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hoc ad Alliam fuga, hoc capla urbs, hoc circumsessum Capitolium necessitatis imposuisse, ut desereremus penates nostros, exsiliumque ac fugam nobis ex eo loco conscisceremus, quem tueri non possemus. Et Galli evertere potuerunt Romam, quam Romani restituere non videbuntur poluisse? Quid restat, nisi ut, si iam novis copiis veniant (constat enim vix credibilem multitudinem esse), et habitare in capta ab se, deserta a vobis, hac urbe velint, sinatis? Quid, si non Galli hoc, sed veteres hostes nostri, Aequi Volscique,faciant, ut commigrent Romam: velitisne illos Romanos, vos Veientes esse?an malitis hanc solitudinem vestram, quam urbem hostium, esse? Non equidem video, quid magis nefas sit. Haec scelera, quia piget aedificare, haec dedecora pati parati estis? Si tota urbe nullum melius ampliusve tectum fieri possit, quam casa illa conditoris est nostri; non in casis, ritu pastorum agrestiumque, habitare est satius inter sacra penatesque vestros, quam exsulatum publice ire? Maiores nostri, convenae pastoresque, quum in his locis nihil, praeter silvas paludesque, esset, novam urbem tam brevi aedificaverunt: nos, Capitolio, arce incolumi, stantibus templis deorum, aedificare incensam piget? et, quod singuli facturi fuimus, si aedes nostrae deflagrassent, hoc in publico incendio universi recusamus facere?

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sarebbe stata la vittoria cagione che noi andassimo ad abitare in una città presa ed acquistata da noi, cagione certo onorevole e gloriosa a noi ed ai nostri descendenti, al presente questa nostra andata a noi sarà misera e vituperevole, ai Galli gloriosa; perchè non parrà che vincitori abbiamo lasciato la patria, ma che, essendo vinti, l'abbiamo perduta.A questo parrà che ne abbia costretto, per necessità, la rotta ricevuta al fiume d'Allia, la presa e perdita della città, e l'assedio del Campidoglio; e che siamo stati sforzati di abbandonar le nostre case, e di fuggire, ed andarne in esilio da questo luogo, il quale noi non possiamo difendere. E i Galli avranno potuto distruggere Roma, e i Romani non parrà che l'abbiano potula restaurare. Che ci resta? se venissero con nuovo esercito (perchè si tiene per cosa certa ch'essi sieno una moltitudine appena credibile), che altro dico resta, se non che,volendo essi, li lasciate abilare in questa cillà, presa da loro, ed abbandonata da voi? Ma se non i Galli, ma i vostri vecchi nemici Equi e Volsci facessero questo, e ch'essi venissero ad abitare a Roma, volele voi ch'essi sieno i Romani, e voi i Veienlani? non volete voi più tosto, che questa solitudine e diserto sia vostro, che Roma sia de'nemici? Certo io non veggio qual sia più scellerata e nefanda cosa. Siele voi per far queste scelleraggini? siete voi apparecchiati a sopportare sì falti vituperii; perchè vi par fatica l'edificare? Se in tutta questa ciltà non si potesse fare alcun migliore o maggior edificio, che si sia quella caset_ ta del nostro primo conditore, non è egli molto meglio abilare nelle capanne pastorali, e da contadini, tra le vostre cose sacre e con gl'iddii famigliari, che pubblicamente andarne in esilio? I nostri antichi, forestieri e pastori, non trovando in questi luoghi se non selve e paduli, in tanto breve tempo edificarono una nuova città; ed a noi, avendo il Campidoglio salvo, e la rocca e i templi degl'iddii restando in piede, parrà cosa faticosa riedificare quel che fu bruciato? e quel che ciascun di noi in particolare farebbe, se le nostre case si andassero in fiamme, ricuniamo noi tutti insieme universalmente di fare in questo incendio pubblico?

LIV. Finalmente, se in Veiento, o a caso, o per fraude nascesse un incendio, e che la fiamma sospinta dal vento (come accader potrebbe) ne consumasse una gran parte, abbiamo noi a cercare di andarne a Fidena, o a Gabio, o a qualche altra città? Rilienvi egli però tanto poco, o non punto l'amor della patria, e questa terra, che noi chiamiamo madre? o consiste la carità della patria nella superficie delle case e de' tetti? Certa

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calamitatis meminisse iuvat), quum abessem, quotiescunque patria in mentem venerat, haec omnia occurrebant, colles, campique, et Tiberis, | et assuela oculis regio, et hoc coelum, sub quo natus educatusque essem; quae vos, Quiriles, nunc moveant potius caritate sua, ut maneatis in sede vestra, quam postea, quum reliqueritis ea, macerent desiderio. Non sine causa dii hominesque condendae locum hunc urbi elegerunt, saluberrimos colles, flumen opportunum, quo ex mediterraneis locis fruges devehantur, quo maritimi commealus accipiantur: mari vicinum ad commoditates, nec expositum nimia propinquitate ad pericula classium externarum; regionum Italiae medium, ad incrementum urbis natum unice locum. Argumento est ipsa magnitudo lam novae urbis. Trecentesimus sexagesimus quintus annus urbis, Quirites, agitur: inter tot veterrimos populos tam diu bella geritis; quum inler ea, ne singulas loquar urbes, non coniuncti cum Aequis Volsci, tot tam valida oppida, non universa Etruria, tantum terra marique pollens, atque inter duo maria latitudinem oblinens Ilaliae, bello vobis par est. Quod quum ila sit, quae (malum) ratio est, expertis alia experiri, quum iam, ut virtus vestra transire alio possit, fortuna certe loci huius transferri non possil? Hic Capitolium est, ubi quondam capile humano invento | responsum est, eo loco caput rerum summamque imperii fore. Hic, quum augurato liberaretur Capitolium, Iuventas Terminusque maximo gaudio patrum nostrorum moveri se non passi: hic Vestae ignes, hic coelo ancilia demissa, hic omnes propitii manentibus vobis dii.

LV. Movisse eos Camillus tum alia oratione, tum ea, quae ad religiones pertinebat, maxime dicitur. Sed rem dubiam decrevit vox opportune emissa; quod, quum senatus post paullo de his rebus in curia Hostilia haberetur, cohortesque, ex praesidiis revertentes, forte agmine forum transirent, centurio in comitio exclamavit: Signifer, stalue signum : hic manebimus optime. Qua TITO LIVIO, I.

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mente io vi dirò il vero (benchè manco mi diletla ricordarmi della vostra ingiuria,che della mia calamità) quando io era assente, ogni volta che io mi ricordava della patria, lutte queste cose mi occorrevano alla mente; questi colli, questi piani, il Tevere, e tutto questo paese consueto vedersi agli occhi miei, e questo cielo, sotto il quale is era nato ed allevato. Le quali cose, o Quiriti, più tosto vi muovano ora con la carità sua, e faccianvi rimanere nelle vostre sedie,che, poichè le avrete lasciate, vi tormentino ed affliggano indarno col desiderio loro. Non senza cagione gl'iddii e gli uomini elessero questo luogo ad edificar la città, i colli sani ad abitare, il fiume comodo a portar le biade ed i frutti de' luoghi infra terra, e de' marittimi: al mare vicino per le comodità nostre, e pur non esposto per la troppa vicinità a'pericoli delle armate delle nazioni esterne; nel mezzo dell'Italia, un luogo propriamente nato all'accrescimento di una città, che abbia ad essere unica. Il segno manifesto è la grandezza stessa di così nuova città. Sono oggi, o Quiriti, trecenlo sessantacinque anni che ella fu edificata; tanto è che voi guerreggiate tra popoli antichissimi; ed in questo spazio di tempo (per non dire particolarmente ogni città), i l'olsci congiunti con gli Equi, e lante città potenti non sono state in guerra pari a voi: non tutta la Toscana, per terra e per acqua potentissima, che distende il suo imperio per la larghezza d'Italia tra due marine, vi ha potuto resistere. La qual cosa stando così (mala ventura!), che ragione è questa vostra, essendo di questo per esperienza certissimi, di voler fare altra nuova esperienza? Ma, conceduto che la vostra virtù si possa trasferire altrove, certo non si può portarne altrove la fortuna di questo luogo. Qui è il Campidoglio, ove già essendo slata trovata la calvaria di un capo umano, ful predetto dagl'indovini, che in quel luogo sarebbe it capo delle cose, e la somma dell'imperio. Qui (quando per via di augurii si liberava il Campidoglio) la dea Giuventa e l'iddio Termino non palirono di esser mossi dal luogo, con grandissima letizia de' nostri padri. Qui sono i sacri fuochi di Vesta. Qui i sacri scudi mandati dal cielo. Qui sono tutti gl' iddii propizii, e felici, se voi vi rimarrete fermamente in questo luogo.

LV. Dicesi, che Camillo li mosse, sì con altre molte ragioni allegate, sì ancora massimamente con quelle, che appartenevano alla religione. Ma la cosa essendo alquanto ancor dubbia, fu confermata da una parola molto opportunamente detta: perciocchè essendo poco dipoi ragunato il senato a trattare di queste cose nella curia Ostilia, tornando dalle guardie alcune squadre di soldati,

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voce audita, et senatus, accipere se omen, ex curia egressus, conclamavit, et plebs circumfusa approbavit. Antiquata deinde lege, promiscue urbs aedificari coepta. Tegula publice praebita est: saxi materiaeque caedendae, unde quisque vellet, ius factum; praedibus acceptis, eo anno aedificia perfecturos. Festinatio curam exemit vicos dirigendi, dum, omisso sui alienique discrimine, in vacuo aedificant. Ea est causa, ut veteres cloacae, primo per publicum ductae, nunc privata passim subeant tecla; formaque urbis sit occupatae magis, quam divisae, similis.

e passando a caso per piazza un centurione, appunto nel luogo de' comizii gridò al banderaio, dicendo: Ferma qui le insegne: qui staremo noi molto acconciamente. Alla qual voce uscendo il senato fuor della curia, disse, gridando tutt'i senatori ad una voce, che accettava tale augurio: e la plebe, ch'era d'intorno, parimente confermò quel medesimo. Essendo di poi in tutto annullata la memoria della legge, la città si cominciò a riedificare mescolatamente; le tegole furono pagate del pubblico, e diedesi licenza di cavar le pietre, e tagliar il legname ovunque a ciascuno piacesse, dando prima i mallevadori di finire nel medesimo anno gli edifizii. La fretta e volontà grande dell'edificare fu cagione che non si tenne cura di dirizzare i borghi le strade, mentre che senza far differenza dal suo a quel d'altrui, gli edificavano per le piazze, ed in qualunque luogo trovavano spazio voto. E questa è la cagione, che le fogne antiche, condotte da principio pe' luoghi pubblici, ora per tutto passano sotto alle case private, e che la forma della città sia più tosto simile ad una terra che sia stata a caso occupata dagli edifizii, che divisa ed ordinata.

LIBRO SESTO

SOMMARIO

Res adversus Volscos et Aequos et Praenestinos prospere gestas continet. Qualluor tribus addilae sunt, Stellalina, Sabatina, Tromentina, Arniensis. M. Manlius, qui Capitolium a Gallis defenderat, quum obstrictos aerc alieno liberaret, nexos exsolveret, crimine affectati regni damnatus, de saxo Tarpeio deiectus est: in cuius notam senatusconsultum factum est, ne cui de Manlia gente Marco cognomen esset. C. Licinius et L. Sextius tribuni plebis legem promulgarunt, ut consules etiam ex plebe fierent, qui ex patribus creabantur; eamque legem cum magna contentione, repugnantibus Patribus, quum iidem tribuni plebis per quinquennium soli magistratus fuissent, pertulerunt; et primus ex plebe consul L. Sextius creatus est. Lata est et altera lex, ne cui plus quingentis iugeribus agri liceret possidere.

Contiene il libro le imprese fatte prosperamente contro i Volsci, gli Equi e i Prenestini. Si aggiunsero quattro tribù, la Stellatina, la Sabatina, la Tromentina e l'Arniense. Marco Manlio, quegli che avea difeso il Campidoglio da' Galli, sollevando altri dai debiti, altri sciogliendo dalle catene, condannato per colpa di vagheggiala signoria, venne balzato giù dal sasso Tarpeo; e a nota d'infamia, il senato decretò che nessun della famiglia Fabia portasse il nome di Marco. Caio Licinio e Lucio Sestio, tribuni della plebe, proposero la legge che i consoli, i quali si traevan da' patrizii, si traessero anche dalla plebe; e continuando gli stessi tribuni per un quinquennio ad essere il solo magistrato, la fecero adottare dopo grandi dibaltimenti ed a dispello de' Padri; e primo della plebe fu creato console Lucio Sestio. Si adottò eziandio un'altra legge che vietava a chiunque si fosse di possedere più di cinquecento iugeri di terra.

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I. ( A. U. 365, A. C. 387 ). Quae ab condita urbe Roma ad captam urbem eandem Romani sub regibus primum, consulibus deinde ac dictatoribus, decemvirisque ac tribunis consularibus gessere, foris bella, domi seditiones, quinque libris exposui; res quum vetustate nimia obscuras, velut quae magno ex intervallo loci vix cernuntur : tum quod parvae et farae per eadem tempora literae fuere, una custodia fidelis memoriae rerum gestarum et quod, etiamsi quae in commentariis pontificum aliisque publicis privatisque erant monumentis, incensa urbe pleraeque interiere. Clariora deinceps certioraque ab secunda origine, velut ab stirpibus laetius feraciusque renatae urbis, gesta domi militiaeque exponentur. Ceterum primo quo adminiculo erecta erat, eodem innixa M. Furio principe stetit: neque eum abdicare se dictatura,nisi anno circumacto, passi sunt. Comitia in insequentem annum tribunos habere, quorum in magistratu capta urbs esset, non placuit; res ad interregnum rediit. Quum civitas in opere ac labore assiduo reficiendae urbis teneretur, interim Q. Fabio, simul primum magistratu abiit, ab C. Marcio tribuno plebis dicta dies est, quod legatus in Gallos, ad quos missus erat orator, contra ius gentium pugnasset: cui iudicio eum mors, adeo opportuna, ut voluntariam magna pars crederet, subtraxit. ( A. U. 366, 4. C. 386) Interregnum initum. P. Cornelius Scipio interrex, et post eum M. Furius Camillus. Is tribunos militum consulari potestate creat, L. Valerium Publicolam iterum, L. Virginium, P. Cornelium, A. Manlium, L. Aemilium, L. Postumium. Hi ex interregno quum extemplo magistratum inissent, nulla de re prius, quam de religionibus,

I. (A. R. 365, A. C. 387). Io ho narrato in cinque libri tutte le cose fatte dai Romani dal principio della edificazione della città insino alla sua presa; prima sotto il governo de're, poi dei consoli, de'dittatori, de'dieci e de'tribuni consolari: le guerre di fuori, e le sedizioni della città: cose troppo oscure, sì per la troppa antichità, come quelle che per grande intervallo del luogo appena si scorgono, e si perchè in quei tempi le lettere erano rade, che sole sono fedel memoria delle cose fatte: e perchè, se alcuna cosa era ne'libri de'pontefici, o di altre pubbliche e private seritture, nell'arsione della città la maggior parte di quelle andarono male. Per l'avvenire, le cose fatte a casa e fuori si racconteranno più chiare e certe, dalla seconda origine della città, come di nuovo dalle radici della vecchia pianta, con più rigoglio germogliando rinata. Fu mantenuta la città dal medesimo aiuto, dal quale era stata rilevata, riposandosi ella e sostenendosi sopra il principato di M. Furio: perciocchè i Romani non consentirono ch'ei rinunziasse alla dittatura, se non passato l'anno. Non piacque che i tribuni, nel magistrato dei quali era stata presa Roma, facessero i comizii per l'anno futuro: sicchè la cosa si ridusse all'interreguo. Essendo occupata la città nella continua opera e fatica dell' edificare, fu intanto posta l'accusa da C. Marcio tribuno della plebe a Q. Fabio, subito ch'ei fu uscito di magistrato: perchè, essendo stato mandato ambasciatore ai Galli, aveva combattuto con essi contra la ragione ed usanza delle genti. Dal qual giudizio la morte lo liberò tanto opportunamente ed in tempo, che molti credettero ch'ella fosse volontaria. (A. R. 366, A. C. 386) Entrò nell'officio dell'interregno prima P. Corne

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