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pratica un raddolcimento per certe persone, alle quali veniva accordata una posizione. pubblica speciale privilegiata (legati, amici, hospites); ricevevano dall' altra parte una modificazione ben più importante con le alleanze che Roma stringeva con gli altri popoli, fossero societates o foedera, che implicavano sempre un accordo, che a quel principio fondamentale toglieva l'efficacia, di reciproca e mutua tutela giuridica dei cittadini, fosse questa conceduta da Roma sulla base del connubium, commercium e recuperatio, o su quella dell'ius gentium, o si trattasse invece semplicemente della concessione di un diritto di fatto, accordato da Roma ai suoi dediticii. L'errore più grande di molti che scrissero sulle relazioni esteriori di Roma, fu quello di non far parte nessuna allo svolgimento storico, quasi che la storia di Roma stesse chiusa nel periodo dei re, dimenticando che la grande importanza che Roma mantiene dinanzi alla scienza del diritto fu appunto quella di avere condotto gli istituti giuridici dalla loro forma rudimentale, in cui l'antichità li conosceva, ad una forma più perfetta e più libera. E se lo svolgimento non si manifestò così compiuto nel diritto pubblico come nel diritto privato, ne fu causa questa, che il diritto pubblico richiedendo maggiore pieghevolezza di applicazione, non poteva essere rinchiuso nelle forme precise del diritto civile, nè costituì mai in Roma un complesso di principî, sopra i quali la scienza dei giureconsulti e la coscienza giuridica del popolo potesse esercitare la sua profittevole elaborazione.

Ma tutto ciò non basta ancora a procurarci del diritto internazionale di Roma un giusto concetto. Che Roma possedesse un raggruppamento di regole per la maniera delle sue relazioni con i popoli stranieri, non può dubitarsi. Basterebbero, a dimostrarlo, le espressioni di ius belli et pacis (') e di ius gentium, nel significato di diritto pubblico esterno ('), che con sufficiente frequenza si incontrano negli scritti latini. D'altronde l'esistenza del diritto feziale, degli istituti della repetitio rerum e della indictio belli, gli arbitrati, l'usanza di stringere trattati, di mandare legati, del cambio dei prigionieri, degli ostaggi, quella di decider talvolta le controversie fra Stati con una lotta di singoli, e così innanzi, l'esistenza di tutto ciò basta alla dimostrazione che un tal complesso di regole era riconosciuto da Roma. Ma ciò ancora assai poco significa; e quello invece che occorre di rintracciare per il nostro scopo, è d'onde tutte queste procedure e questi principî di diritto internazionale ritrovassero, secondo la coscienza romana, il lor fondamento e la loro giustificazione.

Il moderno diritto delle genti, a chi complessivamente lo indaghi, apparisce come un complesso di principî, che possiedono una propria esistenza indipendente, che si rendono liberi sempre più dalla interna organizzazione degli Stati, di cui regolano i rapporti, e che dimostrano, con il loro progressivo movimento, di tendere ad una legge massima di giustizia internazionale, che tutte le nazioni sentono, arrivate ad uno stadio sufficiente di civiltà, benchè ciò non valga ad impedire le

(') Gaio, III, 94: Livio, II, 12, 14; V, 27, 6; IX, 1, 5; 3, 11; XXI, 13, 8; XXIV, 33, 3; XXV, 40, 2; XXVI, 21, 12; 31, 9; XXXI, 30, 2; XXXII, 34, 13; XXXIX, 4, 12; 29, 2; 36, 13; Cicerone, De legg. 2, 14, De off. 3, 11 e 29, De leg. agr. II, 16, 40, Pro Balbo 19, 45; 20, 47, In Verre II, I, 21, 57, Pro rege Deiol. 9, 25; Cesare, De b. g. 741; Floro, III, 5, 13; 19, 6; 23, 3; Giustino, 31, 1. (*) Di ciò dirò fra poco più lungamente.

violazioni contro quella legge medesima, della quale però moltissimi principî già furono dalle nazioni con riconoscimento positivo resi reciprocamente obbligatorii; ed altri, benchè privi di positiva sanzione, hanno ormai in se medesimi tanta forza da imporsi agli Stati con la stessa efficacia.

Or questa maniera di concepire e applicare il diritto internazionale è frutto d'uno stato ben progredito di civiltà, e presuppone, nei subietti del diritto medesimo, giunto a completo rigoglio il sentimento e la coscienza giuridica, voglio dire la coscienza per la quale l'agente presta obbedienza alle regole di diritto per la convinzione che la interna necessità di quelle speciali relazioni della vita esiga una condotta esterna ossequente a quelle prescrizioni (opinio necessitatis). Dall'altra parte fa pur d'uopo che questi principî di diritto conservino il loro carattere internazionale, e che si rappresentino quindi come un complesso di regole indipendenti, che non hanno necessità di ritrovare altrove che in se medesime il loro fondamento. Or è certo che gli usi romani, che possiam dire di diritto internazionale, non si elevano regolarmente, comè già ho accennato, a questa perfezione di diritto formale; essi vengono esercitati o semplicemente perchè così piace, o perchè così si dimostra vantaggioso, o perchè Dio lo comanda, o per cagione d' un' altra forza esterna qualsia, non per effetto di coscienza giuridica; cosicchè possiam ritrovare una relazione politica, religiosa, morale, non una relazione giuridica nel rigoroso significato. Talvolta invece la relazione giuridica si ritrova, ma neppure allora per lo più (più innanzi cercheremo se e quali principi facessero eccezione) possiamo ritrovare costituita la relazione giuridica internazionale; imperocchè allora la coscienza giuridica è bensì il fondamento di quel rapporto, ma non è ancora la coscienza giuridica internazionale, che trae il motivo della azione direttamente da un concetto internazionale, subordinato alla civitas gentium, compresa come comunità degli Stati, bensì piuttosto un sentimento giuridico nazionale, di fronte agli Stati stranieri.

In verità comprese taluno degli scrittori, che di questo argomento si occuparono, come qui veramente dovesse ridursi il nodo della controversia. Talchè avendo scritto il Wachsmuth una dissertazione nella quale voleva dimostrare nei Greci la conoscenza di un diritto internazionale ('), l'anno dopo gli sorse contro Heffter, il quale in una breve prolusione accademica de antiquo iure gentium (Bonn 1823) volle combattere quella opinione di Wachsmuth, insistendo principalmente su questo, che non bisogna attribuire al diritto ciò che ritrova in altre cause il suo fondamento; e questo fu in Grecia, a suo dire, dove ciò che ne appare sotto forma di diritto non fu invece che una conseguenza di principî religiosi, o di semplici costumanze (3). Ritenne il prof. Voigt che la controversia in tale maniera fosse posta con poca chiarezza. Che le relazioni internazionali, esso dice (3), vengano messe dai popoli antichi sotto il patrocinio degli dei, ciò non decide nè in favore nè contro

(') « Ius gentium quale obtinuerit ap. Graecos ante bellorum cum Persis gestorum initium ». Kiliae 1822. Ma mi sembrò cosa di poco valore.

(*) Contro Wachsmuth anche Osenbrüggen o. c. p. 4 segg.

(3) O. c. p. 24, nota 6.

l'esistenza di un diritto internazionale. La vera questione sta nello stabilire qual posizione ricevessero gli dei come tutelatori di quelle norme. Se si rappresentano come semplici giudici della violazione accaduta, il vero soggetto giuridico rimane lo Stato contro il quale direttamente è rivolta la violazione, e quelle norme costituiscono veramente nella loro totalità un vero ius gentium. Che se invece la nazione offesa viene considerata soltanto come l'oggetto nel quale e mediante il quale avviene la violazione, che per altro colpisce direttamente gli dei come soggetto giuridico, come ad es. l'ingiuria fatta allo schiavo colpisce il padrone, allora veramente non si può parlare di un vero ius gentium, e quelle norme si rappresentano piuttosto come parte dell'ius sacrum civile del singolo Stato; ed il Voigt crede che fosse il primo principio quello che regolava i rapporti internazionali della Grecia. La questione, come ognun vede, è ridotta a tanta sottigliezza di concetti, da non lasciar luogo che a risoluzioni personali e soggettive. Certo è, ripeto, che quello che a me sembra di poter asserire con sicurezza di Roma è che essa giunse bensì a porre a se stessa un certo numero di regole internazionali, e a concepirle come un complesso che essa dinotava generalmente col nome di ius fetiale o con quello di ius belli et pacis ('); ma a quel complesso non seppe nè potè dare unità organica, nè mai lo assoggettò a ordinamento ed elaborazione scientifica; e neppure regolarmente concepì quelle regole come regole veramente giuridiche e indipendenti, ma piuttosto come in un legame di dipendenza e derivazione di concetti estranei, massimamente l'idea religiosa e il sistema politico; e quale di questa dipendenza fosse il carattere, ce lo mostrerà chiaramente il diritto feziale, che della fusione di questi concetti reca in se stesso l'esempio più puro.

Fu così che il diritto pubblico, in generale, non costituendo in Roma, come dicevo, che un complesso oggettivo di regole, ma nessun sistema giuridico, nessun organismo, neppure un raggruppamento ordinato e indipendente, rimase e doveva rimanere al di fuori della influenza dei giureconsulti e del popolo, nè per tal modo egli fu pronto, come il diritto privato invece lo fu, a ricevere le trasformazioni che anche sopra di esso avrebbero potuto operare, mutandone il fondamento, i mutati concetti religiosi, giuridici e filosofici della trasformati civiltà romana. Egualmente infatti come la considerazione dell'uomo capace di diritto solo in quanto civis aveva condotto Roma soltanto alla concezione d'una ristretta civitas civium, che è la base del primo diritto pubblico esterno di Roma, così il riconoscimento della capacità giuridica in ogni uomo libero fuori di ogni criterio di nazionalità, che segna segna in questa via l'ultimo progresso della speculazione romana, avrebbe potuto e dovuto guidarla alla concezione d' una societas di tutti gli uomini liberi, che avrebbe costituita un'ottima base per un diritto internazionale che si avvicinasse ai moderni concetti. Ma i giureconsulti, come dicevo, non erano pronti a compiere così feconda applicazione. Soltanto la filosofia vi si poteva innalzare; e Cicerone infatti si elevò a nobilissima altezza, tracciando i suoi concetti della umana consociazione, di cui egli vede la forma più alta nella societas hominum, che rappresenta la più ampia sfera della vita sociale, a cui gli uomini giungono a traverso tre gradi

(') Dell'espressione ius gentium, che qui appositamente non nomino, dirò or ora più chiaramente.

di associazioni minori (la societas propinquorum, la societas civium e la societas gentis) ('); e di questa maggiore societas hominum è legame la ratio che gli uomini hanno con Dio comune; ne costituiscono la materia tutte le cose di qualunque sorta, che la natura ha determinato ad uso comune; ma essa però massimamente si rappresenta come una societas iuris (De legg. I, 13, 35), meglio ancora come una societas naturalis (De legg. I, 5, 16; 7, 23; De off. I, 16; III, 6) i cui socii sono gli uomini legati con il vincolo del diritto comune, ed obbligati all' adempimento dei doveri che ne risultano (De off. III, 6, 28); una universale societas hominum, che per territorio ha la civitas magna (De legg. I, 7, 23; De N. D. II, 62; De republ. I, 13; De fin. 19, 64), e per diritto l'ius naturale, il quale perciò viene indicato come un ius humanae societatis (De legg. I, 7, 23; 10, 28; 15, 42; De republ. III, 22; De off. I, 7, 21; cf. De fin. V, 23) (*).

Ma la teoria di Cicerone non scese, come ho detto, dalla sfera filosofica in cui egli la concepì, alle pratiche applicazioni. Occorreva che il Cristianesimo, andando ancor più innanzi, e, col negare la schiavitù, ponendo l'uomo là dove Cicerone non poteva porre che l'uomo libero, introducesse nella coscienza di tutti quelle idee per poter dire veramente che esistono le condizioni per la costruzione di un diritto internazionale come viene oggi pensato. Non è a me che spetta di dimostrare in quale misura questa speculazione filosofica romana, così fecondata poi dal Cristianesimo, abbia esercitato influenza sopra i concetti moderni di filosofia e di diritto. Ma, indipendentemente anche da ciò, in altri due concetti mi sembra di poter trovare l'opera di Roma alla formazione del moderno concetto del diritto internazionale. Ed anzi tutto Roma, particolarmente con la istituzione del diritto feziale, con il quale imponeva a se stessa rigorose procedure per le sue guerre e per le sue paci, veniva a proclamare un principio, intorno al quale si raccolgono tutti i progressi del diritto dei popoli, voglio dire la obbligatoria e regolata intervenzione del diritto dove sino allora dominava sola la forza. E per quanto Roma fosse consigliata a ciò fare ben più per arte di politica che per omaggio alla idea del giusto; benchè si tratti, come vedremo, d'un diritto che rimaneva contento alle esterne formalità, ciò non ostante della dichiarazione, sia pur formale, di quel principio, deve esser fatto merito a Roma. E in altro modo ancora Roma operò inconsciamente allo scopo di cui diciamo. Giacchè l'attuale maniera di relazioni fra gli Stati è la conseguenza del ravvicinamento dei popoli, della comunanza delle idee giuridiche, proceduta dalla reciproca conoscenza. Roma con la sua conquista, spezzando le barriere che separavano i popoli e unendoli coattivamente nella unità maestosa del suo impero,

(') Cicerone, De off. I, 17; cf. De amic. V, 19, De fin. V, 23, 65; v. pure De off. I, 17. 53-55; 16, 53; 17, 57-58; De legg. I, 7, 23.

(*) Cf. Bring, De jure naturali, gentium et civili ex mente Ciceronis, Lundae 1820, di poco valore; Schaaf-Gratama, Diss. qua exponuntur M. T. Ciceronis philos. de jure civil. et imper. principia, Groning. 1827; Desjardins, Les devoirs (essai sur la morale de Ciceron) Paris 1865, al cap. VII; Denis, Hist. des théories et des idées morales dans l'antiq. Paris 1856, t. II, c. 1; ma specialmente si veda Voigt o. c. vol. I, (die Lehre vom jus naturale aequum et bonum und jus gentium der Römer) Leipzig 1856, §§ 35-51. Sul cosmopolitismo filosofico romano dopo la conquista v. pure Laurent, oltre che nell'opera citata più volte, anche nel Droit civil intern. I, n. 114-119.

dette modo a quei popoli di conoscersi, al commercio, alle arti, a tutte le forze vive della civiltà insomma, di sorgere e sviluppare all'ombra della pace romana. Certamente fu unione forzata e disordinata, che assopiva o frangeva le nazionalità, vincendo le resistenze dei popoli. Rotto il vincolo, col cadere della stanca potenza romana, dovea pure spezzarsi quella unità artifiziale. Ma l'opera di Roma non fu perduta, giacchè ormai le nazioni si conoscevano, avevano commerci e relazioni fra loro, ed era vinto per tal modo l'impedimento più forte ad una vita giuridica comune, che si fondi non più sulla costrizione, ma sulla libera volontà degli Stati. Più volte già adoprai e ancor di più dovrò adoperare, nel corso di queste ricerche, la espressione romana di ius gentium. E troppo noto come ius gentium nel suo più comune significato stia ad indicare quel diritto, che regolava le relazioni dei privati, in opposizione a ius civile Romanorum. L'espressione ius gentium però si ritrova pure abbastanza frequentemente adoperata nei fonti per indicare non più rapporti di diritto privato, ma di diritto pubblico internazionale. Or come mai a una espressione medesima viene attribuito un duplice significato? E quale fu il primo, e come avvenne dall'uno all'altro il passaggio? E in quale rapporto sta la espressione di ius gentium, in questo suo significato meno comune, con le espressioni di ius fetiale e di ius belli et pacis? In verità la maggior parte degli scrittori di cose romane neppure accennano alle difficoltà; e di quei pochi che fuggevolmente se ne occuparono, chi fece perfino delle due cose tutt'una; chi si restrinse ad affermare che l'ius gentium fu fonte comune sì del diritto pubblico che del privato, senza lasciar comprendere che si volesse significare con ciò; chi questo negò, senza nulla affermare; chi invece distinse e suddistinse a capriccio, senza fondamento, accennando, fra le diverse significazioni dell'ius gentium, anche quella d'un vero ius inter gentes, tutti d'accordo soltanto nel dimostrare una mancanza assoluta di concetti precisi in proposito ('). Il solo che abbia trattato seriamente e ordinatamente la questione, benchè ai suoi resultati io non mi associi, fu il prof. Voigt nella sua opera

(') Ricordo fra gli altri: Freiesleben, Beiträge zur röm. Rechtsgesch. Lpz. 1826, specialmente p. 88. segg. e p. 136 segg; Schweppe, Röm. Rechtsgesch. §§ 23, 642; Burchardi, Grundzüge des Rechtssystems der R. p. 5 segg; Birnbaum, in Excursus ad Creuzeri Antiquit. Rom. p. 41-44 (2a ed.) e nel Neues Archiv für Criminalr. t. XI, n. 5, p. 101 segg., specialmente p. 118, v. pure p. 295 segg.; Osenbrüggen, o. c. p. 9. segg.; Dirksen, Ueber die Eigenthümlichkeit des jus gentium nach den Vorstellungen der R., pubblicato per la prima volta nel Rhein. Museum für Jurisprudenz I (1827) p. 1-50, e quindi nei Verm. Schriften (Berlin 1841) I, p. 200 segg., specialmente p. 215-219; e del Dirksen vedi pure Die röm. rechll. Quellen des Magister Dositheus, nelle Abhandl. der k. Akad. der Wissenschaften zu Berlin, anno 1858, specialmente p. 43-44; Pütter, o. c. p. 40-41; Müller-Jochmus, o. c. p. 134 segg. Recentemente il Brougham Leech in un articolo pubblicato nella Contemporary Review (fasc. del febbraio 1883), e che ha per titolo Ancient international law, si occupa quasi esclusivamente della terminologia greca e romana per indicare quel complesso di regole che costituivano il diritto internazionale di quei popoli. Secondo questo scrittore ius gentium durante la repubblica e nei primi tempi dell'impero ebbe veramente la significazione di diritto internazionale; nei tempi posteriori perdette quella significazione, sol perchè il diritto internazionale aveva cessato d'esistere in causa della dominazione romana, che s'era estesa su tutto il mondo conosciuto. Ma in quale relazione stiano fra loro i due diversi significati di ius gentium, in quali relazioni stia l'ius gentium nel significato di diritto pubblico, con l'ius fetiale e con l'ius belli ac pacis, di tali questioni, che son le più ardue, non vien fatto minimamente parola. H. Maine invece, citato e combattuto dal Brougham Leech, I. c.

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