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logie che furon pensate di questa strana denominazione che è pater patratus ('), è a credere che il nome di pater alluda all'ufficio del feziale, che doveva rappresentare il popolo romano nelle relazioni con gli altri Stati come padre i suoi figli, ovvero, se piace meglio, come ogni pater familias rappresentava la famiglia sua nelle relazioni con le altre (); mentre la parola patratus parrebbe indicare com'egli non sia padre per natura, ma fatto tale da un atto di consacrazione (3).

Poche cose ancora aggiungerò sopra questa parte meno giuridica del mio argomento.

I feziali, come tutti i sacerdoti generalmente, nel compimento delle loro funzioni andavano adorni di speciale foggia di vestimenta, convenienti alla dignità loro, e che erano bianche, tutte intessute di lana, mentre speciali insegne di riconoscimento recava il pater patratus, che a nome di tutto il popolo agiva verso gli Stati nemici, o pacificati. Uno dei feziali scelto fra gli altri, dice Dionisio (II, 72) andava adorno di vesti e di sacre insegne, perchè fosse appariscente fra tutti. E Livio: Legatus.... ad fines eorum venit, unde res repetuntur, capite velato filo (lanae velamen est) (*). E si soglion pure citare a tale proposito quei due versi di Vigilio (5):

alii fontem ignemque ferebant

Velati lino et verbena tempora vincti.

E qui, a cominciare da Servio Onorato sino a Conradi, a Ritter, a Laws, una quantità di sottili questioni e di affaticamenti inutili dei commentatori di Virgilio e di quanti scrissero sui feziali, per accordare Virgilio con Livio, o piuttosto per dimostrare l'errore del primo, perocchè Servio recisamente affermi, nel commento a quei versi, che fetiales et pater patratus per quos bella vel foedera confirmabantur, nunquam utebantur vestibus lineis. E così troviamo Capro ed Hyginus, antichissimi commentatori, che, come Servio ricorda, ritennero quel passo corrotto e lessero limo anzichè lino; e ciò che per limus s'intenda (una specie di cingolo che si ravvolge intorno ai fianchi lasciando seminudo il corpo) lo spiega Servio nel medesimo luogo. Mentre

() V. fra gli altri Plutarco, Quaest. rom. 62; Vossio, Etymologicon linguae lat. p. 435, s. v. paler patratus; Conradi, cap. II, § 4, p. 274; Laws, l. c. § 6, p. 11; Hartung, Die Religion der Römer, p. 267. (') Lange, I, p. 265; cf. p. 107: « Der Verkehr der Familien untereinander ist nach Analogie des späteren Völkerrechts aufzufassen ».

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() Merita appena d'essere indicato un errore in cui è caduto Conradi, il quale, riportando l'iscrizione che si trova in Grutero al n. 9 della pag. 34, dove è nominato un P. Acilius Pisonianus pater patratus, credette di poter riferire l'indicazione al Pater patratus fetialium. Ma le quattro lettere che stanno in capo a quella iscrizione (D. S. I. M. Deo Soli Invicto Mithrae) chiaramente dimostrano che a un sacerdote di Mitra si riferisce la lapide. Sia quindi, come è probabile, che si tratti d'una lezione sbagliata, di maniera che invece di pater patratus debba leggersi paler patruum, che è appunto il titolo dei sacerdoti di Mitra, sia pure che si voglia credere che anche ai sacerdoti di Mitra fosse dato il titolo di pater patratus, certo è in ogni modo che coi feziali l'iscrizione non ha rapporto di sorte. Cf. Orelli, I, p. 394. Anche Grutero del resto la pone fra le iscrizioni che si riferiscono al culto di Mitra.

(') 1, 32, 6. Il costume di pregare col capo velato, comune pure ad altri popoli, in parte anche alla religione nostra, era generalmente prescritto per tutti i sacerdoti romani. V. Servio, Ad Aen. VIII, 664.

(*) Aeneid. XII, 120-21.

invece Farnabio deduce senz'altro da quelle parole di Virgilio che i feziali per sacro costume dovessero andar vestiti d'abiti di lino, meritandosi per questo i rimproveri di Giovanni Sauberto il quale scrisse aver egli precipitanter ac insipide affermata quella opinione ('). Ad altre supposizioni più o meno verosimili altri ricorsero ('); ed è strano soltanto che fra tanti scrittori, tutti ubbidienti a Servio, a nessuno sia venuto in mente di dubitare, almeno, se veramente di feziali Virgilio intendesse parlare in quel luogo, o non piuttosto di ministri sacrorum, genericamente.

Del resto oggi la critica filologica sembra messa d'accordo, sull'autorità del codice parigino, ad accettare veramente la correzione dei due antichi commentatori, leggendo limo anzichè lino (3).

Ma non si stancarono per questo di tali sottili ed oziose ricerche quelli antichi scrittori; e si chiesero perchè di lana anzichè di lino dovessero essere quelle vesti. E Silvio, seguendo Plinio (*) ritenne la lana più conveniente agli uomini perchè più forte, e più gradita agli dei perchè tolta agli animali prima che fossero sacrificati. Mentre invece in un concetto tutto opposto cerca la giustificazione Boxornio, che dedica a tale argomento tutta intiera una delle sue quaestiones romanae (3).

Oltre che le bianche vesti di lana (bianche quasi a rappresentare la publica fides che in candide vestimenta soleva sempre raffigurarsi), il pater patratus portava pure il capo recinto di sacre erbe. Su queste sacre erbe, in base alle testimonianze che di esse ci son restate (), e specialmente sui significati di gramina, sagmina e verbena, fu scritto più di quanto potrebbe credersi. Certo pare a me che se nella terminologia tecnica quelle tre voci èbbero, com'è probabile, diversi significati, nel comune linguaggio si usavano indifferentemente (e lo afferma Plinio medesimo) (') per indicare la medesima cosa, vale a dire particolarmente l'erba sacra strappata dalla rocca capitolina colla propria terra; e quale efficacia avesse quell'erba Marciano giureconsulto lo insegna (). Essa rappresentava in certa maniera il segno esterno della inviolabile santità di coloro che la recavano, nella maniera stessa che il caduceo per

(') De sacrificiis Veterum, Lugduni Bat. 1699, p. 167.

() V. ad es. Sauberto, 1. c.; Cl. Sylvius, p. 236; Conradi, II, § 11; ecc.

() V. ad es. le edizioni di Heyne (Lipsia 1833), di Ribbeck (Lipsia 1872), di Haupt (Lipsia 1873). (') Hist. nat. XIX, 1.

(*) Quaestio XXX, in Graevii Thesaurus, vol. V, col. 959.

(") Livio, I, 24, 5: « Fetialis ex arce graminis herbam puram adtulit », e XXX, 43, 9: « fetiales . . . verbenas secum ferebant.... Herbae id genus ex arce sumptum dari fetialibus solet ». Più largamente Festo s. v. sagmina, p. 321, ed. Müller: « Sagmina vocabantur verbenae, id est herbae purae, quia ex loco sancto arcebantur » (arcessebantur propose Gottofredo, sed miro conatu, come dice Müller, p. 320, nota; nemmeno persuade Huschke che propone arce dantur) < a Consule Praetoreve, legatis proficiscentibus ad foedus faciendum bellumque indicendum ». Ne parla anche Servio, Ad Aen. XII, 120, con queste parole: «Verbena proprie est herba sacra sumpta de loco sacro Capitolii, qua coronabantur fetiales et pater patratus foedera facturi vel bella indicturi». E più specificatamente Plinio, Hist. nat. XXII, 2: « Certe utroque nomine » (cioè di sugmina e di verbena) « idem significatur, hoc est gramen ex arce cum sua terra evolsum ac semper e legatis, cum ad hostis clarigatumque mitterentur, id est res raptas clare repetitum, unus utique verbenarius vocabatur ».

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gli araldi greci; e a quelle verbene, che venivano staccate, come dissi, con tutta la zolla, quasi simbolo del patrio territorio, la santità certamente veniva conferita dal luogo d'ond'erano strappate, che era l'arr, come pure abbiamo avvertito; e per arx deve intendersi la sommità del colle capitolino, luogo santo nella tradizione romana, dove già sin da Tazio e da Numa era posta la residenza degli auguri e di altre sacre istituzioni di Roma (').

Quel feziale di cui l'uffizio era di recare quelle verbene con cui poi dovea inghirlandare il capo del padre patrato, riceveva, appunto come indicazione di ciò, il nome di verbenarius ('); e anche per esso non trattavasi certamente d'un ufficio perenne, ma temporaneo, che di volta in volta veniva conferito a uno dei feziali (3).. Del resto delle funzioni e delle cerimonie che questo feziale verbenario compiva, dovremo dire più diffusamente nel seguito.

CAPITOLO TERZO

Del diritto feziale di guerra.

§ 1. Quale fosse presso i Romani la significazione di giusta guerra;

e quale l'ufficio che per tale riguardo competeva ai feziati.

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<< Omnes gentes sciant », lasciò scritto Livio superbamente (*), « populum romanum et suscipere iuste bella et finire ». E in altro luogo (5): « Iuste bella non minus quam fortiter didicimus gerere »; e ai Rodii fa dire (°): « Certe quidem vos estis Romani qui ideo felicia bella vestra esse, quia iusta sunt, prae vobis fertis »; e da ciò quellc espressioni che frequentissimamente si trovano ripetute: iustum piumque bellum, pia et iusta arma (), e quelle frasi, nelle formule del rito feziale, iuste pieque legatus venio (3), puro pioque duello res quaerendas censeɔ (°). Ora

(') Preller, Röm. Mythologie, Berlin 1858, p. 219-20; Walter, Gesch. d. röm. R. I, X, § 74. () Verbenatus (ma è da leggersi sicuramente verbenarius) ferebat verbenam; Varrone, in Nonio, cap. XII.

(3) Non ha base la supposizione di Laws, secondo la quale dapprima il verbenarius non avrebbe accompagnato il pater patratus che nelle conclusioni delle paci, e solo più tardi, negli ultimi tempi della repubblica, l'uffizio suo sarebbe stato esteso anche ai riti di guerra.

(*) XXX, 16, 9.

() V. 27, 6. Vedi pure Diodoro, VIII, 22.

() XLII, 22, 5.

(') Livio, I, 24, 4; III, 25, 3; IX, 1, 10; 8, 6; XXX, 31, 4; XXXI, 14, 10; XXXV, 35, 3; XXXIX, 6, 12; ecc.; V. pure Dionisio, III, 3, 5; X, 23, ecc.; Diodoro, VIII, 22; Plutarco, Numa 12. Cf. Conradi, p. 306; Osenbrüggen, p. 23; ecc.

(*) Livio, I, 32, 6.

(") Livio, I, 32, 12; v. pure III, 25, 4; IX, 8, 6; Varrone, De l. l., libro 5, cap. 15.

una interpretazione non retta di ciò che i Romani intendessero con tali espressioni fu cagione di erronei e curiosi giudizî sopra l'ufficio e la importanza che in Roma fu conceduta ai feziali. Certo è che iustum facilmente si presta a doppia e ambigua intelligenza, giacchè da un canto può rivolgersi ad indicare la interna conformità della cosa ai principî che l'equità e la moralità prescrivono; dall'altra parte iustum è pur quello che nelle sue maniere di apparire è rivestito di quelle forme esteriori che la legge ha imposto. Che questo secondo fosse il significato giuridico di iustum ('), e che in questo significato i Romani chiamassero giuste le proprie guerre, nessuno dovrebbe dubitarne, sebbene molti, come dirò, si siano lasciati sedurre dalla contraria opinione.

La guerra, secondo il concetto romano, e lo dirò meglio più innanzi, era considerata come un vero procedimento giudiziale che si combatteva fra due eserciti anzichè fra due individui. Gli stessi criterî, le stesse espressioni che per le questioni di diritto privato, venivano recati nelle pubbliche controversie. Nè di ciò d'altronde mancano le dimostrazioni evidenti. « Ac belli aequitas » dice Cicerone, che pur abbiam veduto quale largo concetto possedesse del giusto, << sanctissime fetiali populi Romani iure prescripta est. Ex quo intelligi potest nullum bellum esse iustum nisi quod aut rebus repetitis geratur, aut denuntiatum ante sit et indictum » ('); nè diversamente Nonio (3): « Nec bella indicebantur, quae tum pia vocabant, priusquam quid fuisset a fetialibus denuntiatum »; e Varrone (*): « Bellum nullum nisi pium putabant geri oportere: priusquam indicerent bellum his a quibus iniurias factas sciebant, fetiales legatos res repetitum mittebant » ecc. Or chi non vede come tutti questi scrittori spieghino e giustifichino la giustizia e la pietà delle guerre romane con un carattere di formalità esterna? Ma che più? Livio, come or ora diremo, nel capitolo 32 del libro primo delle sue Storie ha conservato a noi il tipo della primitiva procedura feziale per la dichiarazione di guerra. Il feziale, dopo aver chiesto invano soddisfazione secondo i riti prescritti, ritorna in Roma per assicurare che ormai l'offesa ricevuta può essere vendicata puro pioque duello (). Or si noti che Livio narra il tipo astratto del procedimento feziale, indipendentemente dalla sua applicazione a qualunque popolo, a qualunque guerra (); d'onde chiaramente risulta che il carattere della giustizia e della religiosità della guerra non dipendeva punto dalla interna giustizia della medesima, e

(') lustum, dice il Voigt, op. c. II, p. 43, sta ad indicare, nel significato tecnico, che una relazione è costituita secondo l'ius civile Romanorum. È in questo senso formale che si dicono iustae le nuptiae, che è iusta la causa, ecc. E tale e non altro è il significato che iustum ha costantemente nel linguaggio giuridico romano. Un ottimo esempio a questo proposito ce lo offre la procedura feziale medesima. Quando, in seguito all'annullamento della famosa sponsione caudina, di cui più volte tornerà il nome in queste pagine, il Senato decise che Postumio fosse, per mano dei feziali, consegnato ai Sanniti, con le mani strette dietro il dorso, come il rito feziale prescriveva, siccome l'apparitor, verecundia maiestatis, debolmente stringeva Postumio, Quin tu, disse questi, adducis lorum, ut iusta fiat deditio? (Livio, IX, 10, 7; V. pure Cic., Pro domo, XVI, 42; De prov. cons. XIX, 45). (*) Cic., De off. I, 11; egualmente De republ. III, 23: « nullum bellum iustum habetur nisi denuntiatum, nisi indictum, nisi repetitis rebus >>.

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(") Cap. XII. () In Nonio, 1. c. (5) Livio, I, 32, 10. () Cuiuscumque gentis (fines) sunt, nominat (Livio, 1, 32, 6); quicumque (populus) est nominal (1, 32, 10).

che iustum, che è quanto dire legale, legittimo, era il termine tecnico per indicare quelli atti nei quali tutte le esterne formalità prescritte dalla legge civile erano state osservate, nello stesso modo che pium aveva più particolarmente riguardo alle formalità che la legge religiosa imponeva ('); talchè potremo dire con Osenbrüggen (2) che « iustum bellum est quod suscipitur omnibus ex ordine perpetratis, quae usus et ritus postularent, bellum igitur iusto more inceptum » (3).

Non è certamente mio proponimento di confrontare qui la moderna teoria su questo proposito con la teoria romana; soltanto mi piace ricordare d'un moderno scrittore di diritto delle genti, Vattel (*), il quale a questa teoria romana completamente tornando, ritiene che ogni guerra, secondo quello che egli chiama diritto delle genti volontario, debba essere considerata, quanto ai suoi effetti, egualmente giusta da una parte e dall'altra, ogniqualvolta sia stata condotta con le forme dovute, non riconoscendo in alcuno il diritto di giudicare una nazione intorno all'eccesso delle sue pretensioni o intorno a ciò che essa creda necessario per la propria sicurezza.

Così facilmente ritrovato quale fosse il concetto della giusta guerra romana, ci siam formata la via per comprendere dove consista l'errore di quei falsi giudizî di cui feci parola più sopra.

Con frasi più o meno dubbie, gli scrittori latini e greci che dicono dei feziali sono concordi nell'attribuire ad essi l'ufficio di giudicare sulla giustizia della guerra. Fetiales.... bella disceptanto » dice Cicerone (5). Festo assicura che «< apud fetiales belli pacisque faciendae ius est » (°). Varrone dice che « per hos fiebat ut iustum conciperetur bellum » (). Plutarco li chiama conoscitori ed arbitri delle cause per le quali si potean decider le guerre; tali che contro la volontà loro nè il re nè i guerrieri avevan potestà di recare battaglia ("); e Dionisio ripete che era officio loro di curare affinchè il popolo romano non recasse ingiuste guerre (9). Ingannati da queste splendide e seducenti apparenze, il maggior numero di coloro

(') È di opinione contraria fra gli altri Müller-Jochmus (op. c. p. 155), il quale, analizzando l'espressione iustum piumque bellum, dice che « l'iustum non si riferisce già alla formalità della indictio ma alla causa, giacchè era sulla aequitas della guerra che cadeva il giudizio; mentre pium, che è in contrapposizione a iustum, accenna veramente soltanto alle cerimonie e corrisponde presso a poco al legitimum. Se l'una e l'altra di quelle parole si riferissero alle formalità, costituirebbero una inutile ripetizione, ecc. ». Quanto io vado dicendo qui sopra è appunto la confutazione di tale erronea opinione.

(*) Op. cit. p. 23.

() Nè certamente è nuova questa maniera di intendere l'iuslum bellum romanum. Già Lattanzio, Div. Instit. VI, 9, scriveva : « Quantum autem a iustitia recedat utilitas, populus ipse romanus docet, qui per fetiales bella indicendo et legitime iniurias faciendo possessionem sibi totius

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mundi comparavit ». E queste parole di Lattanzio riportava Alberico Gentile, quando, accennando ai feziali, «t remedium an emplastrum dicimus potius » si chiedeva; e rispondeva: « Fucum potius» (De armis romanis III, p. 387, in Op. omnia, Napoli 1770). Più recentemente, fra coloro che meglio disegnarono primi questo concetto, ricordo lo Stuss, op. c. p. 37 segg., e Osenbrüggen, op. c. p. 21 segg.

(') L. III, cap. XIII, §§ 190-195. (5) De legg. II, 9. () De l. 1., libro 5, cap. 15. - () Cammillo 18, Numa 12.

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(°) S. v. fetiales p. 91 ed. Müller. (") II, 72.

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