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IX.

Memini perturbari exercitum nostrum religione
et melu. Cap. XV.

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Narra qui l'Africano che trovandosi nella macedonica spedizione capitanata da Paolo Emilio suo padre, mentre stavano negli accampamenti, d'improvviso di nottetempo oscuratasi la luna che a ciel sereno e in sua pienezza luceva, tutto l' esercito fu di religiosa paura sopraffatto. Della qual cosa venuto a contezza Paolo Emilio, il di seguente parlamentò ai soldati; e avendo fatto conoscere come ciò naturalmente accadeva, e per conseguenza non essere indizio di verun sinistro, rassicurò l'eser cito, e lo rifece animoso di combattere e vincere la giornata . Dove è da notare in primo luogo, che non fu certo facile cosa (come qui sotto dice anche il nostro autore) riuscire a persuadere que'rozzi e ignoranti uomini, che l'oscuramento avvenuto non era fuori del corso naturale, nè perciò punto temibile. Certo a riuscirvi bisognava che il capitano fusse di molto senno e di eloquenza; e (che più importa) in molto credito appo i soldati, di qualità che al tutto confidassino nella prudenza sua. La qual cosa, dico la buona opinione nell' universale, è massimamente necessaria a tutti coloro i quali tengono civili magistrature e il grave ufficio di soprastare e indirigere altrui. E come potrebbono conseguir sempre gl' intenti, e far rispet tare e di buona voglia obbedire i loro ordinamenti e consigli, se non fussero in riputazione di probità, di rettitudine, di saviezza? — Un'altra cosa da considerare è, che il volgo (e volgo in questo caso non è la sola plebe misera e pezzente; vulgus appello etiam togatos, diceva Seneca; anzi nel mondo, per sentenza del segretario di Firenze, non è se non volgo): questo volgo dico, è stato sempre solito turbarsi per superstiziosa paura tutte le volte che sono ricorsi simiglianti fenomeni. E la ragione è principalmente, secondo dicono alcuni filosofi, perchè siccome l'umana mente è per nativo istinto tratta a sapere e cercare le cause a fine di conoscere il perchè degli effetti, cost quando 14

REPUBBLICA DI M. T. CICER.

per la ignoranza a questo non aggiunge, imita i tragici poeti, i quali per isvilupparsi dagli orditi intrighi, ricorrono agli dii cui fanno in sulla scena venire per isciogliere il nodo. Per la qual cosa nei tempi d'ignoranza, tutto fanno gl' iddii, e le seconde cagioni non sono considerate punto. All' opposito, vediamo nei tempi di molta civiltà, nei quali gli uomini usano a oltranza della ragione, tutto farsi derivare da naturali cause, e gl' iddii placidi e tranquilli si imaginano riposare nel cielo. Parlo, come è manifesto, secondo il linguaggio della mitica teologia del resto, la cattolica dottrina sul proposito insegna che, mentre le cause seconde operano giusta il primitivo impulso del l'eterno Motore (salvo quando per suoi altissimi fini piacciagli sospendere il natural corso delle cose), e le cause libere liberamente esercitano le lore potenze ed emettono i loro atti, lo stesso divin Motore regge e conserva l'universo; e noi sue creature in lui viviamo, ci moviamo e siamo; perciocchè da lui e per lui e in lui tutte le cose sono. Ora, ripigliando col primo andamento le fila del discorso, siccome le rozze genti stimavano gl' iddii essere l'immediata cagione di tutti i naturali avvenimenti, e che l' uomo fusse l'unico e principale oggetto di tutta la natura, la quale operi ogni cosa per lui; così quando strani e singolari accidenti apparivano, se fossero giovevoli, ciò era perchè i celesti facevano volgere propizie le sorti agli umani. Se poi que' necessari fenomeni, nell' ordine dell' universo incatenati, perturbavano le umane cose e recavano agli uomini detrimento, essi li attribuivano all'ira degli dei, e ne prendevano religioso sbigottimento. Da ciò si desume che avvenendo che il sole o la luna si ecclissasse, gli uomini vulgari i quali non conoscevano la causa di questo fenomeno, sospicando non forse una perpetua tenebra gli avesse da involgere, ne venivan commossi e perturbati, come di evento terribile, e ancora come di presagio a più terribili ed infausti eventi. E a ragione; dap poichè Plinio reputa la eclissi del sole e della luna rem in tota contemplatione naturae maxime miram et ostento similem.

X.

Lex naturae vetal, ullam rem esse cuiusquam,
nisi eius qui tractare et uti sciat. Cap. XVII.

La comun legge di natura vieta la proprietà delle cose a colui che possedere e usare non le sappia. Tal suona la tulliana sentenza al tutto verissima, in quanto che la vera proprietà consiste nel savio uso delle cose possedute: sendochè, come dice quel gentile autor del dialogo intorno al Governo della famiglia, per tanto sono le cose della fortuna nostre, quanto ella ce le concede e quanto noi l' usiamo. E veramente a che pro le ricchezze, dice anche il poeta filosofo, se non mi è concesso farne uso? Quo mihi divitiae, si non conceditur uti? Che vale nuotar a gola nell' abbondanza, se poi per i morbi che ti affliggono, se' costretto trapassar la vita privandoti di tutto ciò che la vita stessa rende prospera e piacevole? Che vale nuotar a gola nell' abbondanza, se poi per una gretta e stupida avarizia che ti fa crudele eziandio verso te stesso, vivi non pure in soverchia parsimonia, ma talora anche in miserissime distrette? Così l'uno come l'altro rendono la somiglianza di quel Tantalo il quale immerso tra l'onde che fuggenti gli lambiscono le labbra, arde disperatamente dalla sete. Tantalus a labiis sitiens fugientia captat flumina. Con questo sustanziale divario: che dove l'infermo è impedito dell'usar sua ricchezza, e in ciò è degnissimo di compassione, l'avaro nè sa nẻ vuole nè s'induce a usarla; e in ciò gli è debita, non so se io mi dica più, la compassione o il vituperio. Certo con parole di altissimo dispetto favella Dante di questi cotali cui mal tener tolse il bene dell' intelletto e cacciò nell' inferna bolgia, dove

La sconoscente vita che i fe' sozzi

Ad ogni conoscenza or li fa bruni:

si che neppur egli il divino poeta che i tre regni visitava, potè alcuno di que' sciagurati riconoscere .

XI.

Imperia consulatusque nostros non praemiorum aut gloriae
causa appetendos etc. Cap. XVII.

Indegna cosa è dell'uomo d'onore e tenace del proposito togliersi ai civili incarichi e porre giù il comando, accadendo che qualche grave cagion di pericolo sovrasti: ciò è chiarito al N. VI di queste osservazioni. Ma indegnissima cosa è dell'uomo onesto e dabbene assumere i maestrati e salire alle dignità per boria di parere e potere, per cupidità di guadagno, o per altri intendimenti di privato interesse: ciò è detto in questa sentenza di Tullio. E coerentemente a questo anche sant'Agostino disse: Nec rempublicam gerere criminosum est: sed ideo agere rempublicam ut rem familiarem potius augeas, videtur esse damnabile. Anzi non solo contennendo è amministrar la cosa pubblica all'oggetto di augumentare la privata; ma eziandio turpe cosa è, scelerata e nefaria, per detto dello stesso M. Tullio, tener così a lucro le magistrature ed i carichi dello stato. Habere quaestui rempublicam non modo turpe est, sed sceleratum etiam et nefarium. Ammessa la verità di questa sentenza (chi poi oserebbe rivocarla in dubbio?) oh, di quanti scelerati e nefarii uomini è pieno ogni cosa!

XII.

Homines esse solos eos, qui essent politi propriis
humanitatis artibus. Cap. XVII.

Uomini essere e potersi dire solamente coloro i quali sieno ornati dei pregi e delle qualità proprie dell'umanità; gli altri aver d'uomini il nome, ma veramente uomini nè essere nè potersi con tutta proprietà chiamare: dice il tulliano luogo. Ora se facciasi ragione di tutte quelle cose che l'autore qui appella arti proprie dell' umanità, e si chiamino a rassegna gl'individui dei varii ordini sociali; quanti crediam noi che si troverebbono ornati veracemente di codeste arti proprie della umani

tà? Diogene, quel celebre filosofo che per la indole mordacissima ebbe da' cani il nome e fu detto cinico, ben molti lo riputarono a ragione un bisbetico di prima classe, un balzano ed eteroclito cervello: ma il certo è che i suoi e detti e fatti sono stati ricordati e molto opportunamente all'uopo citati in tutte le età; come quelli che contengono, o implicito o esplicito, qualche gran documento. Or io non vorrei che al proposito nostro venisse tempestivo ciò che Laerzio racconta di lui, che un tal giorno avendo l'arcigno filosofo in pubblica piazza preso a bociar alto, accorr' uomo, accorr' uomo, e moltissimi a quella chiamata essendosegli intorno accolti e stivati; egli il filosofale baculo cominciò menar a tondo, e cacciolli via tutti dicendo, sè uomini aver chiamato, non sentine di vizi e sozzure.

XIII.

Semper mihi et doctrina et eruditi homines . . . placuerunt. Cap. XVII.

...

Parole degne veramente di chi siede in alto, reggitore dei popoli. Di ciò bene ebbero intenzione que' due imperatori che sancirono la legge riferita nel codice teodosiano: Ne literaturae quae omnium virtutum maxima est, praemia denegentur, eum qui studiis et eloquio dignus primo loco videbitur, honestiorem faciet nostra provisio. Pieni son poi tutti i libri (per parlare con ciceroniane espressioni in cosa magnifica), piene le voci dei sapienti, piena di esempi l'antichità, da non dover punto dubitare che assai delle volte principi ed altri potenti proseguirono di benevolenza, di onori e di amplissimi guiderdoni i dotti e sapienti uomini. Ed ecco perchè molti di coloro che tennero signorie, vivono anche di presente in buona e onorata memoria: perciocchè intesero a graduirsi gli scrittori; i quali, siccome aborrenti per lo più da basse adulazioni e piacenterie, così virtuosi e riconoscenti, a que' benemeriti dal cui patrocinio fur promossi i buoni studi e le gentili arti, procacciarono gloria presso i posteri, anche all' intendimento di lasciare imitabili e degni esempi. — Oh, mal provveggono alla propria riputazione coloro che, a vece di amare e favorire le scienze e le arti,

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