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§ 2. Costituzione interna del collegio dei feziali.

Come i pontefici, i VIIviri epulones, i XVviri sacris faciundis, gli auguri, i luperci, i fratelli Arvali e presso che tutti i sacerdoti romani ('), così pure i feziali costituivano in Roma un collegio; di che non è a comprendere come taluno (2) abbia potuto dubitare (3). Se fin dal principio o solo più tardi fosse stabilita l'organizzazione collegiale, ci sembra inutile d'indagare. Quanto al numero completo dei membri che costituivano il collegio, si può affermare con sufficiente sicurezza che fosse di 20, deducendolo dalla maniera come Varrone si esprime (*) e dal fatto che nessun altro collegio sacerdotale si componeva d'un numero maggiore di partecipanti; e sembra pure probabile, traendolo egualmente dalla analogia con gli altri collegi (*), che tale numero, minore da principio, sol più tardi fosse elevato a quella altezza (").

I feziali che, come Dionisio (II, 72) ne dice, erano eletti a vita, erano pur tenuti, similmente del resto a tutti gli altri sacerdoti romani, in grande onoranza ed in massima dignità; che anzi soltanto venivano tratti dalle più nobili famiglie (ex twv άgioτwv oixwv); ed anche sotto l'impero, quando pure l'istituzione non sussisteva che per il nome, troveremo non pertanto quel nome concesso soltanto a uomini quasi sempre consolari o pretorî, sempre di elevatissima dignità. Di più ancora è sicuro che nei primi tempi, quando la religione costituiva un esclusivo privilegio del patriziato, feziali furono soltanto i patrizî; e son patrizî infatti i due feziali di cui abbiam memoria nei primi tempi di Roma, cioè M. Valerio e Sp. Fusio, non Fufio (7). E benchè di ciò Mommsen mostrasse di dubitare una volta ("), si corresse poi egli medesimo (), affermando che anche il collegio dei feziali fu senza dubbio, nell'origine, patrizio; ma verosimilmente fu poi, insieme cogli altri, tosto e incondizionatamente aperto anche ai plebei, quando questi conquistarono il diritto di cittadinanza ;

(1) Non potevano naturalmente costituire collegio i flamini, ad es., che non avevano ufficio comune, ma erano ciascheduno sacerdote di un singolo dio.

(*) Jensius 1. c. (v. Letteratura) cap. VI; v. pure Stuss o. c. (v. Letteratura) p. 47.
() < Collegium fetialium » Livio, XXXVI, 37; « oíornua » Dionisio, II, 72.

(*) De vila p. R. 1. III, in Nonio cap. XII.

(5) Cinque furono dapprima i pontefici; 6 le vestali e 7 più tardi; prima 3 poi 7 e poi 10 i viri epulones; prima 3, poi 10, poi 15 i viri s. f.; prima 3, poi 6, poi 9, poi 15 e finalmente 16 gli auguri; 12 dapprima i salii palatini, gli agonali, i fratelli Arvali, ecc.

(*) Contro, Niebuhr I, 425 (trad. fr.); egualmente Lange, I, p. 323, 328; cf. pure Mommsen, R. G. I, 82-83; Vorqualdsen, nel Rhein. Museum f. Phil. vol. 33 (1878) p. 549 i. f. e p. 550. Quanto al numero di 20, lo Schwegler (I, 616 n. 1) fa osservare come la maggior parte delle istituzioni dell'antichissima Roma fossero regolate secondo speciali relazioni numeriche; e i numeri fondamentali sarebbero stati il 10 e il 3. Egualmente il Pantaleoni (o. c. p. 164), il quale osserva di più che il patriziato primitivo basò le proprie istituzioni sopra il sistema decimale, mentre i plebei avrebbero costumato di contare per 12.

(') Sbaglia Conradi, p. 227, allorchè dice plebea la gente Fusia, che fu patrizia (Cf. Marquardt, o. c. III, p. 401, n. 1; v. pure Gronovio a Livio, I, 24, 6, vol. 1o, p. 196 dell'ed. Drakenborch. I Fufii son veramente gente nuova e plebea di cui si ha notizia solo molti secoli più tardi.

(*) Nel Rhein. Museum f. Phil. vol. XVI, 1861, Die röm. Patriciengeschlechter, p. 335.
() Römische Forschungen I, p. 93.

dal che discorda il Lange, il quale pensa che il collegio feziale sia rimasto sempre e soltanto patrizio ('). Senza dilungarci su ciò, possiam dire che, sebbene nessuna prova positiva ne resti, l'opinione più verosimile sembra questa: che il collegio fosse patrizio in origine; che poi, aperti ai plebei con la legge Olgunia i due principali collegi sacerdotali, a poco a poco, senza che si possa nè importi punto di fissarne il momento, i plebei, quasi inavvedutamente e naturalmente, fossero ammessi a formar parte anche del collegio feziale.

Appena ricordo una strana opinione di Zamoscio (2), poi ripetuta sconsideratamente da molti, secondo la quale sarebbe stata stabilita una irragionevole incompatibilità di uffizi tra feziali e senatori ("); strana opinione di cui deve cercarsi l'errore in una interpretazione evidentemente sbagliata d'un passo di Livio (*), dal quale si ritrae invece precisamente la dimostrazione contraria.

Voglio dire piuttosto come i feziali, che son veri e propri legati nel largo senso, godessero di quel privilegio che con tutti gli altri legati hanno comune, della santità e inviolabilità; che anzi di questa santità e inviolabilità i feziali sono anche i custodi, come a suo luogo vedremo. Sulla inviolabilità dei legati molte cose potrebbero dirsi (). È il solo ufficio pubblico per il quale sia stata consacrata in Roma la inviolabilità anche fuori del patrio territorio: Sacrum etiam inter exteras gentes legatorum ius ('); ciò che facilmente vien giustificato, ricordando quello ch'io dissi sul significato e il carattere dell'ius gentium, nei rapporti del diritto pubblico. I legati, nel concetto romano, che è pure il moderno, rappresentano la potenza e la maestà di Roma ('); ed è in questo concetto, presso i Romani chiaramente determinato, che bisogna ritrovare, allora come oggi, la cagione di quella inviolabilità santa, che leggiamo cento volte stabilita negli scrittori latini, e che riceve sanzione anche nel codice del diritto romano (3). Su tutto ciò d'altronde dovrò ritornare altra volta, quando dirò della competenza che era riservata ai feziali per i reati commessi contro l'ius delle genti.

(') « An diesem, wie es scheint, stets rein patricischen Collegium », o. c. p. 328.

(*) De senatu romano, in Graevii Thes. I, p. 1090 E.

(*) Ricordo per incidenza che l'uffizio di sacerdote per regola non implicava in Roma nessuna incompatibilità con altre cariche. Soltanto i duumviri s. f., più tardi i Xviri interpreti dei libri sibillini, il flamine di Giove, e, dopo la repubblica, il rex sacrorum non potevano occupare altri pubblici uffizî. Cf. Duruy, Hist. des Rom. p. 97, n. 1, Paris 1879.

(') XXXI, 8, 4.

(5) Fra molti, vedi specialmente Weiske, o. c. parte II, cap. II, §§ 28-31, p. 42 segg., e Osenbrüggen, p. 38-41.

(") Tacito, Ann., III, 80.

() Cicerone, Philipp. VIII, 8.

(*) Pomponio, L. 17 D. De legation. (50, 7). V. pure L. 7 D. Ad leg. Juliam de vi publ. (48, 6); § 8, Inst., De publ. judic. (4,8); L. 8, § 1, D. De divis. rer. (1, 8). Cf. sopra pag. 19 n. 1; si vedano anche Livio, I, 14, 1-3: II, 4, 7 (particolarmente importante); IV, 17, 2-5; 32, 5; IX, 10, 10; XXXIX, 25, 10; Cicerone, De orat., 1, 313; De har. resp. cap. XVI; In Verr. I, 33; Pseudo-Asconio, In Verr. I, 33 e I, § 85 (p. 182-83 della ed. Orelli, vol. V); Nonio Marcello, cap. III, n. 12; Polibio, XV, 4, 10; Seneca, De ira, III, 2; Dionisio, V, 34; VI, 16; XI, 25; II, 52; V, 34; VI, 16; XI, 25; e molti altri. Cf. pure Cic. Pro lege Manilia 5; Livio, XXI, 10, 6.

Nessuna notizia ne fu conservata sul sistema adoperato per la elezione dei feziali ('). Noi, per analogia con gli altri collegi di sacerdoti, riterremo che anche i feziali si eleggessero per cooptazione, che è quanto dire per decisione del collegio stesso, senza alcuna intromissione estranea (). La cooptazione era uno dei mezzi più adatti per conservare ai collegi il carattere di esclusività e per assicurare il segreto della tradizione religiosa, che veniva conservata nel seno della corporazione. E ritenuto che il sistema della cooptazione avesse valore anche per il collegio feziale, si deve necessariamente ritenere che anche per questo siano avvenute tutte quelle trasformazioni alle quali questo diritto di cooptazione andò soggetto negli altri collegi. E qui, tralasciando tutto il movimento di lenta preparazione che la precedette, il pensiero si rivolge naturalmente alla nota legge Domizia, che fu promulgata nell'anno 651 d. R. da Cn. Domizio Enobarbo (di cui prese il nome), consoli C. Mario e L. Aurelio Oreste, e che trasportò dai collegi al popolo, rappresentato da 17 tribù estratte a sorte, il diritto d'eleggere i membri dei collegi sacerdotali. La legge, com'è pur noto, abolita da Silla nel 673, fu, sotto il consolato di Cicerone, a istigazione di Cesare, rimessa in vigore (691 d. R.) per opera di Azio Labieno, ancor esso tribuno della plebe, da cui ebbe il nome di legge Azia; ond'è che legge Azia o legge Domizia la troviamo da allora in poi indifferentemente chiamata. Abolita di nuovo da Antonio, fu di nuovo ristabilita dopo la sua caduta; finchè, col rovinare delle libere istituzioni, nel principe concentrandosi tutti i poteri del popolo, anche la nomina dei sacerdoti divenne dipendente dal capriccio imperiale. Ricordo ancora che se un capo ebbe il collegio dei feziali, rimastone vacante per morte il posto, questo (nella stessa guisa che il pontefice massimo e gli altri capi dei collegi sacerdotali) non veniva rioccupato direttamente, ma prima si completava il numero mancante dei sacerdoti, e allora soltanto, col concorso del nuovo membro, si passava a una nuova votazione, da cui veramente riusciva eletto il princeps collegii. Ma veramente possedeva un princeps il collegio dei feziali? E quale e chi fu? È una questione non risoluta.

Certamente a uno dei membri del collegio era riservato il nome speciale di pater patratus; ma tutte le testimonianze che intorno a lui sono rimaste, sia per ciò che riguarda la posizione che egli aveva nel collegio dei feziali, sia per le funzioni dell'ufficio suo, quanto per l'origine del suo nome, sono così incerte, che diventa ardua cosa di giungere a un risultato sicuro.

La questione che adesso qui ne interessa di trattare si pone così: l'ufficio del pater patratus fu un ufficio duraturo, perpetuo, come quello del pontifex maximus nel collegio del pontefici, come quello del magister nel collegio dei Salii e dei fratelli Arvali, come quello della virgo vestalis maxima fra le vestali, ovvero fu un ufficio passeggero e temporaneo soltanto? Il pater patratus, con altre parole, era il primo fra tutti i feziali, il princeps collegii, ovvero fu uno qualunque tra i feziali,

(') Non ha valore ciò che dice Laws o. c. § 8, p. 13.

(*) V. Conradi, II, § 8: Ritter, I, § 8; Mommsen, Röm. Staatsr., II, 1, p. 670; Marquardt, p. 401; Lange, p. 321. Sulla cooptazione si possono confrontare Merklin, Die Cooptation der Römer, Leipzig 1848, e Gemoll, De cooptatione sacerdotum roman., Berlino 1870.

eletto volta per volta, quando del suo ufficio si presentava necessità? (') Le autorità che si sogliono recare in suffragio della prima opinione sono specialmente quella di Plutarco, che chiama il pater patratus péyiotos yitiahíwv (*), quella di Servio che lo dice princeps fetialium (3) e, più recentemente, la testimonianza d'un incerto autore, di cui furono da Edoardo Huschke scoperte in un codice parigino, e pubblicate, alcune brevi note sui magistrati e i sacerdoti del popolo romano (') e che si esprime sul pater patratus con queste parole: pater patratus sacerdotibus fetialibus praepositus erat ("). Dirò or ora degli altri due testi. Ma per ciò che quest'ultimo concerne, non son disposto a concedergli autorità. Huschke, spinto certamente dal natural desiderio di accrescere importanza alla sua scoperta, credette, per troppo lievi argomenti, di poter far risalire l'età dell'autore di quei frammenti al principio del secolo IV. Ma rettamente il Mommsen, in un articolo che trovo nel Rheinisches Museum für Philologie (6), confutò e rifiutò quelle argomentazioni, ritenendo autore probabile di quelle note Guarino da Verona (1370-1460). E Guarino o altri ne sia l'autore, certo è che questi visse in epoca molto posteriore a quella che Huschke desidererebbe; ciò che basta per togliere autorità alle sue parole.

A quei passi che citai, gli avversarî ne oppongono uno, principalmente, nel quale Livio si esprime così: Fetialis erat M. Valerius. Patrem patratum Sp. Fusium fecit ('). Ma queste poche parole in verità son così chiare, così inoppugnabili, da obbligarci senza più a concludere che nell'epoca di Tullo Ostilio, alla quale si riferisce il racconto liviano, l'ufficio del pater patratus fosse veramente temporaneo, e la sua funzione fosse, come Marquardt si esprime, speciale e alternata fra i feziali. Tentò bensì Conradi, e poi Huschke con lui, di togliere importanza a quelle parole, dicendo non trattarsi d'una vera scelta, ma soltanto d'una solenne confermazione ad sanciendum foedus et sacra peragenda ut populi totius nomine iusiurandum patrandi haberet potestatem; ma, pur tralasciando ogni altro argomento, ognun vede quale violenza occorrerebbe esercitare sulle parole di Livio, il quale espressamente dice fecit e non confirmavit (*).

Ma come s'accordano allora con questa opinione quelle contrarie e pur precise testimonianze di Plutarco e di Servio, che chiaramente indicano il pater patratus come il maggiore, come il principe dei feziali? Che se è vero che a Plutarco e a Servio non possa accordarsi quella autorità che a Livio si concede, è pur certo, a me pare,

(') Per la prima opinione, a cui partecipano, in maggioranza, i vecchi scrittori, v. specialmente Conradi, cap. II, § 5, e più recentemente Rein, 1. c. (v. Letteratura) p. 467; Baehr, l. c. (v. Letteratura) p. 329; Huschke, Incerti auctoris magistratuum et sacerdot. p. R. ecc., nei suoi commenti a p. 147; Walter, G. d. röm. R. § 153; ecc. Per la seconda: Jensius, 1. c. cap. V, e specialmente Sylvius, p. 268, tra i vecchi; tra i moderni: Laws, § 6, Marquardt, p. 401, Lange, p. 323-24. Un'opinione ancor più radicale fu sostenuta da Rubino, e approvata in Italia da Padelletti.

(*) Quaest. rom. 62. - () Ad Aeneid. IX, 53. () V. Letteratura. (5) Pag. 3. (*) Vol. 10, 1856, p. 136-141: Ueber die von H. herausgegebene magistr. et sacerd. p. R. expositiones ineditae. (') I, 24, 6. — (8) Del resto, pure negata la perennità delle funzioni del pater patratus, non si vuole punto affermare con ciò che il collegio fosse privo di capo; al che si potrebbe opporre da un canto la natura stessa della costituzione collegiale, dall'altro l'analogia con gli altri collegi sacerdotali romani; dobbiamo credere invece con piena sicurezza che un capo in ogni maniera il collegio feziale lo possedesse; e il Marquardt suppone anzi che fosse denominato magisler felialium (p. 401).

che non è lecito, e troppo facile maniera sarebbe per risolvere ogni difficoltà, il sistema di Marquardt, il quale a Plutarco nega fede, e di Servio non dice.

Una via di pacificazione invece tentarono il Laws ed il Lange, supponendo una trasformazione del collegio, in novissimis reipublicae temporibus il primo, ai tempi dell'impero il secondo. E certamente in una risoluzione storica soltanto può trovarsi un resultato migliore. Ma non può ammettersi che in una istituzione già morta di fatto, o quasi, com'era l'istituzione dei feziali negli ultimi tempi repubblicani e sotto l'impero, si recasse una riforma di tal genere, che d'altronde nessuna ragione giustificherebbe. E vogliamo ammettere che sino allora il collegio fosse rimasto senza capo; e proprio quando le sue funzioni eran cessate o ridotte a vane formalità, si pensasse di supplire alla mancanza? Ovvero che non si trattasse che d' una mutazione, incomprensibile, del nome di quel capo? È meglio supporre quindi che in epoca anteriore avvenisse la modificazione. Che se noi pensiamo come verosimilmente l'istituto feziale nell'epoca primitiva fosse meno regolarmente ordinato, come fosse composto d'un numero minore di membri, fors'anche collegio non costituisse, potremo facilmente giustificare se un capo in quei primi tempi non ebbe, ed invece, via via che l'occasione lo richiedeva, uno dei feziali fosse dagli altri consacrato pater patratus, con quelle cerimonie che Livio descrive. Ma successivamente, aumentato il numero dei feziali, fors'anche allora soltanto elevati a collegio, data loro maggiore regolarità d'ordinamento, l'ufficio del pater patratus sarebbe stato inalzato a ufficio perpetuo, ed il pater patratus, il cui nome indicava già una certa dignità maggiore sugli altri, posto a capo del collegio, senza che per questo si smettessero le cerimonie che altra volta servivano a creare il pater patratus, e che sarebbero rimaste vive, ma soltanto per indicare d'allora in poi veramente una confermazione, non concedendo la consuetudine romana che le antiche formalità venissero abolite; e forse quella solennità servì, in caso di necessità, a creare uno de' feziali supplenti, se così posso dire, del vero pater patratus, quando questi non fosse presente. A questa trasformazione si riferirebbero le parole di Plutarco e di Servio.

Ritengo d'altronde che la questione non sia di tale importanza da richiedere una discussione maggiore. Dirò ancora soltanto che una terza opinione, proposta da Rubino (') approvata soltanto, a quanto so, dal Padelletti (), non solo pone fuor di dubbio che nulla avesse a fare il pater patratus con il capo dei feziali, ma ritiene di più che a pater patratus potesse venir consacrato anche un estraneo al collegio. Ma pur riconoscendo come questa supposizione, se potesse venir dimostrata, varrebbe a togliere difficoltà non lievi, che in altro luogo ritroveremo, devo peraltro assolutamente respingerla, perchè sfornita d'ogni verosimiglianza e d'ogni sussidio di prova. I passi che Rubino cita in conferma (3), nulla dimostrano; tutt'al più non si oppongono alla ipotesi. Ma vi si oppongono ben altri e, in parte, evidenti argomenti, ch'io non voglio qui esporre, perchè troppo dovrei dilungarmi.

E basti di ciò; solo ch'io dica ancora che, senza occuparmi delle strane etimo

(') Untersuchungen über röm. Verfassung und Gesch., I, p. 172, n. 2, Cassel 1839.

(*) Storia del diritto rom., p. 53.

(3) Livio, I, 24, 6; Servio, Ad Aeneid. IX, 53; X, 14; XII, 20.

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