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signa animo atque audacia sustinebat. Ut Hostius cecidit, confestim Romana inclinatur acies; fusaque est ad veterem portam Palatii. Romulus, et ipse turba fugientium actus, arma ad coelum tollens, Jupiter, tuis, inquit, avibus iussus hic in Palatio prima urbi fundamenta ieci.Arcem iam, scelere emptam, Sabini habent: inde huc armati, superata valle media, tendunt. At lu, pater deùm hominumque, hinc saltem arce hostes : deme terrorem Romanis, fugamque foedam siste. Hic ego tibi templum Statori Iovi, quod monumentum sit posteris, tua praesenti'ope servatam urbem esse, voveo. Haec precatus, veluti si sensisset auditas preces, Hinc, inquit, Romani, Jupiler optimus maximus resistere atque iterare pugnam iubet. Restitere Romani tanquam coelesti voce iussi: ipse ad primores Romulus volat. Metius Curtius ab Sabinis princeps ab arce decurrerat, et effusos egerat Romanos, toto quantum foro spatium est: nec procul iam a porta Palatii erat, clamitans, Vicimus perfidos hospites, imbelles hostes. Iam sciunt, longe aliud esse virgines rapere, aliud pugnare cum viris. In eum, haec gloriantem, cum globo ferocissimorum iuvenum Romulus impetum facit.Ex equo tum forte Metius pugnabat: eo pelli facilius fuit: pulsum Romani persequuntur. Et alia Romana acies, audacia regis accensa, fundit Sabinos. Metius in paludem sese, strepitu sequentium trepidante equo, coniecit: adverteratque ea res etiam Sabinos tanti periculo viri. Et ille quidem, annuentibus ac vocantibus suis, favore multorum addito animo, evadit: Romani Sabinique in media convalle duorum montium redintegrant proelium: sed res Romana erat superior.

ni,Ostio Ostilio. Costui, essendo i Romani in luogo basso a disvantaggio, con l'ardire e con l'armi sosteneva nella prima fronte tutta la pugna. Ma poichè egli fu veduto cadere morto, incontanente la schiera Romana si mise in volta, fuggendo senza fare alcuna resistenza, insino alla porta vecchia del monte Palatino. Romolo fuggendo anch' egli, sospinto dalla turba che fuggiva, alzando l'armi al cielo: 0 Giove (disse) da'tuoi santi augurii confortalo, e per tuo comandamento, qui nel monte Palatino io posi i primi fondamenti di questa città: già posseggono i Sabini la rocca eon somma scelleratezza guadagnata;ora vengono avanti con l'arme; e già hanno passata mezza la valle. Ma tu, o padre degl'iddii e degli uomini, discaccia almeno quinci i nemici, e leva a' Romani tanto spavento, e ferma così vile e sozza fuga; ed io ti fo volo, e prometto di edificare in questo luogo un tempio, a te Giove Statore, in perpetua memoria a coloro che verranno, come per tuo aiuto sia stata salvala oggi questa città. E ciò avendo detto, come se fosse accertato, i prieghi suoi essere stati esauditi, gridando disse: Qui comanda Giove ottimo massimo, che voi vi fermiate, e resistendo rinnoviate la battaglia. Fermaronsi i Romani, come se dal cielo fosse stato loro comandato, e Romolo si mise tra i primi feritori. Mezio Curzio, capo de'Sabini, era corso giù dal poggio della rocca, ed aveva rispinto indietro i Romani tanto di spazio, quanto tiene oggi il foro di Roma, nè era già molto lontano dalla porta del monte Palatino, gridando: Già vinto abbiamo i perfidi amici, e vili e codardi nemici; già si accorgono altra cosa essere il far preda di femmine, ed altra il combattere con gli uomini. Mentre che con sì fatte parole s'andava gloriando, Romolo con una frotta di ferocissimi giovani l'assaltò; e perchè egli era a cavallo, fu più agevole metterlo in volta, e così messo in fuga, lo perseguitarono. L'altra gente de' Romani, rincorata ed infiammata per l'ardire del re, ruppe i Sabini. Mezio, essendosi spaventato il suo cavallo, per lo strepito e romore di chi lo seguitava, si gettò nel padule vicino, il quale accidente fece voltare tutti i Sabini per lo pericolo di cotal uomo. Ma egli, chiamato e confortato da'suoi, riprese l'animo per lo soccorso di molti, ed uscì del pericolo. I Sabini e i Romani nel mezzo della valle tra due monti rinfrescarono la zuffa; ma i Romani erano al di sopra.

XIII. Le donne Sabine (per cagione delle cui ingiurie era nata la guerra) con le trecce sciolte e

XIII. Tum Sabinae mulieres, quarum ex iniuria bellum ortum erat, crinibus passis scissaque veste, victo malis muliebri pavore, ausae se interi capelli sparsi e le vesti stracciate, vinto per tanti tela volantia inferre, ex transverso impetu facto, dirimere infestas acies, dirimere iras, hinc patres, hinc viros orantes, ne se sanguine nefando so

mali il femminil timore, presero animo di mettersi in mezzo dell'armi, che da ogni parte volavano: e fatto empito da traverso, si sforzavano di partire

le questioni; quinci i padri, quindi i mariti pregando, ch'essendo suoceri e generi, non si volessero tra loro imbrattare si crudelmente dell' empio sangue, per non macchiare i parti loro col

figliuoli. Se vi dispiace (esse dicevano), pentitevi di questi parentadi e matrimonii, e rivolgete l'ira vostra contra di noi. Noi siamo cagione della guerra, noi la cagione delle ferite e della uccisione de'nostri mariti e padri; molto meglio ci sarà il morire, che, private o de'mariti o dei padri, vivere o vedove o senza i nostri padri. Mosse questo fatto tanto la moltitudine quanto i capitani, sicchè nacque un certo subito silenzio ed un subito posare dell'armi; poi si fecero innanzi i capitani a far considerazione ed accordo; nè solamente fecero la pace, ma di due città una, acco

ceri generique respergerent: ne parricidio ma- | le schiere nemiche inviluppate, e dividere l'ire e cularent partus suos, nepotum illi, liberùm hi progeniem. Si affinitatis inter vos, si connubii piget, in nos verlile iras: nos causa belli, nos vulnerum ac caedium viris ac parentibus sumus. Melius peribimus, quam sine alteris ve-patricidio, quelli de'nipoli, e questi de' proprii strum viduae aut orbae vivemus. Movet res tum multitudinem, tum duces. Silentium et repentina fit quies. Inde ad foedus faciendum duces pro- | deunt nec pacem modo, sed civitatem unam ex duabus faciunt: regnum consociant: imperium | omne conferunt Romam. Ita geminata urbe, ut | Sabinis tamen aliquid daretur, Quirites a Curibus appellati. Monumentum eius pugnae, ubi primum ex profunda emersus palude equus Curtium in vado statuit, Curtium lacum appellarunt. Ex bello tam tristi laeta repente pax cariores Sabinas viris ac parentibus, et ante omnes Romulo ipsi, fecit. Itaque, quum populum in curias triginta divide-munando il regno: e tutto lo stato trasferirono a ret, nomina earum curiis imposuit. Id non traditur, quum haud dubie aliquanto numerus maior hoc mulierum fuerit, actate, an dignitatibus suis virorumve, an sorte lectae sint, quae curiis no- | mina darent. Eodem tempore et centuriae tres equitum conscriptae sunt, Ramnenses ab Romulo, a Tito Tatio Titienses appellati. Lucerum nominis et originis causa incerta est. Inde non modo commune, sed concors ctiam, regnum duobus regibus fuit.

XIV. (A. U. 12, A. C. 740) Post aliquot annos propinqui regis Tatii legatos Laurentium pulsant: quumque Laurentes iure gentium agerent, apud Tatium gratia suorum et preces plus poterant. Igitur illorum poenam in se vertit: nam Lavinii, quum ad sollemne sacrificium eo venisset, concursu facto, interficitur. Eam rem minus acgre, quam dignum erat, tulisse Romulum ferunt: seu ob infidam societatem regni, seu quia haud iniuria caesum credebat. Itaque bello quidem abstinuit: ut tamen expiarentur legatorum iniuriae regisque caedes, foedus inter Romam Lavinium

Roma. Onde avendo raddoppiata la città, acciocchè pure s'attribuisse qualche cosa a' Sabini, furono i Romani chiamati Quiriti, dal nome della città de'Sabini nominata Cure: e medesimamente per memoria di quelle battaglie, il luogo ove prima Curzio uscito del profondo del padule, ritrovato il guado col cavallo si condusse all'asciutto, fu chiamato il lago Curzio. Tanto lieta e subita pace, nata di così dolorosa guerra, fece più grate e care le donne Sabine a'mariti ed a'padri, ed innanzi a tutti a Romolo. E perciò quando ei divise la città in trenta curic, le denominò da'nomi di alcuna di quelle. Questo non si trova già (essendo stato senza dubbio il numero delle donne maggiore), se quelle che diedero il nome alle dette curie fossero scelte per dignità loro, o de'mariti, o pure a sorte tratte a quell'effetto. Nel medesimo tempo furono scritte tre compagnie di cavalieri chiamate centurie. La prima fu chiamata Ramnese da Romolo. La seconda da Tito Tazio, Tiziense: del nome della terza detta Luceria, non si sa di certo la cagione. Così fu il regno non solamente comune ai due re, ma ancora governato da essi con somma concordia.

XIV. (A. R. 12, A. C. 740) Dopo alquanti anni, i parenti e'congiunti di Tito Tazio batterono gli ambasciadori de' Laurentini; del quale oltraggio facendo eglino querela e richiamo appresso a Tazio, secondo la ragione delle genti, appo di lui valevano più la grazia ed i prieghi de' suoi, che la ragione: onde ei convertì contro a sè stesso la pena da coloro meritata. Imperocchè essendo andato a un solenne sacrificio in Lavinio, ed essendovi per la detta cagione nato tumulto, vi fu dalla turba ucciso. Della qual cosa, dicono, Romolo avere fatto minore stima, che non pareva conve

nevole; o perchè la compagnia nello stato è sempre poco fedele, ovvero perchè pure giudicasse che ciò non gli fosse avvenuto ingiustamente. Astennesi per tanto da far guerra: ma acciocchè

que urbem renovatum est. Et cum his quidem insperata pax erat: aliud multo propius, atque in ipsis prope portis, bellum ortum. Fidenates, nimis vicinas prope se convalescere opes rati, priusquam tantum roboris esset, quantum futu-pur le ingiurie degli oratori e l'uccisione del re

rum apparebat, occupant bellum facere. Iuventute armata immissa, vastatur agri quod inter urbem ac Fidenas est. Inde ad laevam versi, quia dextera Tiberis arcebat, cum magna trepidatione agrestium populantur : tumultusque repens, ex agris in urbem illatus, pro nuntio fuit. Excitus Romulus (neque enim dilationem pati tam vicinum bellum poterat ) exercitum educit: castra a Fidenis mille passuum locat. Ibi modico praesidio relicto, egressus omnibus copiis, partem militum locis circa densa obsita virgulta obscuris subsidere in insidiis iussit; cum parte maiore atque omni equitatu profectus, id quod quaerebat, tumultuoso et minaci genere pugnae, adequitando ipsis prope portis, hostem excivit. Fugae quoque, quae simulanda erat, cadem equestris pugna causam minus mirabilem dedit: et quum, velut inter pugnae fugaeque consilium trepidante equitatu, pedes quoque referret gradum, plenis repente portis effusi hostes, impulsa Romana acie, studio instandi sequendique trahuntur ad locum insidiarum. Inde subito exorti Romani transversam invadunt hostium aciem. Addunt pavorem mota e castris signa eorum, qui in praesidio relicti fuerant. Ita multiplici terrore perculsi Fidenates, prius paene quam Romulus, quique cum eo equites ierant, circumagerent frenis equos, terga vertunt: multoque effusius, quippe vera fuga, qui simulantes paullo ante secuti erant, oppidum repetebant. Non tamen eripuere se hosti: haerens in tergo Romanus, prius quam fores portarum obiicerentur, velut agmine uno irrumpit.

XV. Belli Fidenatis contagione irritati Veientium animi, et consanguinitate (nam Fidenates

rimanessero purgate, si rinnovò la lega tra la città di Roma e quella di Lavinio, con la quale stando ferma la pace, fuor d' ogni opinione, nacque una altra guerra più vicina, e quasi su le porte. I Fidenati, giudicando una potenza sì vicina diventare troppo grande, avanti ch'ella acquistasse tante forze quante si mostrava ch'ella potesse col tempo farc, presero partito d'opporsi a quella con l'armi. Onde entrando con la lor gioventù armata nel contado di Roma, saccheggiarono, e guastarono tutto il paese, tra Roma e Fidena. Poscia volgendosi a man sinistra (perchè dalla destra s'opponeva il Tevere) fecero il medesimo con gran spavento dei contadini, e il romore di coloro che fuggivano alla città fece il caso a sapere. Romolo incontanente uscì fuori con l'esercito; perciocchè la guerra così vicina non aspettava indugio; ed accampossi presso a un miglio a Fidena; e lasciati guardati gli alloggiamenti abbastanza, fattosi innanzi con tutta l'oste, fece di parte de'soldati un'imboscata in certo lucgo pieno di arboscelli, e molto ombroso; poi con la maggior parte de' fanti, e con tutta la cavalleria con gran romore scorrendo insin quasi su le porte, e con sì baldanzoso modo di combattere, come ei cercava, gli venne fatto di ritirarsi dietro il nemico: e la medesima maniera di scaramucciare a cavallo fece manco maravigliosa la cagione della fuga, che ad ogni modo voleva fingere. Perchè stando alquanto sospese le genti a cavallo, tra il combattere e 'l fuggire, la fanteria cominciò anco a ritirarsi. Onde i Fidenati, a porte aperte usciti fuori furiosamente, il perseguitarono con tanta animosità, che essi furono trasportati dallo impeto insino al luogo dell'imboscata, e i Romani incontanente uscendo dell'agguato, assaltarono i nemici da traverso. Accrebbe ancora la paura la mossa che fecero gli stendardi, con quei ch'erano rimasi alla guardia degli steccati: tanto che i Fidenati spaventati da più bande, voltarono le spalle, quasi prima che Romolo e la sua cavalleria avessero dato yolta alle briglie de'cavalli; e con maggior velocità si tornarono alla terra, come quei che fuggivan daddovero, che non aveano poco innanzi seguitato coloro che fingevano di fuggire. Nondimeno non poterono uscire di mano a' nemici. Perciocchè, essendo i Romani tuttavia loro in su le spalle, prima che le porte si serrassero, mescolatamente con essi entrarono nella terra.

XV. Crucciosi i Veientani per la vicinità della guerra, e per la consanguinità, perciocchè ancora

quoque Etrusci fuerunt), et quod ipsa propinqui | i Fidenati eran Toscani, e perchè era loro molesto

l'avere i Romani ai confini, se le forze di essi avevano ad esser così noiose a qualunque loro vicino, armata mano corsero dentro a'confini de' Romani, più tosto a guisa di predatori, che di gente di guerra. Onde, senza accamparsi, o aspettare l'esercito ed i nemici, portandone la preda, si ritornarono a Veiento. I Romani dall'altra parte, posciachè non trovarono i nemici alla campagna, con le genti in ordinanza, ed apparecchiati a combattere, passarono il Tevere. Il che avendo udito i Veientani, e come si accampavano, ed erano per venire alla terra, uscirono loro incontro, deliberando più tosto di fare un fatto d'arme, che richiudendosi dentro avere a combattere per la difesa delle mura e delle case. Quivi, senza alcuni aiuti di forze forestiere, vinse il re dei Romani solamente col nervo del suo esercito pratico e veterano, e diede la caccia a' nemici insino alle mura. Astennesi però dal manomettere la città, vedendola forte di sito e di muraglia; ma nel tornarsi

tas loci, si Romana arma omnibus infesta finitimis essent, stimulabat. In fines Romanos excurrerunt, populabundi magis, quam iusti more belli. Itaque non castris positis, non exspectato hostium exercitu, raptam ex agris praedam portantes, Veios rediere: Romanus contra, postquam hostem in agris non invenit, dimicationi ultimae instructus intentusque, Tiberim transit. Quem postquam castra ponere, et ad urbem accessurum Veientes audivere: obviam egressi, ut potius acie decernerent, quam inclusi de tectis moenibusque dimicarent. Ibi, viribus nulla arte adiutis, tantum veterani robore exercitus rex Romanus vicit: persecutusque fusos ad moenia hostes, urbe valida muris ac situ ipso munita abstinuit: agros rediens vastat, ulciscendi magis, quam praedae, studio. Eaque clade, haud minus quam adversa pugna, subacti Veientes pacem petitum oratores Romam mittunt. Agri parte multatis in centum annos indutiae datae. Haec ferme, Romulo regnante, domi militiaeque gesta: quorum nihil absonum fidei di-indietro, diede il guasto al contado, per vendicarvinae originis divinitatisque post mortem creditae fuit; non animus in regno avito recuperando, non condendae urbis consilium, non bello ac pace firmandae. Ab illo enim profectu viribus datis tantum valuit, ut in quadraginta deinde annos tutam pacem haberet. Multitudini tamen gratior fuit, quam Patribus; longe ante alios acceptissimus mi-e fuori, al tempo di Romolo: delle quali niuna litum animis: trecentosque armatos ad custodiam corporis, quos Celeres appellavit, non in bello solum, sed etiam in pace, habuit.

XVI. (A. U. 37, A. C. 715) His immortalibus editis operibus, quum ad exercitum recensendum concionem in campo ad Caprae paludem haberet, subito coorta tempestas cum magno fragore tonitribusque tam denso regem operuit nimbo, ut conspectum eius concioni abstulerit. Nec deinde in terris Romulus fuit. Romana pubes, sedato tandem pavore, postquam ex tam turbido die serena et tranquilla lux rediit, ubi vacuam sedem regiam vidit, etsi satis credebat Patribus, qui proximi steterant, sublimem raptum procella; tamen, velut orbitatis metu icta, moestum aliquamdiu silentium

si, più tosto che per cupidigia di preda; dalla qual rovina costretti, non manco che dalla rotta, mandarono ambasciadori a Roma a domandare la pace. I Romani li condannarono, privandoli di parte del contado, e diedero loro la tregua per cento anni. Queste sono quasi tutte le cose fatte a casa

certo è punto difforme dalla opinione della sua divina origine, o da quella divinità, che di lui fu dopo la morte creduta. E veramente non gli mancò l'animo nel ricoverare il regno dell'avolo, non la volontà e'l disegno di edificare la città, nè il modo del guernirla e fortificarla per la pace e per la guerra; conciò fosse cosa che certamente per le forze acquistate per le opere di lui, ella rimanesse sì gagliarda, che dopo la morte di lui potè godersi sicuramente una pace di quarant'anni. Egli fu nondimeno più grato alla moltitudine, che a' Padri; ma sopra a tutti carissimo a'soldati. Ebbe continuamente trecento armati intorno, per guardia della sua persona, i quali egli chiamava Celeri.

XVI. (A. R. 37, A. C. 715) Avendo fatto queste immortali opere, e rassegnando un dì l'esercito nel piano vicino al padule di Capre, mentre che ei parlamentava, incontanente si levò una tempesta con grandissimo strepito e romori di tuoni, che con sì folta nebbia e caligine lo circondò, che privò i circostanti interamente della vista della persona di lui; nè fu poscia veduto più in terra. La gioventù Romana, cessando finalmente la paura, poichè di sì oscuro tempo fu tornato il ciel sereno, e ch'ella vide voto il seggio reale, ancora ch'ella prestasse fede a' Padri, i quali essendogli

stati più vicini affermavano ch'egli era stato rapito e portato in alto dalla violenza della tempesta, come se fosse privata del padre, per la paura e

dato principio da pochi, cominciarono tutti a salutare Romolo come dio, nato d' iddio, re e padre della città Romana; e parimente a pregarlo, che propizio e benigno, rendesse sempre felice la stirpe sua. Credo bene che allora anche fossero di quelli, che tacitamente seco stesso giudicassero, ch'egli fosse stato lacerato per le mani de'senatori; perciocchè ancora uscì fuori questa fama, benchè oscura. Ma quella di sopra fu più creduta

obtinuit. Deinde, a paucis initio facto, deum deo natum, regem parentemque urbis Romanae salvere universi Romulum iubent: pacem exposcunt, uti volens propitius suam sospitet progeniem. Fuis-sbigottimento, tenne alquanto silenzio. Di poi, se credo tum quoque aliquos, qui discerptum regem Patrum manibus taciti arguerent: manavit enim haec quoque, sed obscura, fama. Illam alteram admiratio viri et pavor praesens nobilitavit: et consilio etiam unius hominis addita rei dicitur fides namque Proculus Iulius, sollicita civitate desiderio regis et infensa Patribus, gravis, ut traditur, quamvis magnae rei auctor, in concionem prodit. Romulus, inquit, Quirites, parens urbis huius, prima hodierna luce coelo repente dela-e celebrata, per la maraviglia avuta di cotal uomo psus, se mihi obvium dedit.Quum,perfusus horrore venerabundusque, astitissem, petens precibus, ut contra intueri fas esset; Abi, nuntia, in- | quit, Romanis, coelestes ita velle, ut mea Roma caput orbis terrarum sit; proinde rem militarem colant; sciantque, et ita posteris tradant, nullas opes humanas armis Romanis resistere posse. Haec, inquit, locutus, sublimis abiit.Mirum, quantum illi viro, nuntianti haec, fidei fuerit; quamque desiderium Romuli apud plebem exercitumque, facta fide immortalitatis, lenitum sit.

XVII. Patrum interim animos certamen regni ac cupido versabat. Necdum a singulis, quia nemo magnopere eminebat in novo populo, provenerant factiones inter ordines certabatur. Oriundi ab Sabinis, ne, quia post Tatii mortem ab sua parte non erat regnatum, in societate aequa possessionem imperii amitterent, sui corporis creari regem volebant. Romani veteres peregrinum regem aspernabantur. In variis voluntatibus regnari tamen omnes volebant, libertatis dulcedine nondum experta. Timor deinde Patres incessit, ne civitatem sine imperio, exercitum sine duce, multarum circa civitatum irritatis animis, vis aliqua externa adoriretur. Et esse igitur aliquod caput placebat; et nemo alteri concedere in animum inducebat (A. U. 38, A. C. 714). Ita rem inter se centum Patres, decem decuriis factis, singulisque in singulas decurias creatis, qui summae

e per la presente paura; alla quale credenza, si dice ancora essere stata accresciuta la fede, per la prudenza ed opera d'un cittadino Romano. Imperciocchè Proculo Giulio (essendo la città tutta in travaglio per desiderio del suo re, e nemica e molesta, secondo che si dice, a'Padri), benchè ei fosse autore di sì gran cosa, arditamente entrò nel parlamento, e disse: 0 Quiriti, Romolo, padre di questa città, sul fare del dì, sceso subilamente dal cielo m' apparve innanzi, ed essendo io di ciò tutto spaventato, e con riverenza guardandolo, e pregandolo, che lecito mi fosse il poterlo guardare: Va, mi disse, e fa intendere a' Romani, che gl'iddii vogliono che la mia città di Roma sia capo di tutto il mondo: e perciò diano opera, ed attendano all'arte militare, e sappiano, e così a'loro descendenti insegnino, che niuna umana potenza potrà resistere all'armi Romane. E questo dello, si ritornò al cielo. Sarebbe a dire gran meraviglia, quanta fede fosse prestata alle parole di costui, e quanto appo la plebe e l'esercito si quietasse il desiderio di Romolo, per la credenza della sua immortalità.

XVII. In questo mezzo, la contenzione di chi dovesse regnare, e la cupidità del signoreggiare, pungeva le menti de'Padri. Non già che la gara fosse ancora tra'particolari, perchè nel popolo novello non era chi molto l'un l'altro avanzasse, ma combattevasi tra gli ordini. Quelli che avevano origine da'Sabini (perchè dopo la morte di Tazio, dalla parte loro non aveva regnato alcuno) volevano che di lor corpo si creasse il re, per non perdere nell'egualità della compagnia le ragioni della possessione del regno; e i Romani antichi schifavano un re forestiere. Tutti nondimeno in tanta varietà di volontà d'accordo volevano il re, non avendo ancora provato la dolcezza della libertà. Cominciarono di poi i Padri a temere, che trovandosi la città senza governo, e l'esercito senza capitano, ella non fosse manomessa da qualche violenza esterna, essendo le vicine città male animate

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