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raptas restituere, vel auctores iniuriae tradere, pater patratus iacebat hastam, quae res erat pugnae principium » (').

Il medesimo costume di dichiarare la guerra fu in usanza anche in Grecia; e lo si deduce da quel proverbio greco che ci venne conservato da Adriano Giunio nella sua raccolta (*) « θατέρα μὲν δόρυ, θατέρα δὲ κηρύκειον προίσχειν » (*). Alessandro infatti, come racconta Diodoro, giunto in Persia scagliò una lancia sul lido; ed i Persiani medesimi ebbero questa costumanza, secondo quanto racconta Ammiano Marcellino: «< Vixque ubi Grumbates hastam infectam sanguine ritu patrio nostrique more coniecerat fetialis, armis exercitus concrepans involat muros » (*).

La formula che il pater patratus doveva pronunziare prima di scagliare la lancia sanguinosa nel territorio nemico, era concepita così:

Quod populi Priscorum Latinorum, hominesque Prisci Latini adversus populum Romanum fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium bellum cum Priscis Latinis iussit esse, senatusque populi Romani Quiritium censuit, consensit, conscivit, ut bellum cum Priscis Latinis fieret: ob eam rem ego populusque Romanus populis Priscorum Latinorum hominibusque Priscis Latinis bellum indico facioque » (*).

Da questa formula poco si discosta quella che Gellio riferisce, togliendola dal lib. III de re militari di Cinzio:

« Quod populus Hermundulus hominesque populi (*) Hermunduli adversus populum Romanum bellum fecere deliqueruntque, quodque populus Romanus cum populo Hermundulo hominibusque Hermundulis bellum iussit, ob eam rem ego populusque Romanus populo Hermundulo hominibusque Hermundulis bellum dico facioque » (").

Ciò che anzitutto riesce strano, nel legger questa formula, è che della partecipazione del popolo per decider sulla guerra, di cui non viene fatto ricordo in tutta la prima parte del rito della repetitio rerum ("), di cui non vien fatto ricordo,

(') Ad Aeneid. X, 14.

(*) Adagiorum centuria prima, col. 1017 (in D. Erasmi Roterdami, Chilcades ecc., Parisiis 1571). Cf. pure Erasmo, Chil. II, cent. X, p. 582.

(*) Cf. il racconto di Gellio, X, 27, che è invece narrato in guisa diversa da Livio, XXI, 8, i. f., e da Floro, II, 6.

(') Ammian. Marc., XIX, 2, 6. Si veda come tutto questo costume romano di dichiarare la guerra sia narrato da Diodoro, quale ci fu conservato da Tteztzes (Var. hist. Chilias 5,15 v. 554-563). (") Livio, I, 32, 13.

(*) Questo populi qui posto antiquitatem non sapit, dice Conradi, cap. IV, § 13, n. 49, p. 330; e già Jensius e Gronovio lo avevan supposto prima di lui; ed in verità che quel populi debba credersi interpolato lo ritengo ancor io, considerando sovratutto che due volte più sotto troviamo detto hominibus Hermundulis, e non hominibus populi Hermunduli, egualinente come abbiamo trovato homines prisci Latini in Livio.

() Gellio, N. A. XVI, 4.

(*) I feziale si presenta bensì come publicus nuntius populi Romani Livio, I, 32, 6, ma ciò non allude minimamente al una decisione del popolo, come crede il Weissenborn (nel commento a Livio, I, 32, 13). Noi sappiamo già come i feziali ricevessero l'ordine e l'incarico direttamente ed esclusivamente dal re. Quella frase sta ad indicare soltanto la rappresentanza che il puter patratus riceve mediante la consacrazione.

ciò che è più, nell'atto che veramente decide la guerra, la quale vien fatta dipendere esclusivamente dalla sentenza dei senatori interrogati dal re (quando pars maior eorum (patrum) qui aderant, in eamdem sententiam ibat, bellum erat consensum, Livio I, 32, 13), di quella partecipazione venga fatto ricordo soltanto nella indictio belli, ed in forma così assoluta e recisa, da indicare il popolo come quello che veramente e direttamente delibera: «< populus Romanus Quiritium bellum iussit esse » (').

Ma già abbiamo detto che questa formula liviana della indictio belli deve essere riportata ad un' epoca posteriore, quando l'iussus populi costituì veramente un diritto essenziale per la dichiarazione della guerra. S'aggiunge che in questa formula della indictio belli non viene rammentato minimamente il re, ciò che per il tempo monarchico, come già dissi, sarebbe assolutamente inconcepibile. Ma d'altronde, che fino dagli antichissimi tempi fosse riserbata al popolo una partecipazione alla decisione della guerra, Rubino lo afferma con sicurezza, e ne reca ottime prove (). Può darsi quindi anche che già nell'antichissima formula originale della indictio belli il popolo fosse ricordato ancor esso, non mai però nella forma recisa della più recente formula di Livio. Certamente la partecipazione del popolo alla guerra, sotto i re non ebbe carattere nè giuridico nè religioso; in altre parole questa partecipazione del popolo non deve essere considerata, come ben dice Rubino (3), come una necessità costituzionale, in quelli antichissimi tempi, (ciò che del resto anche un passo di Dionisio espressamente assicura), bensì come una misura, che si credette utile di usare frequentemente. Come ciò invece con la repubblica si sia tramutato in uno dei più essenziali diritti del popolo, come il senato e la nobiltà prendessero questo a malcuore, e comprendendo quale potente arma fuggisse loro di mano tentassero con artifiziose interpretazioni di ritrarre a sè quella potestà, talmente da provocare nel 328 di Roma una decisione espressa, che rivendicava pieno al popolo quel suo diritto ('), e in quale maniera quel diritto fosse esercitato dal popolo stesso, tutto ciò non interessa nè spetta a me di narrare. Certamente da quel momento una serie non interrotta di esempi consacra quel principio, che Polibio determina con questa frase: « ὑπὲρ εἰρήνης ὁ δῆμος βουλεύεται καὶ πολέμου » (*). Che anzi questa partecipazione del popolo divenne così predominante, che nella formula feziale della indictio belli di Cinzio, che ho trascritta più sopra, del senato non viene fatto neppure ricordo, e la guerra viene dichiarata soltanto in nome del popolo « populus Romanus.... bellum iussit ». E questo è argomento sicuro per

(') Livio, I, 32, 13.

(*) Rubino, Untersuchungen, p. 289-290. Ciò che riesce stranissimo è che il Rubino, cercando un argomento per ciò nella stessa formula liviana della indictio belli, dove viene appunto ricordata, come sappiamo, la partecipazione del popolo, « che questa formula» soggiunge, p. 290, n. 1 « sia antichissima, risulta dalla menzione che nella stessa viene fatta del Rex ». Mentre invece abbiamo già veduto come il re non venga ricordato; ed è anzi questa una prova sicura, credo, per attribuire quella formula ad un'epoca posteriore.

() V. op. c., p. 293-294.

(') Livio, IV, 30.

(5) Polibio, VI, 14, 10.

attribuire a questa seconda formula della indictio belli un'epoca ancor meno remota che a quella di Livio (').

E ritornando alla nostra procedura, da se medesima certamente essa fa chiarissima testimonianza dell'antichità sua. Soltanto in un tempo in cui Roma non aveva guerre che con popoli finitimi era possibile che fosse imaginata e mantenuta rigorosamente questa procedura secondo la quale i feziali, prima di dichiarare la guerra, avrebbero dovuto andare e tornare perfin cinque volte da Roma al paese nemico. Ma con l'estendersi dei rapporti di Roma, ogni dì più questa procedura doveva dimostrarsi difficile, e disadatta alle condizioni mutate: « taediosum, praecipue quando fiebat.... cum longe positis gentibus» (). Abolirla non concedevano le costumanze romane, come già abbiamo detto. Ma non mancavano a quelle acute intelligenze giuridiche artifiziosi e sottili rimedi, mediante cui, pur rovinando la sostanza, fosse conservata la forma, e « l'ombra almanco de' modi antichi ». E qual rimedio si trovasse per salvare la religiosità degli antichi costumi e soddisfare le esigenze dei tempi mutati, ce lo racconta Servio: « Cum Pyrrhi temporibus adversum transmarinum hostem bellum Romani gesturi essent nec invenirent locum, ubi hanc sollemnitatem per fetiales indicendi belli celebrarent, dederunt operam, ut unus de Pyrrhi militibus caperetur, quem fecerunt in Circo Flamineo locum emere, ut quasi in hostili loco ius belli indicendi implerent. Denique eo loco ante pedem Bellonae consecrata est columna. Varro in Caleno ita ait: Duces cum primum hostilem agrum introitum ierant, ominis causa prius hastam in eum agrum mittebant, ut castris locum caperent » (). Quanta parte della natura romana in queste parole! Non era possibile mantenere in quella guerra le antiche formalità; ed i Romani che pensano? Fanno prigioniero un soldato di Pirro, e fanno a lui a forza comprare un tratto di terreno nel circo Flaminio. Quel terreno per tal modo diventa hostilis locus (ager hostilis), e la lancia scagliata in quel tratto può considerarsi come se nel paese nemico fosse stata gettata (*). Da allora in poi probabilmente si serbò l'antica procedura severa ogni qualvolta la vicinanza del popolo guerreggiante lo consentiva, ricorrendo altrimenti a questo medesimo artifizio, fino a che si trovò

(') Cf. Rubino, p. 293, nota 1. — (*) Servio, Ad Aeneid. XII, 206. — (3) Servio, Ad Aeneid. IX, 53. () Di simili esempi, che sono tanta parte del carattere romano, la storia di Roma ci offre grandissima abbondanza. Ne rammenteremo taluno, a questo nostro maggiormente simigliante. - Se ad un capitano riusciva sfortunata la battaglia, egli doveva ritornare in Roma a rinnovare gli auspicî; ma ciò dimostrandosi ben presto pesante, specialmente per la lunga lontananza a cui veniva costretto il capitano dell'esercito, si stabili ut unus locus de captivo agro romanus fieret in ea provincia in qua bellatur, ad quem si renovari opus esset auspicia, dux rediret (Servio, Ad Aeneid. II, 178; per altri passi v. Rubine, p. 89, n. 2). Lo stesso Servio ci narra in altro luogo, Ad Aeneid. II, 116, che se per certi sacrifizî erano richieste vittime troppo difficili a trovarsi, si suppliva facendole di pane o di cera, e valevano come se fossero state vive. Al flamen Dialis era vietato di giurare; invece nessun magistrato poteva entrare in ufficio senza prestare giuramento; veniva quindi a costituirsi una incompatibilità di fatto tra i due uffici. Si presentò il caso in cui un flamine diale bene accetto al popolo venne nominato edile. Si rimediò alla difficoltà trovando uno che giurasse per il flamine (Livio, XXXI, 50, 7-10. V. Ihering, I, pag. 352). Occorreva immolare una cerva? Bastava immolare una pecora, cervaria ovis, purchè la si chiamasse cerva (Servio, loc. cit.; Paolo Diacono, s. v. cervaria ovis). Nel tempio d'Iside occorreva bagnarsi d'acqua del Nilo. Si adoprava dell'acqua comune, ina la si chiamava

più vantaggioso andare ancora più innanzi, e si costruì davanti al tempio di Bellona una colonna (columna bellica) la quale fu consacrata a questo scopo guerresco; di modo che da allora in poi cessò regolarmente il costume d'inviare i feziali ai confini del popolo al quale la guerra doveva essere dichiarata, ma fu sufficiente che un feziale, verosimilmente il pater patratus (') (e qui parmi che si potrebbe trovare forse il punto di passaggio perchè il pater patratus divenisse princeps fetialium) si recasse nell'ager hostilis, e là, pronunziando la formula della indictio belli, scagliasse l'asta contro quella colonna, index belli inferendi. Ma accanto a questa inutilità le antiche costumanze lasciarono traccia ben più efficace della loro influenza, e lo spirito interno del diritto feziale, benchè in diversa maniera, restò sempre in vigore. Infatti da allora in poi seppure cessò la vecchia forma di dichiarare la guerra, le si sostituì la notificazione della indictio già in Roma compiuta secondo il nuovo costume; e di questa notificazione noi dobbiam credere che venissero incaricati regolarmente uno o più feziali (2), che si spedivano al re o duce nemico, ovvero alla più vicina guarnigione dell'esercito suo (3), con lo scopo appunto di notificare la guerra già dichiarata.

Di questa trasformazione della procedura non ci fanno difetto notizie. Giacchè, oltre quelle parole di Servio, seppur non vogliamo prestare troppa fede alla malcerta autorità di Publio Vittore, il quale nella descrizione della nona regione di Roma (*) parla appunto di questa colonna, che, come index belli inferendi, era posta ante aedem Bellonde, ne abbiamo maggiori e più sicuri ricordi. Così infatti si esprime Paolo, nei suoi estratti da Festo: « Bellona dicebatur dea bellorum, ante cuius templum erat columella, quae bellica vocabatur, super quam hastam iaciebant, quum bellum indicebatur » (). Egualmente a ciò allude Ovidio nel libro sesto dei Fasti ("), quando scrive:

Prospicit a templo (7) summum brevis area Circum;

Est ibi non parvae parva columna notac.
Hinc solet hasta manu belli praenuntia mitti,

In regem et gentes cum placet arma capi.

con quel nome (Servio, Ad Aeneid. II, 116). Ai tempi di Dionisio gli auspicî erano ridotti a ciò, che quando il candidato alla magistratura aveva pronunziata la sua preghiera, un augure che gli stava daccosto diceva « ha lampeggiato a sinistra » benchè di lampo neppure l'apparenza vi fosse stata; e le parole dell'augure bastavano perchè il magistrato potesse entrare in ufficio (Dionisio, II, 6). V. anche Servio, Ad Aeneid. XII, 206, ecc.

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(') V. però Placidus, in Mai, Class. auct., III, p. 437. (*) Livio, XXXI, 8, 4. (") Livio, XXXI, 8, 3; XXXVI, 3, 7. (*) De regionibus urbis Romae. (5) S. v. Bellona, p. 33. (*) Verso 201 e segg. () Leggo a templo e non a tergo, come leggono invece i più, ponendosi per tal modo in contraddizione con tutti gli altri scrittori che ho ricordato, i quali pongono la columella bellica « ante templum Bellonae ». D'altronde respicit e non prospicit avrebbe dovuto dire Ovidio se veramente avesse scritto a tergo. Reca a templo un antico codice patavino, seguito dal Burmann nella sua edizione (Amstelodami, 1727 p. 385, nota 2); il Merkel l'accettò ancor esso nella 5a edizione, mentre nelle precedenti recava la lezione sbagliata. Cf. specialmente Tiesler, De Bellonae cultu et sacris, Berolini 1842, p. 7 segg. Sulla topografia del tempio di Bellona e della columna bellica, v. Becker, Handbuch, I (Topographie der Stadt) p. 607; Canina, Indicaz, topogr. di Roma antica p. 364, Roma 1850, e specialmente Tiesler, opera e luogo citati.

E finalmente così Placido scrive: « Bellica columna ante aedem Bellonae, quae Pyrrhi temporibus constituta esse dicitur, ut exeuntes ad bellum superiacerent eam hasta, veluti conspecta hoste issent » (').

Se ed in quale maniera queste formalità in cui l'antica procedura feziale si era tramutata fossero conservate sotto l'impero, lo ricercheremo in altro luogo.

Ma prima di abbandonare la descrizione di questa procedura feziale di guerra, è opportuno di ricercare qual parte fosse riservata ai feziali in questa repetitio rerum, non più di fronte alla procedura, ma dinanzi alla ragione politica; ciò che varrà sempre meglio a farci comprendere il carattere politico e sociale di questa istituzione che noi studiamo. E per esprimerci più chiaramente, la questione va posta così: i tentativi per giungere ad una amichevole composizione prima di rompere guerra, potevano e dovevano, nel maggior numero delle volte, recare con sè tutta una serie di vicendevoli trattative, per le quali nessuna formula o nessuna legge scritta poteva dare consiglio. Ora queste trattative diplomatiche, che sembrano e sono in relazione così stretta con i loro uffizi, venivano realmente compiute dai feziali? E qui, io credo, bisogna distinguere storicamente. Nell'epoca primitiva, quando la potestà sacerdotale esercitava veramente una dominazione di fatto, noi dobbiam credere che il potere degli accordi diplomatici, che è quanto dire la più delicata funzione nella vita esterna d'un popolo, fosse ritenuta ancor essa dalla casta sacerdotale come privilegio geloso; è verosimile secondo ciò che i feziali, inviati ad res repetendas, ricevessero pure l'incarico di compiere quelle trattative che si trovavano in così stretto rapporto con il loro ufficio. Dimostrazioni di fatto per questa supposizione però non esistono; seppure non si volessero trovare nelle parole di tutti quelli scrittori che dicono i feziali arbitri della giustizia della guerra, da Cicerone a Dionisio, parole che potrebbero forse in certo modo spiegarsi con questa supposizione, ben differente però, come ognuno comprende, da quella proposta dal Rein, e che già respingemmo. Tutto ciò, io diceva, è verosimile e probabile; ma bisogna aggiungere sempre che se i feziali ebbero quel maggiore ufficio diplomatico, non l'ebbero però nella loro qualità rigorosa di feziali, alla quale quell'ufficio non si adattava, giacchè l'ingerenza dei feziali nelle funzioni guerresche aveva per scopo, come lungamente dissi, di rendere pia e giusta la guerra futura; ed a tale scopo, noi sappiamo già che non erano necessarie le trattative diplomatiche, ma bastava la formale repetitio rerum e la solenne indictio belli, l'una e l'altra compiute secondo i riti prescritti. Ma ad ogni modo è verosimile, io diceva, che anche la funzione diplomatica si cumulasse nei feziali con l'ufficio che a loro rigorosamente spettava, nel primo periodo della storia di Roma. Ma a chi per poco consideri lo svolgimento, anche esterno soltanto, dell'arte diplomatica dei Romani, si accorge tosto della tendenza continua sempre maggiore di sottrarla alla influenza sacerdotale. E questa tendenza fuor di ogni dubbio si mostra efficace nel togliere ogni importanza diplomatica alle funzioni dei feziali, che precedevano la guerra. Basta rammentare infatti quanta importanza sogliono avere quelle trattative preliminari, dalle quali dipende per lo più la guerra futura, e pensare dall'altra parte che i feziali costituivano un

(') In Mai, Class. auct. III, 437.

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