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mente il maravigliarsi e il dire che di lui si farebbe per tutto il mondo: che Procunioci in sua vecchiezza, dopo tanti studi e tante penitenze, quando già era nell' interpretazione della legge un oracolo, e nella perfezione della vita un santo, ravvedutosi, confessava d'essere stato fino a quell'ultima età ingannato per sè, e per altrui ingannatore; e quanto avea appreso, e quanto avea insegnato, disdiceva e ritrattava; e di maestro ch'era de'più savi bramani e giogui, si faceva discepolo e fanciullo fra' cristiani. Ma ancor di questo laccio Iddio le sviluppò mostrandogli una tal maniera di mettere in fatti il suo proponimento, che ne stesse in capitale eziandio la sua riputazione. Con ciò i padri l' ebbero in mano, e sel raccolsero in casa per ammaestrarlo in quel rimanente che gli conveniva intendere de' divini misteri. Intanto i bramani e i giogui, saputone, accorrevano a molti insieme a guisa di storditi a richiederlo, onde e perchè quell' improvvisa mutazione? Ed egli in dar ragione di sè, illuminava essi sì chiaramente, ed in pochi dì ne guadagnò a Cristo e ne condusse ai padri più di cinquanta. E questi anche essi ammaestrati e non ancor bene interamente discepoli, uscivano a predicare, come maestri, nel popolo, con sì grande acquisto d'anime, che quegli che pur ancora volean durare nell'antica perfidia ostinati, dicevano che conveniva mutar paese, andare a vivere dove i padri non apparissero; altramente quivi non sosterrebbono (1) lungo

(1) Susterrebbono, non durerebbero, non reggerebbero.

tempo senza rendersi cristiani. Così adunata e bastevolmente istrutta una numerosa moltitudine di convertiti, capo di tutti il bramane Procunioci, si battezzarono. Tutta la cristinianità di Bazain v'intervenne, e fu la solennità e l'allegrezza con le più rare dimostrazioni d'affetto che mai in altro battesimo si vedessero. Alcuni proprie spese riccamente vestirono chi due chi tre de' più poveri convertiti; e taluni in sua parte ne volle otto e nove. Il bramane principale si nominò al battesimo Arrigo, e riuscì per gran merito di virtù tanto degno di vivere all'esempio del publico, che caduto indi a non molto in malattia mortale, gli si mostrò in visione una matrona in sembiante e in maestà di principessa, che spruzzatolo d'un puro liquore, incontanente il sanò, dicendogli, quella esser dell'aequa che i sacerdoti nostri benedicon, e l'usano i fedeli avessela in pregio: ch' ella era non meno alla salute dell'anima, che alla sanità del corpo giovevole. Cosi egli medesimo raccontò a' padri, venuto il dì stesso a mostrarsi loro interamente sano e a chiederne un vasello. BARTOLI, Asia.

XXXIV. Morte del Cubosama (1).

Era quel principe, per natural sua tempera, di buon cuore e mansueto, ma nondimeno senza, il terrore dell'armi, bastante col senno a mantenersi in pace lo stato, quale già da diciotto anni il godeva. Non così i due principali ministri. Mioscindono re anzi tiranno del regno di Cavaci (2) da lui usurpatosi con la forza dell'armi e Daiondono. De' quali il primo era snpremo reggente dell' imperio, l'altro minore in grado, avvegnacchè in nobiltà più che pari: ma uomo bestiale e da non aspettarne altro che l' orribile tradimento che machinò. Nè il Cubosama, per accorto che fosse, il potè antivedere; chè il traditore era troppo destro in simularsi fedele. Questi dunque, quali che (3) si fossero le speranze che avea nella morte del suo signore, sommosse Mioscindono a far seco giura (4) di ucciderlo; e convenutosi amendue nel fatto, solo attendevano che il tempo desse loro opportunità ad eseguirlo. E la diè, senza avvedersene, il Cubosama, innalzando Mioscindono a certo nuo

(1) Cubo, significa in lingua giapponese capitan generale, a cui aggiunto per onore il vocabolo sama, che vale quanto signore, se ne formò l'intero titolo di Cubosama Era il sovrano del Meaco e de' regni d'intorno... Bartoli, Asia lib 3. Meaco è città del Giappone nell'isola di Niphon, un giorno capitale di tutto l'impero.

(2) Cavaci provincia del Giappone in Niphon, si detta da Cavaci sua città principale.

(3) Quali che, qualunque. Vedi Cinouio cap. 216 S. 11.

(4) Giura, di qui il nome composto, congiura

vo grado di più riguardevole dignità. Allora egli in sembiante di venire alla grande per più onor dell' imperadore, a fargliene il debito ringraziamento, s' apparecchiò in armi; e con dodicimila soldati, e Daiondono appresso, si accampò lungi una lega dal Meaco, e quindi per un suo di corte, mandò pregandolo, di ricevere da lui, rendimento di grazie e per segno della sua divozione, un desinare. Di tanto poco senso immaginava costui che fosse il Cubosama, che non avesse a sospettare di lui, nè chiedere a se medesimo, che avea a fare un esercito per un convito? Ma questi non ebbe bisogno di chi gl'interpretasse il mistero di quelle parole, e si fe presto a fuggirsene, e s'avviò, con seco i pochi che avea di corte e quattrocento di guardia: ma da alcun suo consigliero: più animoso che savio, persuaso che viltà era alla maestà d'un suo pari, mostrarsi smarrito a un' ambasciata di cortesia, e fuggire senza aver chi lo cacci, tornò a rimettersi in corte. E il troppo cuore costò la vita a lui e a chi tanto fuor ragione glie l'avea fatto. A dicessette (1) di giugno i congiurati, a

(1) La forma primitiva. sarebbe dicci e sette o diecisette il Bartoli usa scrivere dicesette o dicessetle (abbiamo noi in bocca ognidì); il Muzio battagliò a favore di dicisette che è pure approvato dal Bartoli, Ortogr. cap. XV. §. 1. verso il fine. Ma egli dà pure diciasette, che è il modo oggi insegnato dai inigliori grammatici, e usato da più corretti scrittori. Quel toglier l'e dal dieci, il porre un a fra le due parole (il che segue pure in tuttaddue, tullatrè ec. che alcuni usarono, ed anche il Gozzi, per tutti e due, tutti e tre ec.) e il raddoppiamento del s' sono giuochi della pronuncia ( del tempo almeno in cui

tamburo battente, entrarono nel Meaco, e in forma d'assedio cinsero il palagio del Cubosama, ch'era tutto intorno affossato, e vi si entrava per un ponte levatoio. Quivi fattosi il padre della reina a richiedergli in nome dell' imperadore: a che far quivi in arme? e se quello era il rispetto che i sudditi debbono al lor signore? Mioscindono gli presentò uno scritto, in cui chiedeva, gli si mandasse la testa della reina e di certi altri che ivi si nominavano, e partirannosi. Il vecchio, letta la domanda di doversi uccidere sua figliuola, gittò lo scritto, e corso dov'era il Cubosama, senza altro dire che tradimento: quivi innanzi a lui si segò la pangia (1), e gli cadde morto a' piedi. Ciò veduto, quattro altri nobilissimi cavalieri, corsi con le catane (2) ignude in mano, si mostrarono a' nemici sulla porta del palagio, e quivi anch'essi, segatosi a vista. d'ognuno il ventre, si ammazzarono (3). Allora Mioscindono fe metter fuoco al palagio, e il Cubosama ne uscì con certi pochi de' suoi, per combattere, e se non altro, almeno morir da uomo, con la spada in mano. Ma quanto al combattere, non gli venne fatto; così tosto gli furon sopra i ribelli, e con una

si formò la lingua ), e non dian noia: che in ogni lingua si vedono. Anche diciannove è il modo oggi preferito.

(1) Segarsi colle proprie mani il ventre è presso i Giapponesi i morire da nobile: il che altresì han`no in grazia di poter fare i condannati dal pubblico, acciocchè nè mano nè ferro di carnefice non gli tocchi.

(2) Catana, specie di arma usata da'Giapponesi. (3) Ministri della religione in que' luoghi.

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