Quos Servilius consul infesto exercitu insecutus, ipsum quidem agmen adipisci aequis locis non potuit: populationem adeo effuse fecit, ut nihil bello intactum relinqueret, multiplicique capta praeda rediret. Et in Volscis respublica egregie gesta, quum ducis tum militum opera. Primum aequo campo signis collatis pugnatum, ingenti caede utrimque, plurimo sanguine: et Romani, quia paucitas damno sentiendo propior erat, gradum retulissent, ni salubri mendacio consul, fugere hostes ab cornu altero clamitans, concitasset aciem. Impetu facto, dum se putant vincere, vicere. Consul, metuens ne nimis instando renovaret certamen, signum receptui dedit. Intercessere pauci dies, velut tacitis induciis utrimque quiete sumpta; per quos ingens vis hominum ex omnibus Volscis Aequisque populis in castra venit, haud dubitans, si senserint, Romanos nocte abituros. Itaque tertia fere vigilia ad castra oppugnanda veniunt. Quinctius, sedato tumultu, quem terror subitus exciverat, quum manere in tentoriis quietum militem iussisset, Hernicorum cohortem in stationem educit: cornicines tubicinesque, in equos impositos, canere ante vallum iubet, sollicitumque hostem ad lucem tenerc. Reliquum noctis adeo tranquilla omnia in castris fuere, ut somni quoque Romanis copia esset. Volscos species armatorum peditum, quos et plures esse, et Romanos putabant, fremitus hinnitusque equorum, qui, et insueto sedente equite, et insuper aures agitante sonitu, saeviebant, intentos velut ad impetum hostium tenuit.

e l'altro console per ira nel loro stato, riceverono da ambi gli eserciti assai maggior danno, che non avean dato.

LXIV. Nel fine dell'anno si stette alquanto in pace, ma con qualche pensiero (come per lo passato) sempre delle contese del senato e della plebe. La plebe adirata non si volle trovare agli squittini de' consoli. Furono per tanto creati da' Padri e loro clientoli ed amici, consoli T. Quinzio e Q. Servilio. I quali ebbero l'anno presente simile al passato, cioè i principii turbolenti e sediziosi dentro, è l'ultima parte tranquilla, per le guerre di fuori. I Sabini passato il piano de Crustumini con velocità, avendo fatto grande uccisione ed incendio intorno al fiume Aniene, furono ributtati presso che dalla porta Collina, e dalle mura; nondimeno ne menarono gran preda di uomini e di bestiame. I quali Servilio console seguitando con l'esercito a ordine per combattere, non potè sopraggiungere le genti in luogo atto da combattere: ma fece per tutto il paese sì larga e gran preda, che non lasciò luogo, ch'egli non manomettesse con la guerra, e tornossi carico di ogni sorta di preda: e tra'Volsci similmente la repubblica fu bene amministrata, tanto per opera e virtù del capitano, quanto de'soldati. Prima si combattè alla campagna con grande uccisione e molto sangue da ogni parte. E i Romani, perchè il poco numero era più atto a ricevere danno, si sarebbero ritirati, se il console con una salutifera bugia, gridando, non avesse detto, che i nemici erano rotti e messi in fuga dall' altro corno, e così avesse ferme le schiere, e rinnovato la zuffa in modo che ripresero l'animo, e facendo i soldati empito, vinsero mentre che si credevano vincere. Il console temendo col perseguitare i nemici con troppa instanza, non rinnovare la battaglia, fece suonare a raccolta. Passarono alcuni pochi dì come con una tacita triegua, riposandosi l'una e l'altra parte: nel quale intervallo di tempo venne una gran moltitudine dalle terre degli Equi e de' Volsci nel campo de'nemici segretamente: e non dubitando punto, che i Romani non si avessero di notte a partire, presentendo tal cosa, quasi su la terza vigilia vennero a combattere il campo. Quinzio posato il tumulto, che per la subita paura era nato, avendo comandato che i soldati si stessero in posa sotto le tende, mandò fuori in guardia una compagnia d'Ernici, e mise a cavallo alcuni suonatori di corpi e di trombe, comandando che suonassero davanti agli alloggiamenti, fuori delle munizioni del campo, e così tenessero il nemico in sospetto sino al giorno. Il resto della notte fu tanta quiete nel campo, che i Romani ebbero spazio e comodità di poter dormire. Ma l'apparenza de' fanti a piedi armati, i quali i Volsci credevano che fos

LXV. Ubi illuxit, Romanus, integer satiatusque somno productus in aciem, fessum stando et vigiliis Volscum primo impetu perculit: quanquam cessere magis, quam pulsi hostes sunt: quia a tergo erant clivi, in quos post principia integris ordinibus tutus receptus fuit. Consul, ubi ad iniquum locum ventum est, sistit aciem. Miles aegre teneri, clamare et poscere, ut perculsis instare liceat. Ferocius agunt equites: circumfusi duci vociferantur, se ante signa ituros. Dum cunctatur consul, virtute militum fretus, loco parum fidens, conclamant, se ituros: clamoremque res est secuta. Fixis in terram pilis, quo leviores ardua evaderent, cursu subeunt. Volscus, effusis ad primum impetum missilibus telis, saxa obiacentia pedibus ingerit in subeuntes, turbatosque ictibus crebris urget ex superiore loco. Sic prope oneratum est sinistrum Romanis cornu, ni referentibus gradum consul, increpando simul temeritatem, simul ignaviam, pudore metum excussisset. Restitere primo obstinatis animis: deinde, ut obtinentes locum vires ferebant, audent ultro gradum inferre; et, clamore renovato, commovent aciem: tum rursus, impetu capto, enituntur, atque exsuperant iniquitatem loci. Iam prope crat, ut in summum clivi jugum evaderent, quum terga hostes dedere: effusoque cursu paene agmine uno fugientes sequentesque castris incidere. In eo pavore castra capiuntur. Qui Volscorum effugere potuerunt, Antium petunt: Antium et Romanus exercitus ductus. Paucos circumsessum dies deditur, nulla oppugnantium vi nova; sed quod iam inde ab infelici pugna castris amissis ceciderant animi.

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sero molto più, e Romani, ed il fremito ed anitrire de'cavalli, che si risentivano e facevano strepito, sì per essere sotto a nuovi e non consueti cavalcatori, sì ancora pel suono degli strumenti,che risonava continuamente loro agli orecchi, fecero stare tutta la notte i nemici sospesi ed attenti, come se allora allora avessero ad essere assaltati.

LXV. Tosto che venne il giorno, i Romani interi e freschi, ricreati dal cibo e dal sonno, messi fuora in ordinanza, ributtarono nel primo assalto i Volsci stracchi per la veglia e per lo stare in piede: benchè i nemici più tosto si ritirarono che si mettessero in fuga: perchè avevano certe colline alle spalle, nelle quali sicuramente si ritrassero in ordinanza. Quando il console giunse al luogo, nel quale vide il suo disavvantaggio, fermò le genti. Ma i soldati con gran fatica si potevano ritenere, gridando e domandando di essere lasciati seguitare gli spaventati nemici. Ma più ferocemente si portavano gli uomini a cavallo, facendo cerchio a' capitani, e dicendo che passerebbero innanzi alle bandiere. Mentre che il console stava sospeso, confidandosi molto nella virtù de' soldati, ma poco nella comodità del luogo, gridarono tutti che volevano andare innanzi : e così i fatti seguirono le parole. E per essere più leggieri ed espediti a salire all'erta, fitti i pili in terra, correndo andarono alla volta del colle. I Volsci avendo nel primo empito lanciati i dardi, gettavano le pietre (di che il luogo era pieno), o le voltolavano contro quelli che salivano. Ed avendogli scompigliati e smarriti con gli spessi colpi, cominciarono a caricarsi loro adosso dal luogo disopra. Così il sinistro corpo de'Romani con l'urto era quasi rigettato al piano, se già ritirandosi il console, e rimproverando ora la temerità, ora la dappocaggine e timidità loro, non avesse con la vergogna cacciata la paura. Fecero per tanto prima resistenza con gli animi ostinati, di poi secondo che bastavano loro le forze, ardiron di urtare innanzi, e così rinnovate le grida, mossero tutte le schiere, e di nuovo facendo un altro empito, superarono per forza il disavvantaggio del luogo. E già eran quasi pervenuti alla sommità del colle, quando i nemici diedero le spalle, e con un corso sciolto e senza ordine, quasi in una medesima schiera, quelli che fuggivano e quei che seguivano, si trovarono su gli alloggiamenti. I quali in quel terrore furono subitamente presi. I Volsci che poterono fuggire si ritrassero in Anzio. Dove essendo poi menato l'esercito Romano, ed avendolo assediato, finalmente non per alcuna forza nuova di chi combattesse la città, ma perchè già agli Anziati, per la infelice rotta e perdita degli alloggiamenti, erano mancati gli animi, tra pochi giorni dopo l'assedio s'arrendè a'Romani.

LIBRO TERZO

SOMMARIO

Sedizioni a motivo delle leggi agrarie. Si ricupera il Campidoglio, tagliati a pezzi i banditi e gli schiavi, che l'occupavano. Si rinnova due volte il censo; nel primo si contano cento quattromila duecento quattordici cittadini, oltre gli uomini e le donne ch'erano privi o di genitori o di figli; nel secondo, cento diciasselte mila duecento diciannove. Essendo andati male gli affari contro gli Equi, Lucio Quinzio Cincinnato, mentre attendeva in villa ad un rustico lavoro, è chiamato al governo di quella guerra. Egli, vinti i nemici, li fa passare sotto il giogo. Si accrebbe il numero de' tribuni fino a dieci, trentasei anni dopo l'istituzione del tribunato. Ricercate col mezzo di legati e portale a Roma le leggi Attiche, si creano per compilarle e proporle i decemviri in luogo de'consoli, soppresso ogni altro magistrato, trecento e un anno dopo la fondazione di Roma; e si trasferisce il sommo potere, come già dai re ai consoli, così ora dai consoli ai decemviri. Questi ne formaron dieci tavole; ed essendosi diportati con moderazione, piacque di prorogar loro il magistrato ad un altr'anno. Avendo aggiunte due tavole alle dieci, dopo molti atti di crudele e tirannica dominazione ricusaron essi di deporre il magistralo e se'l rilennero pel terzo anno, fino a che la libidine di Appio Claudio pose fine all'odiata loro dominazione. Egli invaghilosi di una giovinetta, messo innanzi un tale che la reclamasse qual propria schiava, spin

Seditiones de agrariis legibus factae. Capitolium, ab exsulibus et servis occupatum, caesis iis, receptum est. Census bis actus est. Priore lustro censa sunt civium capita centum quattuor millia ducenta quattuordecim, praeter orbos orbasque: sequenti, centum septendecim millia ducenta novendecim. Quum adversus Aequos res male gesta esset, L. Quinctius Cincinnatus diclalor factus, quum rure intentus rustico operi esset, ad id bellum gerendum arcessitus est. Is victos hostes sub iugum misit. Tribunorum plebis numerus ampliatus est, ut essent decem, trigesimo sexto anno a primis tribunis plebis. Petitis per legatos, et allatis Atticis legibus, ad constituendas eas proponendasque decemviri pro consulibus sine ullis aliis magistralibus creali, altero et trecentesimo anno, quam Roma condita erat: et, ut a regibus ad consules, ita a consulibus ad decemviros translatum imperium. Hi, decem tabulis legum positis, quum modeste se in eo honore gessissent, et ob id in alterum quoque annum eundem esse magistratum placuisset, duabus tabulis ad decem adiectis, quum complura impolenter fecissent, magistratum noluerunt deponere, et in tertium annum retinuerunt: donec inviso eorum imperio finem altulit libido Ap. Claudii. Qui, quum in amorem virginis incidisset, summisso, qui eam in servitutem peteret, necessitatem patri eius Virginio imposuit, rapto ex taberna proxima cultro, ut filiam interimeret; quum aliter eam tueri non posset, ne in potesta-se Virginio, che n'era padre, alla disperazione tem stuprum illaturi veniret. Hoc tam magnae di ammazzare la figlia con coltello tralto da una luxuriae exemplo plebs incitata montem Aven- vicina taverna, non avendo trovalo altro mezzo tinum occupavit, cöegitque decemviros abdicare d'impedire che non cadesse in mano di chi l'ase magistratu. Ex quibus Appius et unus collega-vrebbe violentata. La plebe concitala da tal esemrum, qui praecipue poenam meruerant, in carcerem coniecti; ceteri in exsilium acli. Res praeterea contra Sabinos, et Volscos, et Aequos prospere gestas continet, et parum honestum populi Romani iudicium: qui, iudex inter Ardeales et Aricinos sumptus, agrum, de quo ambigebatur, sibi adiudicavit.

pio di sfrenata lussuria, occupò il monte Aventino e costrinse i decemviri a dimettersi dal magistrato. Appio ed uno de'suoi colleghi, come più rei, son cacciali in prigione: gli altri bandili. Contiene inoltre questo terzo libro le vittorie contro i Sabini, i Volsci e gli Equi, e la poco onesta sentenza del popolo Romano che scello ad arbitro fra gli Ardeati e gli Aricini aggiudicò a sè stesso il terreno, di cui si contendeva.

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