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che per la sponsio è sufficiente la volontà del capitano; 2° nella forma; in quanto che per il foedus si richiede l'intervento dei feziali e il compimento delle loro cerimonie solenni, mentre per la sponsio si richiede soltanto l'adempimento di quelle forme religiose che ad essa andavano unite, e sovratutto il giuramento promissorio ('). E questa diversità di forma può concretarsi alla sua volta, secondo le parole di Livio, in tre punti: a) la differente precatio, la quale nell' uno e nell'altro caso aveva luogo egualmente ('), ma diversa come era diverso lo scopo e la natura dei due giuramenti; b) nel documento originale di una sponsio internazionale si devono trovare le firme di tutti gli sponsores, mentre per il foedus non si richiede che la sottoscrizione dei due feziali che devono aver compiuta la cerimonia; c) nella sponsione si ritrovano ostaggi il cui numero talvolta veniva straordinariamente accresciuto, in maniera da dimostrare chiaramente che con ciò si intendeva di rendere più difficile la successiva rottura dei patti giurati con la sponsione. 3o Finalmente per gli effetti giuridici. L'effetto del foedus infatti è senz'altro quello di generare una pia et aeterna par. In quanto alla sponsio, ciò che da Livio possiamo dedurre è l'applicazione esatta di quei principî a cui siamo già giunti più sopra deducendo soltanto dalla teoria generale. Il trattato d'alleanza conchiuso da un capitano coi rappresentanti d'un altro popolo a nome del popolo romano non ha in se stesso efficacia d'obbligare il popolo romano, perchè, come abbiam dimostrato, e come Livio XXX, 43 da solo basterebbe a provare, manca nel capitano l'autorità di compiere quell'atto: « sponsione . . . . . qua ... iniussu populi facta est, non tenetur populus Romanus » ('). « Consules negarunt iniussu populi foedus fieri posse » (*). << Iniussu populi nego quicquam sanciri posse quod populum teneat » (3). « Populus Romanus iniussu suo nullo pacto potest religione obligari » ("). « ... de re publica quicquam se cum hoste agere iniussu senatus posse» (). « Senatus, uti par fuerat, decernit suo atque populi iniussu nullum potuisse foedus fieri » ("). Non può essere obbligato il popolo, perchè nihil spopondit e civem neminem pro se spondere iussit; talchè il valore giuridico d'una simile obbligazione non può essere che personale. Sia che si vogliano considerare gli sponsores nella posizione giuridica di promissori del fatto altrui, o, più propriamente, come promissori del fatto proprio, la loro promessa è sempre promessa privata, foedus ictum iri ("), la quale a convenzione di Stato può essere elevata in due modi, o con la consacrazione feziale, e in

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(') Vedi specialmente Festo, s. v. spondere e consponsor. Già da molti (Puchta, Huschke, Böcking, Iehring) venne riconosciuto, ma per lo più soltanto fuggevolmente enunziato, il fondamento religioso della antichissima forma della sponsio. Mommsen lo negò nelle Röm. Forsch. I, 337, ma lo riconobbe nel Röm. Straatsr. I, p. 239, nota 2. Più lungamente e completamente degli altri scrisse su ciò il Danz, dimostrando precisamente come il fondamento della primitiva sponsio consistesse nel giuramento promissorio. V. op. c. p. 105-126.

(*) Almeno a ciò deve condurre una retta interpretazione delle parole di Livio. Vedi specialmente Danz, op. c. p. 121 segg.

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tal caso la sponsione si rappresenta come il contenuto, la materia del foedus, alla quale i feziali non hanno recato che la pubblica approvazione del popolo; e così generalmente soleva accadere; ovvero mediante ratificazione la quale alla sua volta può essere espressa o tacita ('); ciò che si avvera ogniqualvolta il trattato conchiuso non si manifesti dannoso alla comunità romana.

Questa la teoria, alla quale le parole di Livio sono traccia sicura, e che a me sembra così evidente, da recar meraviglia che taluno abbia potuto negarla, e fra questi principalmente il Rubino; il quale invece sì nel foedus che nella sponsio riconosce due obbligazioni egualmente obbligatorie per tutto lo Stato, egualmente contratte fide publica dai legittimi rappresentanti, e differenti soltanto nella forma, che sarebbe religiosa nell' una (foedus), giuridica nell'altra (sponsio). L'opposizione di queste parole con le parole di Livio è tale, che tutta l'acutezza e la dottrina di Rubino non vale a scemare d'un punto la palese falsità di tale opinione. Citare argomenti contro le parole di Livio non vale. Se qualche opposizione potesse dimostrarsi, bisognerebbe cercare piuttosto una via di conciliazione, giacchè qui Livio espone ex professo la teoria, nè può sorgere dubbio sulla verità od esattezza delle sue parole. Del resto la maggior parte delle opposizioni di Rubino sono dirette contro la verosimiglianza storica del racconto liviano: ed in questo certamente egli ragiona a meraviglia; ma, come ho detto sin dal principio, ciò non ha nulla a che fare con l'argomento nostro. Nè Rubino è solo a non accettare questa teoria di Livio. Tanto il foedus che la sponsio, dice Nissen (3), fondandosi sul medesimo passo di Cicerone, obbligano sì l'uno che l'altra lo Stato; ma è obbligo meno forte in un caso che nell'altro; quasi che fosse possibile in tali casi una via di mezzo; che è lo stesso come asserire che dinanzi al diritto vi possano essere due maniere egualmente obbligatorie, ma una più obbligatoria dell'altra, d'esser debitori di cento.

Dove veramente si ritrova la difficoltà lo vede Mommsen () con la profondità e lucidezza che gli è naturale. Livio, pur facendo quella distinzione così netta e chiara fra foedus e sponsio, dice che Claudio Quadrigario, ed in generale il maggior numero degli annalisti, considerano l'atto compiuto, come un foedus; d'altronde Cicerone, De inv. II, 30, 91, dice pure che in eo foedere, quod factum est quondam cum Samnitibus, quidam adulescens nobilis porcam sustinuit iussu imperatoris. Eppur tutto conduce a negare che i feziali abbiano partecipato a tali cerimonie, imperocchè spediti a tale scopo non furono certamente, seguita il Mommsen, e neppure mandati insieme (*), giacchè secondo ogni apparenza non era tale il costume

(') Così certamente deve intendersi Cicerone, Pro Balbo, XII, 29. (') Op. c. p. 47.

(1) Röm. Slaalsr. I, p. 239, nota 1.

(') Ciò Rubino vorrebbe dedurre da Appiano, Samn. 4, il quale parrebbe affermar questo, quando fa che Ponzio chiegga se vi sian feziali nel campo. Siccome i feziali ricevevano in Roma l'incarico e i sacri vasa del loro ministero, accettando la supposizione di Rubino bisognerebbe dedurne che regolarmente i capitani ricevevano, prima di partire per la guerra, piena autorità di stringere foedera a loro piacimento. Forse piuttosto quelle parole sono messe a bella posta in bocca di Ponzio per dimostrare sempre più in lui la scienza dell'irregolarità dell'atto che esso compiva, e quindi della mancanza di ogni valore giuridico.

romano. Ciò confermerebbe anche una moneta nella quale Mommsen (') vorrebbe che fosse raffigurata appunto la pace caudina, e nella quale il rito è compiuto da due guerrieri e non già da feziali.

Da tutto ciò il Mommsen deduce la probabilità che la dottrina romana distinguesse non già due, ma tre forme di convenzioni, cioè il foedus feziale, il foedus del capitano, e la sponsio del capitano (). Ma che efficacia avrebbe avuto questo foedus del capitano? Certamente, a quanto sembrerebbe, una efficacia obbligatoria; e ciò è in opposizione con quanto ho esposto finora, egualmente come l'opinione di Rubino e quelle poche parole di Nissen (3). A me sembra piuttosto che veramente neppure alle parole di Cicerone si possa dare valore assoluto di verità; mentre d'altronde quella tale moneta, pur prescindendo che da essa nessun serio argomento si potrebbe trarre, ottimamente può essere invece riferita, come lo stesso Mommsen concede, alla convenzione conclusa dagli stessi consoli T. Veturio Calvino e Sp. Postumio Albino, nell'anno 430, coi Campani. Ma pur ammettendo la verità di tutto ciò, mi sembrerebbe forse più probabile di supporre, non già che Roma riconoscesse anche quella forma di pubblica convenzione che Mommsen indica col nome di foedus del capitano, ma che piuttosto la stranezza del caso si sia manifestata per il fatto di un trattato d'alleanza stipulato dal capitano con l'adempimento di tutte le cerimonie feziali, ma senza l'intervento dei feziali ('). Ma un tale atto, che Roma non riconosceva, e non poteva riconoscere, venne dichiarato vano, e la pace cancellata.

'Un' osservazione del resto che avrebbe dovuto farsi, è che la parola foedus non viene adoperata sempre soltanto nel suo rigoroso significato tecnico, ma bene spesso anche, nel linguaggio comune, come pubblica convenzione d'ogni sorta; è questo l'unico mezzo per evitare difficoltà inestricabili, quando frequentemente vediamo indicate con il nome di foedera convenzioni che poi vennero anch'esse cancellate, come sponsiones. Così pure si può spiegare come Livio, fra gli altri, chiami ripetutamente foedus quella convenzione che prima aveva indicato come una tregua (indutiae) (3).

Ho detto che l'avvenimento di Caudio porse occasione per la prima volta di dare forma precisa e pratica a quella teoria che abbiamo esposta più sopra. E di

(') Gesch. d. röm. Münzwesen, p. 555, n. 169.

(*) A ciò io credo che egli voglia riferire le parole che si leggono nel testo, p. 239, che « certamente poteva il capitano anche senza i feziali compiere l'atto della confermazione nella stessa forma; altrimenti non saprei comprenderne il valore.

(3) Giova pure osservare che la teoria romana offriva tanto al capitano romano quanto all'altro popolo ottimi mezzi per provvedere ad ogni eventualità, sia pattuendo una tregua finchè fossero mandati a Roma i legati, sia conchiudendo il trattato sotto la riserva « ἐὰν καὶ τῷ δήμῳ τῶν Ῥωμαίων ovvdoxy » (Polibio, 1, 62), come fu fatto ad es. nella pace conclusa da Lutazio coi Cartaginesi alla fine della prima guerra punica. Che se invece volevasi concedere veramente al capitano l'autorità di stringere il foedus a suo piacimento, sappiamo già quale procedura si solesse adottare. V. sopra p. 80, segg.

(') Ciò sembrerebbe confermato dalle parole che Appiano, Samn. 4, fa pronunziare a Ponzio. Cf. pag. precedente, nota 4.

(*) IX, 1, 3-5 e VIII, 39, 12. Egualmente in Eutropio, IV, 17 evidentissimamente è adoperato foedus invece di sponsio. E così in molti altri luoghi.

questa teoria, che da allora in poi rimase fissa nel diritto pubblico romano, troviamo nella storia di Roma applicazioni frequenti. Fra queste, famosa quasi quanto quella Caudina, la sponsione Numantina, conchiusa nel 617 U. c. da C. Ostilio Mancino, uomo non cattivo, ma di tutti i duci romani il più sfortunato (come lo chiama Plutarco), il quale, a quanto narrano i molti scrittori che ci hanno conservato notizia del fatto, colto dalle insidie degli audaci Celtiberi, per salvare i suoi da sterminio non evitabile conchiuse a turpi condizioni una pace, della quale insieme a lui si fecero sponsori Tiberio Gracco e tutti i maggiori uffiziali. Mancino, come già Postumio, sostenne la nullità della pace, e la propria deditio; e la pace infatti anche questa volta fu annullata e la sua deditio decisa ('). Di altre tre sponsioni annullate abbiamo ricordo: la prima è la così detta sponsione Corsica, contratta nel 568 di Roma da M. Claudio Clinea (?) (Mommsen) (*), che il console Licinio aveva mandato in sua vece con una parte dell'esercito in Corsica (3). Altre due sponsioni furono cancellate nel 643 e nel 644 U. c., tutte due contratte con Giugurta, la prima dal console L. Calpurnio Bestia che turpemente si vendette al Numida (*), la seconda da A. Postumio Albino, che lasciato dal fratello, il console Spurio, al comando dell'esercito romano in Africa, fu tratto da Giugurta in insidie, vinto, e fatto passare con tutti i suoi sotto il giogo, dopo aver conclusa una pace infame. Recata la cosa in Senato dal console Spurio Postumio, << Senatus, uti par fuerat, decernit suo atque populi iniussu nullum potuisse foedus fieri » (").

Ciò che in seguito a tutte queste sponsioni sia seguìto; come Roma cioè si reputasse in tali casi sciolta da ogni obbligazione verso il nemico con la consegna fatta a lui per mezzo dei feziali dei promettitori della sponsio; quale fosse più profondamente il concetto di questa deditio, e perchè con essa Roma si credesse anche sciolta da ogni vincolo religioso, lo ricercheremo nel seguente capitolo.

(') Pochi anni prima, nel 613, con gli stessi Numantini aveva stretto una pace similmente infame il console Q. Pompeo, per sottrarsi al mal partito in cui l'avevan messo i nemici arditissimi, che da assaliti fatti assalitori, erano riusciti persino a penetrare negli accampamenti romani. Ma poi di quella pace fatto vergognoso, il console negò di aver stretto quei patti, che vennero ad ogni modo ancor essi annullati dal Senato. V. Appiano, Hisp. 79; Cic., De fin. II, 17, 54.

(*) Glycia invece Rubino, p. 287, nota.

() Val. Massimo, VI, 33; Dione, Fr. 45; Zonara, VIII, 18.

(') Di questa convenzione non è detto espressamente, almeno a quanto io so, che fosse annullata. Ma non fu osservata di fatto, e dobbiam credere che veramente l'annullamento sia avvenuto. Anche Mommsen, Röm. Staatsr. I, 244, in nota, la pone tra le convenzioni annullate.

(5) Sallustio, Giugurta, 39. A un'altra sponsione annullata sembrerebbero fare allusione le parole del « ex Carthaginiensibus unus » in Livio, XXI, 18, 10. Ma invece, come è ben noto, quella pace fu conclusa da Q. Lutazio sotto la riserva « ἐὰν καὶ τῷ δήμῳ τῶν Ῥωμαίων συνδοκῇ » (Polibio, I, 62). V. pure Polibio, III, 29; Livio, XXI, 18, 19; Cf. Rubino, p. 286, n. 1; Mommsen, R. Staatsr., I, p. 242, n. 1, e R. G., 16, p. 532-533.

CAPITOLO QUINTO

Quale parte fosse riservata ai feziali nei reati di diritto delle genti

§ 1 Dei recuperatores e della loro competenza giudiziaria.

Se i recuperatores fossero una cosa sola con i feziali.

Accanto all'ufficio di dichiarare la guerra e di consacrare la pace, i feziali ne ebbero pure un altro, che con il loro carattere e con quelle due più importanti funzioni è in connessione e dipendenza diretta, e che generalmente si rappresenta in relazione con i reati commessi contro il diritto delle genti.

Plutarco chiama i feziali custodi della pace ('); e noi abbiamo detto come lo fossero in verità nel letterale significato della parola, in quanto che ad essi spettava, dopo conchiusa un'alleanza, di curare e vegliare, affinchè nulla venisse commesso contro i patti giurati.

Ma non a curare il rispetto dei trattati soltanto si restringeva questo uffizio dei feziali, ma allargavasi a maggior numero di violazioni; e quali fossero queste violazioni nelle quali l'attività dei feziali si manifestava, con quale carattere e con quale estensione essa si manifestasse, e in quali fatti che la storia ci rammenti essa principalmente si sia affermata, è quello appunto che noi dobbiamo ricercare nel capitolo presente. Ricerca non lieve in verità, e per l'abbandono completo in cui l'argomento fu lasciato dagli scrittori che mi precedettero nel parlare dell'istituto feziale, non escluso il diligentissimo Conradi, e per la povertà dei fonti, e per le false opinioni che divennero comuni, e per il contatto frequente in cui vengono i feziali a questo riguardo specialmente con l'istituto recuperatorio, di cui ci sono rimaste così meschine e malsicure notizie, che, come il Walter dice, tutti i tentativi fatti per determinarne la costituzione e l'origine, per quanto diligenti ed acuti, non condussero, nè potranno forse condurre mai, a resultati sicuri.

Eppure determinare, come io possa, i punti di contatto (se esistono) e di distinzione fra l'istituto feziale e il recuperatorio è una delle questioni più importanti, ch' io devo necessariamente trattare in questo capitolo. A rendermi meno aspra la via, e per risolvere sin dal principio implicitamente talune questioni, che altrimenti sotto altra forma più tardi ricomparirebbero, credo opportuno di far precedere brevissime parole sopra questi recuperatori, e particolarmente su ciò che si riferiscce alla loro competenza giudiziaria (').

(') Numa, 12; Cammillo, 18.

(*) La letteratura sull'argomento è abbastanza vasta. Io ricordo soltanto quelli scrittori che consultai: E. Huschke, In Analecta liler. cur. Imm. G. Huschkio, Lipsiae 1826, Excursus II, De Recuperatoribus, p. 208-253, specialmente, per noi, p. 215; J. A. Collmann, De Romanorum iudicio recuperatorio, Berolini 1835, specialmente p. 28; C. Sell, Die Recuperatio der Römer, Braunschweig 1837, specialm. p. 138-150; e su questo la importante recensione critica di E. Huschke nei Richter's Jahrb., I,

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