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non le avrebbono così frequenti. Non si dee fare. Diranno anche spesso: Non vuol farsi, ovvero Non istà bene di farlo. Nè sempre diranno: Sono alcuni che credono ma spesse volte Son di quelli che credono; nè sempre: Vicino a quell' isola, ma anche Vicin di quell' isola. E quante volte volendo dire: con condizion che tu facci, diranno; Così veramente che tu facci. E in vece di dire: potrei nominar molti; diranno; potrei nominar di molti. Nè sfuggiranno di dire: La neve ruppe ad uno scoglio, volendo dire; La neve si ruppe. Nè: I miseri annegarono, in vece di dire: 1 miseri si annegarono. Ed ameranno molte volte di dire: Son presto di farlo, più tosto che; son pronto a farlo.

Queste ed altre infinite maniere simili a queste, possono di leggieri avvertirsi in tutti gli scrittori eccellenti massimamente nel Boccaccio, che è fra tutti eccellentissimo. Leggendo i quali, piacerebbemi che si osservasse ancora la sceltezza, e la collocazione delle parole, e il numero, e l'andamento di tutto il discorso, le quali cose hanno ancor esse un certo loro idiotismo. La giovane d'essere più in terra, che in mare niente sentiva; dice Boccaccio. Io che non so quelle grazie, e ne sono del tutto privo come ognuno, leggendo il presente trattato, potrà conoscere, avrei detto: La giovane, non si accorgeva se fosse in terra o in mare; il che sarebbe detto grossolanamente. Il Boccaccio invece 'di dire; non si accorgeva, dice: niente sentiva, che è modo di dire più scelto; e dispon le parole e il sentimento tutto con molta maggior vaghezza. E quantunque queste avvertenze

possono parer frivole (e certo che prese, ognuno da sè sola, son di pochissimo e quasi niun momento); ad ogni modo non debbono trascurarsi, perciocchè, usate a tempo e con giudicio, tutte insieme danno al discorso quel colore di urbanità, che tanto piace.

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Nè dico io già che lo scrittore debba avere tutte le parole sceltissime, nè possa mai dir cosa naturalmente e così appunto, come si direbbe senza studio; perchè questo sarebbe affettazione, la quale è vizio e peste e veleno di ogni cosa. Però voglio che egli usi le vaghezze proprie della lingua discretamente, e le sparga nel suo discorso per modo, che paiono da sè venute, e non ricercate. Il che forse gli avverrà, se avendole prima raccolte nell'animo e rendutesele con lo studio famigliari, scrivendo poscia userà quelle che gli verranno in mente da loro stesse; perchè così non essendo ricercate, pur parranno (1). Nè voglio che egli usi forme che son tanto antiche, che oggimai paionɔ strane, e offendon le orecchie del popolo, quantunque forse non offendessero ai tempi del Boccac

(1) Ma se come può di leggieri avvenire a chi molto studio nei classici) ti si offerano alla mente in soverchio numero, dovrai alcune evitarne, o quan do rivedi lo scritto, diradarle aggiustatamente. Perciocchè, come i condimenti nelle vivande, se troppi sieno, o affatto le rendono disgustose, o presto sa. zievoli, così avviene degli ornamenti nel discorso. Dice Tullio ( De orat. Lil, 97 ), genus dicendi est eligendum, quod maxime teneat eos qui audiunt, et quod non solum delectet, sed etiam sine satietate delectet.

cio; nè che usi frequentemente quelle maniere, che usate furono da'migliori scrittori rade volte.

E similmente vorrei che la collocazione delle parole fosse facile e naturale, ne sfuggisse però quelle frapposizioni e intralciamenti, che usaron gli antichi, e che posson soffrirsi dal popolo anche oggidì; perchè il popolo, siccome io credo, amerà bene che uno dica: È cosa umana aver compassion degli afflitti: ma niente però si offenderebbe, se altri dicesse ; Umana cosa è aver compassion degli afflitti, che in vero è detto meglio, e ha maggior gravità. E certo che il variar l'ordine delle parole serve mirabilmente a variar gli stili; e massime ove diasi al sentimento un lungo giro, accresce di gran lunga la maestà del discorso. Però questo costume che ebber gli antichi di sospendere per lungo tratto il sentimento e variar la disposizione delle parole, dee ritenersi, quanto si può. Dico, quanto si può; perchè se si usassero tutte quelle sospensioni e frapposizioni che usaron gli antichi, le persone, che più non vi sono avvezze (colpa forse degli scrittori, che le hanno da lungo tempo in gran parte dismesse) non così agevolmente le intenderebbono. Bisogna dunque servirsene mezzanamente o usar quelle soltanto, che non danno fatica a chi ascolta. E io credo, che i Franzesi le rifiutano tutte, eziandio quelle che noi pure usiamo in ItaEa tutto 'l dì, solo per non dar fatica alle lor donne, che difficilmente gl'intenderebbono. Bisogna però dire che le Italiane abbian l'ingegno più sciolto e più spedito che le Franzesi non hanno; e molto più fossero pronte le donne

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greche e le romane che pur intendevano senza pena Demostene e Cicerone.

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Ma tornando alle proprietà, e per usar sempre lo stesso nome, agl' idiotismi della lingua io non so perchè alcuni, tenendogli in tanto pregio nelle altre lingue (chè sappiamo, quanto conto ne fanno nella latina, a quanto ne son gelosi nella franzese ), niente gli curino nell'italiana. Anzi son di quegli, che più oltre procedono, e van cercando con sommo studio tutte le forme, che sono idiotismi nell' altre lingne, e le trasportano nella loro, dove non sono, van dicendo, ch' ei bisogna arricchir la lingua; e che quelle forme che non sono ora idiotismi, come saranno domesticate dall'uso, diverranno idiotismi ancor esse. A' quali io rispondo, che io non so che gran guadagno si faccia la lingua, se introducendovi le forme forestiere, va prendendo a poco a poco le sue. E quanto al dire, che le forme che non sono ora idiotismi, saranno forse una volta, questo è lo stesso, che voler fare ora le scritture brutte con la speranche una volta diverran forse belle. La quale speranza è molto incerta e fallace. E quindi è, che non dee l'uom arrischiarsi se non rade volte, di formar nuove voci, e di introdurre le forestiere, o richiamar quelle, che già sono da lungo tempo in disuso e allora solo dovrà farlo, quando avrà qualche ragione di sperare, che possan quelle una volta diventar belle, e di più si considera di aver data per altro alla sua scrittura tanta grazia o leggiadria, che quand' anche due o tre voci fossero per istar male, non dovesse però quella essere in gran pericolo.

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Laonde è stato detto, che l' introdur parole nuove o forestiere o disusate, è solo de' grandi uomini. Ma già mi accorgo di aver detto circa la proprietà della lingua più che io non volea. Torniamo ora a quei tre stili, che sopra furon proposti, cioè il grande, l'umile e il mezzano; e veggiamo, di che si componga ciascun di loro. F. M. ZANOTTI, ivi.

III. Dello stil grande.

Lo stil grande, che talor nobile ed alto si chiama, ed ora grave ed or magnifico; si compone di sentimenti grandi altresì e nobili, espressi con parole e forme di dire, alla grandezza e e nobiltà loro convenienti. Ben gli stanno le figure più splendide, o le sospensioni lunghe, e che ben cadono, o con maestoso suono all'orecchio. Molti hanno raccolto con somma diligenza le parti eziandio più minute, di cui si compongono tutti gli stili, senza lasciar quello di cui ora parliamo, assegnando a ciascuno, certo numero, certa misura di parole o di sillabe; e fino la qualità delle lettere. Ermogene (1) fu eccellente in queste minutezze. Noi però non crediam necessario andar tanto innanzi. Basta bene, che il discorso grande e magnifico se sarà veramente tale; presentandosi all' animo, si farà tosto conoscere per sè medesimo.

Nè perchè uno far voglia alcun tratto del suo discorso in stil grande, dovrà egli per ciò raccorre in esso tutte le parti della grandezza, nè

(1) Retore grecó.

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