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della procedura internazionale, cioè la parte del popolo querelante, mentre i feziali dell'altro popolo con eguale procedura avrebbero dovuto compiere la parte che era riserbata al querelato. Ed ecco come egli, con nuove spiegazioni e giustificazioni che credo inutile di rammentare, istituisce il raffronto, e come reciprocamente completa le due procedure:

(1) Felialis (') Romanorum contra Albanorum fetiales. Postulata peragit (i. e. Hos ego homines hasque res populi Romani hominumque Romanorum esse aio secundum suas causas sicul dixi).

(2) Albanorum felialis eadem similiter dicebal.

(3) Quando populus Albanorum iniustus est, neque ius persolvit, sacramento te fetialem populi Albanorum provoco.

(4) Inde Jovem testem facit: Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier nuntio populi Romani mihi exposco, tum patriae compotem me nunquam siris esse.

(5) Albanorum fetialis quoque similiter dicebat el Jovem testem faciebat: Si ego iniuste impieque illos homines illasque res dedier nuntio populi Romani recuso, tum patriae compotem ecc.

(1) Hunc ego hominem ex iure Quiritium meum esse aio secundum suas causas sicut dixi. Ecce tibi vindictam imposui.

(2) Adversarius eadem similiter dicebat, cum uterque vindicasset praetor dicebat: Mittite ambo hominem. Qui prior vindicaverat, ita alterum interrogabat: Postulo anne dicas qua ex causa vindicaveris; ille respondebat: Ius peregi sicut vindictam imposui.

(3) Quando tu iniuria vindicavisti, D aeris sacramento te provoco.

(4) Inde Jovem testem facit: si ego iniuste impieque illum hominem meum esse aio, lum Jupiter optime maxime patriae compotem me nunquam siris esse.

(5) Adversarius quoque dicebat: Similiter te D aeris sacramento te provoco. Inde Jovem testem faciebat: Si ego iniuste impieque ecc.

Questo per ciò che riguarda la prima parte del nostro procedimento internazionale; mentre per la seconda il Danz crede di poter ritrovare un parallelo altrettanto preciso, che egli istituisce così fra la indictio belli e la manus iniectio: Quod populi priscorum Latinorum . . . . adversus populum Romanum Quiritium fecerunt, deliquerunt, quod populus Romanus Quiritium censuit. . . . ut bellum cum priscis Latinis fieret ; ob eam rem ego populusque Romanus populis priscorum Latinorum . . bellum indico facioque.

Quod tu mihi iudicatus sive damnatus es sestertium X milia quae dolo malo non solvisti, ob eam rem ego tibi sestertium X milia iudicati manus iniicio.

Facendo omaggio alla acutezza e alla scienza che il dotto e compianto professore di Jena in questa come in ogni altra sua ricerca ha recato, non posso per altro convenire con lui. Pur tralasciando che nella narrazione di Livio non è fatto nè avrebbe potuto farsi il più piccolo cenno ad una summa sacramenti che nella procedura internazionale non avrebbe senso, e nella quale pure Gaio sembra che faccia consistere l'essenza di questa procedura, v'è una ragione ben più decisiva che combatte la supposizione del Danz, togliendo la base sopra la quale essa poggia, vale a dire che i feziali dell'altro popolo, come convenuti, dovessero replicare con forme egualmenti solenni e determinate alle intimazioni dei feziali romani. Sarebbe

(') Le parole in corsivo rappresentano la parte dei due formularî reciprocamente completate.

davvero difficile a giustificare perchè nè Livio nè Dionisio avrebbero taciuto di ciò, quando ciò veramente fosse dovuto accadere; specialmente quando si pensi che le funzioni dei feziali albani sono espressamente ricordate da Livio quand'egli descrive il rito feziale di pace, nel quale veramente anche i feziali dell'altro popolo prendevano parte. Nè basta ancora, giacchè noi sappiamo con sicurezza a chi i feziali romani dovessero dirigere le loro parole; ed ai feziali dell' altro popolo non rimane alcun posto. Secondo Livio e Dionisio infatti noi sappiamo che i feziali, nella procedura completa, dovevano ripetere la loro formula, con cui repetebant res, per quattro volte. La prima volta ai confini, prima di entrare nel territorio del popolo avverso; che qui accadesse l'incontro delle due legazioni feziali nessuno vorrà dirlo, giacchè sarebbe stato necessario un precedente accordo inammissibile, e d'altronde la risposta dei feziali dell'altro popolo, rappresentanti di questo, avrebbe messo fine naturalmente a questa prima parte della procedura, che invece i feziali romani replicano per ben altre tre volte. Ma evidentemente invece le prime tre volte quella esortazione è ripetuta soltanto per vuota formalità, mentre solo alla quarta viene data veramente ai feziali quella risposta che essi desiderano. La seconda volta infatti i feziali romani si rivolgono al primo uomo che incontrano nel territorio nemico; quindi si dirigono verso la città, e là ripetono il loro carmen al custode o a colui che primo ritrovano dinanzi alle porte; finalmente per la quarta volta (') nel forum ai magistrati del popolo avverso (come dice espressamente Dionisio) (*) ai quali spetta quindi di rispondere alle domande dei feziali romani. E se così è, dove rimane, veramente, luogo per gli altri feziali? Ma che più? Dove il Danz crede di trovare la trionfante dimostrazione della sua teoria, sta l'argomento maggiore che la respinge. Livio infatti narra, esso dice ('), che fra Roma ed Alba furono mandati reciprocamente legati, utrinque legati missi ('), e quindi che Romani res repetiverant priores et neganti Albano ecc., e il negare degli Albani, egli conclude, fu qui senza dubbio espresso nelle formule determinate. Ma non osservò il Danz che quei legati sono mandati non già gli uni verso gli altri, quasi attore e convenuto, ma gli uni e gli altri come attori per offese ricevute, e gli uni indipendenti dagli altri per proprio conto, e solo accidentalmente nello stesso tempo. E, ciò che è più ancora, che gli uni e gli altri feziali espongono le loro domande non già fra loro vicendevolmente, ma rispettivamente a Cluilio, capo degli Albani (*) e al re Tullo (*), e sono Cluilio e Tullo che rispettivamente danno la risposta ai feziali (").

Tolto così al parallelo di Danz il suo fondamento maggiore, siamo autorizzati a rigettarlo senz'altro, rinunziando ad un inutile esame più minuto che ce ne dimostrerebbe ancora più completamente l'artifizio. E ancor più artifizioso ed erroneo mi sembra quel secondo parallelo che il Danz vuole istituire tra la belli indictio

(') Huschke, Das alte röm Jahr, p. 324, n. 242, e cf. anche p. 173, trova un'analogia fra questi quattro atti dei feziali, che con l'ultimo della indictio belli diventano 5, con le 5 danze dei Salii in quella festa che i Romani chiamavano Quinquatrus.

() V. Livio, I, 22.

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(*) Dionisio, III, 3.

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(1) II, 72. (*) O. p. 184 e 186, n. 19. (*) Livio, I, 22, 6; Dionisio, l. c.; Diodoro, VIII, 22.

(*) Egualmente in altro luogo i feziali si rivolgono ἐπὶ τοὺς προβούλους τῶν Σαυνιτῶν ; Dionisio,

Exc. leg. p. 2320 principio.

e la manus iniectio, alla quale (tralasciando molte altre osservazioni che ci trarrebbero troppo in lungo) egli pone a base un concetto che fa mutare la fisonomia, a quanto io credo, di tutto il carattere della procedura feziale. Non ho bisogno di rammentare in che consistesse la legis actio per manus iniectionem e come essa fosse il procedimento per la introduzione della esecuzione, fosse questa fondata sopra l'iudicatum o sopra la confessio in iure ('); una necessità quindi per il Danz di rintracciare, fra gli atti precedenti, uno che potesse raffigurare l'iudicatum che deve formare il fondamento giuridico della manus iniectio; e questa sentenza giudiziaria egli la ritrova nella solenne testatio deorum del pater patratus. « La sentenza << utrius sacramenti, iustum o iniustum sia » egli dice (3) « la ha contemporanea<< mente pronunziata il feziale come iuder belli et pacis nella sua testatio deo« rum ». L'errore fondamentale di tutto ciò ognuno comprende come abbia origine nella sbagliata e volgare opinione che fa dei feziali i giudici della guerra e della pace. E d'altronde, volendo ammettere per un istante la verità di questa opinione, si potrebbe forse comprendere una sentenza pronunziata dai feziali prima di partire res repetitum ovvero anche prima della decisiva indictio, ma in questo momento della procedura non si giungerebbe a trovare ad essa alcuno scopo, se non fosse quello di preparare al Danz un argomento necessario per la sua teoria. E si consideri a quante conclusioni assurde tutto ciò condurrebbe; giacchè in un procedimento avremmo una parte nel tempo stesso giudice e parte (i feziali infatti agiscono come rappresentanti diretti del popolo Romano), mentre lo stesso atto rappresenterebbe nel medesimo tempo, secondo il Danz, la contestatio litis (3) e l'iudicatum dell'iudex.

E tutto ciò, che può sembrare questione di forma soltanto, ci conduce a più elevate considerazioni, sul concetto che della guerra si formavano i Romani. Riconosciuto nell'indictio belli un atto corrispondente alla manus iniectio nel procedimento civile, ne viene di necessità di considerare la guerra come l'esecuzione d'una sentenza; esecuzione che ha per fondamento la sentenza feziale, e che viene abbandonata, per il suo compimento, all'opera personale dell'individuo, egualmente come nella legis actio per manus iniectionem; in altre parole la guerra viene considerata così soltanto come un atto di giustizia che la parte da se medesima si procaccia (Selbsthülfe, non nel tecnico significato del diritto moderno), di cui il cominciamento è costituito dalla indictio belli (*). Questa opinione del Danz è conseguente alla partecipazione che era riservata agli dei, secondo quanto egli dice, dal concetto religioso romano. Che l'ira deorum si manifesti regolarmente non già con una intervenzione diretta, punendo gli dei stessi direttamente il colpevole, ma in maniera negativa, talchè colui, a danno del quale è stato rotto il giuramento che fu stretto dinanzi agli dei, non agisce impie et iniuste se da se stesso si vendica, imperocchè gli dei testes gli danno l'occasio ulciscendi, e quindi egli è purus a piaculo se esercita la sua vendetta (5),

(') Anche qui ognuno sa vedere un'obbiezione al parallelo del Danz; ma ho detto che non voglio discendere a esame troppo minuto.

(') O. c. p. 196; vedi pure p. 197. (') O. c. p. 271, i. f. Danz, passim, specialmente p. 47-49.

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() Danz, p. 196-197. (*) Cf.

tutto questo è fondato esattamente sopra l'idea romana, nè alcuno vorrà metterlo in discussione. Ma l'errore del Danz, se non mi inganno, sta nell'esagerare quel concetto, non facendo risultare abbastanza chiaramente un altro lato positivo, che risulta da quella intervenzione negativa degli dei. Come io concepisca l'intervento divino nella guerra, già ebbi occasione di dirlo più volte, specialmente nella introduzione a queste ricerche. Basteranno quindi adesso poche parole. Che la guerra sia una forma del Selbsthülfe non solo, ma la sua maggiore e più completa manifestazione, non v'è bisogno di dirlo. Ma al Selbsthülfe la credenza nell'intervento divino dà una forma speciale ed imprime un carattere nuovo, che deve farci considerare la guerra non già come una esecuzione di sentenza, ma come la maniera mediante la quale la sentenza stessa si manifesta, in altre parole come un vero giudizio di Dio, non differente, nella essenza sua, dal giudizio del giudice umano, e che perciò nel parallelo con il processo civile deve far paragonare la guerra non già al periodo della esecuzione, ma a quello del procedimento in iudicio. Avrebbe ben dovuto por mente il Danz, che, di fatti che provino la credenza romana in un intervento personale e diretto della divinità nella guerra, sono piene le storie; dalla fantastica apparizione dei due guerrieri adolescenti che combattono con i Romani al lago Regillo e che il popolo venera come Castore e Polluce, sino alle invocazioni, di cui quasi ogni battaglia ci offre esempî, che i capitani nel furor della zuffa rivolgono agli dei, promettendo a loro tempî e voti se porgeranno aiuto alle armi romane. In ogni caso la fiducia nella giustizia e nella pietà della guerra, che infonde nei guerrieri tanto sicuro coraggio, è sempre unita con la credenza in un intervento della divinità, sia che direttamente si manifesti, sia che si manifesti indirettamente, crescendo potenza ed ardire a coloro che si credono giusti e pii, ed ai quali gli dei con l'esito della guerra danno favorevole la sentenza; talchè in ultima considerazione l'intervento divino, sia positivo o negativo, si manifesta sempre, nella sua efficacia, come una forma diretta e positiva d'intervenzione. È così che il feziale romano esclama solennemente ai Sanniti ribelli: dixaotai δὲ τῶν μενόντων ἐν ταῖς ὁμολογίας, οἱ λαχόντες πολέμους ἐπισκοπεῖν, ἔσονται θεοί (1); e Livio dice degli dei che « illius belli exitum secundum ius fasque dederunt, et huius dant et dabunt » (*).

Cosicchè, ritornando d'onde siamo partiti, a me sembra che considerando questa procedura internazionale con libera mente, senza voler rintracciare in essa dimostrazioni di altre teorie, si manifestino anzitutto due atti principali, l'uno dall'altro nettamente distinto per mezzo della solenne testatio deorum, nei quali non si può a meno di riconoscere la corrispondenza con quelle due parti maggiori in cui si distingue il processo civile, cioè il procedimento in iure e quello in iudicio, distinti dalla litis contestatio. Differenze intime esistono naturalmente, e dipendono dalla natura stessa della cosa, in quanto che nella procedura internazionale magistrato e giudice si confondono nella divinità, ben diversa d'altronde dal magistrato e dal giudice che decidono sulle liti dei cittadini. Ma ciò non pregiudica minimamente il movimento esteriore delle forme, ciò che a noi veramente interessa. La prima parte della procedura della repetitio rerum ha lo scopo, egualmente come il

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processo in iure ('), di determinare esattamente, con ripetute proposizioni, l'oggetto della materia sulla quale il giudice dovrà conoscere; e di ciò or ora più esattamente. Al procedimento in iure succede nelle antiche legis actiones quell'atto processuale che viene detto litis contestatio, con il quale le due parti invocavano testimonî (*), che rendessero testimonianza di ciò che era accaduto in iure; ed a null' altro che a questo è diretta nella forma e nella sostanza la testatio deorum del pater patratus. La litis contestatio era per tal modo un atto solenne, che rendeva posteriormente legittimo quanto era avvenuto nel procedimento in iure, e che aveva per scopo di determinare quale fosse esattamente il vero oggetto della controversia. E a chi dopo ciò recasse meraviglia di trovare, nella testatio deorum feziale, anzichè l'indicazione delle cose e degli uomini rapiti, come oggetto della lite, la dichiarazione dell'ingiustizia e della pertinacia del popolo avverso, bisogna ch'io dica, anticipando ciò che in altro luogo spiegherò lungamente, che in tutte le controversie nelle quali prendevano parte i feziali, l'occasione del dissidio era offerta bensì, originariamente, dalle prede e dalle scorrerie, ma la vera causa publica consisteva sempre nella violazione del trattato (3) cagionata da una precedente negazione di soddisfazione. E di ciò in altro momento.

Ma, ancora una volta, si tratta d'una analogia generale, benchè ormai veramente più concreta, ma tuttavia sempre a grandi linee soltanto, ovvero possiamo trovare in questa procedura feziale una imagine più diretta e completa di qualche forma di procedimento civile? La circostanza esterna che la clarigatio viene indicata da Livio come una rerum, litium, causarum condictio, e che nel processo civile v'è una legis actio che avviene pure per condictionem, dette occasione al prof. Voigt di considerare più attentamente queste due procedure nelle loro reciproche relazioni, e di istituire quindi fra esse un parallelo che mi sembra più felicemente riuscito (*). Riprendendo infatti in esame quella parte del processo clarigatorio, che possiamo chiamare il procedimento internazionale in iure, il Voigt trova da poter distinguere in esso, alla sua volta, tre parti: 1o l'invocazione di Giove, degli dei dei confini, e del fas; 2o l'esposizione della offesa che il popolo romano diceva di aver ricevuta, e della soddisfazione che pretendeva; 3° l'esecrazione che il pater patratus invocava sopra di sè dagli dei, quando rivolgesse empie ed ingiuste domande. Se dopo il 30° giorno la domandata soddisfazione non era offerta, il feziale invocava solennemente gli dei a constatare la ingiustizia pertinace della città ribelle. Questi tre momenti, spogliati dalla forma religiosa che li circonda, a ciò si riducono: invocazione di testimonî, esposizione delle pretese di diritto al convenuto, cioè al popolo avverso, e citazione di comparire al 30° giorno dinanzi al giudizio degli dei. Or nella legis actio per condictionem si ritrova questo medesimo spazio di giorni nel

(') La soddisfazione data al popolo offeso, in questo primo periodo della clarigatio, è in perfetta corrispondenza con la confessio in iure del processo civile.

() V. Festo, s. v. contestari.

(*) Dico violazione del trattato, sebbene, come ho detto e ancor meglio dirò, quelle funzioni dei feziali non presuppongano necessariamente l'esistenza di un trattato; ma certamente questo era il caso più comune, e in verità ad un trattato esistente sembra che accennino le formule feziali. (') Voigt, o. c. II, § 28, specialmente p. 183 segg.

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