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menti intorno alle cose celesti che poco erano in grado a Scipione e delle quali l'umana mente non aggiunge le cause, nel turbamento in che aveano i Gracchi posta la repubblica, a Lelio sembrava spediente che su tale proposito si tenesse ragionamento ondechè, rivolto all' Africano, di ciò lo prega (XIX, XX). La quale proposta sendo da tutti approvata, nè da Scipione rifiutata, viensi a trattare il divisato tema politico (dal XXI al XXIII). Premesso, che a definire la natura del subietto non intende riandare le prime origini della umana società (XXIV), discende l'Africano a stabilire che repubblica vuol dire ed è cosa del popolo, adunato in comunanza di vita (XXV). Il popolo poi, così congregato per un naturale bisogno di vivere in società, deve essere diretto da un certo consiglio, o vogliam dire reggimento o governo; il quale si attribuisce o ad un solo ed è il re, o a parecchi scelti e sono gli ottimati, o alla moltitudine (XXVI). D'ognuno di questi reggimenti accenna i difetti, nei quali possono incorrere (XXVII, XXVIII); d'onde poi la facilità dei mutamenti (XXIX). E dimandato da Lelio quale delle accennate forme di repubblica stimi l'ottima, l' Africano espone dapprima i vantaggi di ciascuna, cominciando dallo stato popolare (dal XXX al XXXIV): quindi facendosi a rispondere più diretto alla inchiesta di Lelio, stabilisce, niuna di esse, in se considerata, doversi riputare ottima: ottima, a suo giudizio, esser quella che risulti dalla mescolanza di tutte e tre (XXXV): la quale opinione dell' Africano rispondeva all' intendimento precipuo che Tullio ebbe nel dettare quest'opera, e che era di ricondurre i Romani agli antichi instituti. Al che ostando principalmente l'odio che in essi tuttavia durava contro il nome di re, così Scipione provasi ora con lungo e vario ragionamento a mettere in sodo, come a un civile reggimento giovi che un solo tenga la somma delle cose (dal XXXVI al XLI). Appresso ciò, ripigliando a parlar più di proposito intorno alle vicissitudini e mutazioni degli stati, dice che, ove il re divenga tiranno, d'ordinario è cacciato o morto per opera degli ottimati, o anche talvolta per opera della moltitudine (XLII): e quando accada per opera della moltitudine, facilmente trapassarsi alla licenza (XLIII): e dalla licenza di nuovo generarsi la tirannide (XLIV). Per ultimo accennate le ragioni ond' egli tiene, ottimo di tutti i governi essere il misto, conchiude che di questa forma era l'antica repubblica di Roma (XLV): della quale impromette voler di proposito ragionare, e proporla come 'norma ed esempio di perfetto reggimento civile (XLVI). Avendo Lelio sommamente commendato il pensiero dell' Africano come degnissimo di lui, ha fine il presente libro (XLVII).

I.... Impetu liberavissent (1); nec C. Duellius, A. Attilius, L. Metellus, terrore Carthaginis; non duo Scipiones oriens incendium belli Punici secundi sanguine suo restinxissent; nec id excitatum maioribus copiis, aut Q. Maximus enervavisset, aut M. Marcellus contudisset, aut a portis huius ur

Capo I. . . .

Ne C. Duilio, A.

Attilio, L. Metello avrebbono senza ciò liberato Roma dal terror di Cartagine; nè i due Scipioni estinto col proprio sangue il nascente incendio della seconda guerra pu nica: nè poscia, per maggior nerbo d'eserciti raccesa, avrebbela o Q. Massiino sgagliardata o M.

(1) Nella prima parte di questo periodo sembra che Cicerone dovesse aver nominato altri romani, i quali nelle precedenti guerre si erano resi illustri : laonde può forse, a giudizio del Mai, così supplirsi: Non Italiam M. Camillus, nec M. Curius, C. Fabricius. Ti. Coruncanius Pyrri impetu, etc. Anzi molto più indietro, secondo lo stesso Mai, risalì forse l'autore a far rassegna degli eroi di Roma: di che può essere indizio ciò che egli ragiona nel 1. delle Tusculane, cap. 37.

bis avulsum P. Africanus compulisset intra hostium moenia. M. vero Catoni, homini ignolo et novo, quo omnes, qui eisdem rebus studemus, quasi exemplari ad industriam virtutemque ducimur, certe licuit Tusculi se in otio delectare, salubri et propinquo loco. Sed homo demens, ut isti putant, quum cogeret eum necessitas nulla, in his undis et tempestatibus ad summam senectutem maluit iactari, quam in illa tranquillitate atque otio iucundissime vivere. Omitto innumerabiles viros, quorum singuli saluti huic civitati fuerunt; et qui sunt haud procul ab aetatis huius memoria, commemorare eos desino, ne quis se, aut suorum aliquem praetermissum queratur. Vnum hoc definio, tantam esse necessitatem virtutis generi hominum a natura, tantumque amorem ad communem salutem defendendam datum, ut ea vis omnia blandimenta voluptatis 'otiique vicerit.

II. Nec vero habere virtutem satis est, quasi artem aliquam, nisi utare. Etsi ars quidem, quum ea non utare, scientia tamen ipsa teneri potest; virtus in usu sui tota posita est. Vsus autem eius est maximus, civitatis gubernatio, et earum ipsarum rerum, quas isti in angulis personant, reapse, non oratione, perfectio. Nihil enim dicitur a philosophis, quod quidem recte honesteque dicatur,

Marcello rispinta, o dalle porte di questa città strappandola P. Africano infra le mura dei nimici ricacciata. Ben poi a M. Catone, uomo ignoto e nuovo, dal qual tutti che alle stesse cose vachiamo, come da esempio siamo a industria e virtù guidati, fu concesso pigliar diletto agli ozi di Tusculo, luogo propinquo e salubre. Ma quest'uomo dissennato, secondo il costoro avviso, mentre niuna necessità lo premeva, amò anzi tra così fatte onde e prócelle fino all'estrema vecchiezza perigliarsi, che in quella tranquillità e in quegli ozi tradurre giocondissimamente la vita. Taccio d'innumerevoli uomini, o*gnun de' quali fu a questa città di salvezza; e rimangomi del rammentare coloro che non lungi sono dalla memoria dei presenti tempi, acciocchè niuno abbia a dolere o se o alcuno de' suoi pretermesso. Quest'una cosa stabilisco; cotanto essere il bisogno di virtù dato da natura all'uman genere, e si vivo l'ardore per la difesa della comune salvezza, che tale istinto superò tutti gli allettamenti della voluttà e del riposo.

H. Ma non basta posseder virtù, come fosse un'arte, se tu non la usi. Quantunque per vero dire l'arte, ancora che non usata, può per iscienza possedersi: virtù è tulla nell' uso riposta. E suo massimo uso è il civile reggimento; e di quelle stesse cose, che costor vanno quinci e quindi gridando, a fatti, non a parole, l'adempimento. Perciocche nulla intorno a rettitudine e

quod non ab his partum confirma. tumque sit, a quibus civitatibus iura descripta sunt. Vnde enim pietas? aut a quibus religio? unde ius aut gentium, aut hoc ipsum civile quod dicitur? unde iustitia, fides, aequitas? unde pudor, continentia, fuga turpitudinis, appetentia (1) laudis et honestatis? unde in laboribus et periculis fortitudo? Nempe ab his, qui haec disciplinis informata, alia moribus confirmarunt, sanxerunt autem alia legibus. Quin etiam Xenocratem ferunt, nobilem in primis philosophum, quum quaereretur ex eo, quid assequerentur eius discipuli, respondisse, ut id sua sponte fecerent, quod cogerentur facere legibus. Ergo il le civis, qui id cogit omnes imperio legumque poena, quod vix paucis persuadere oratione philosophi possunt, etiam his, qui illa disputant, ipsis est praeferendus doctoribus. Quae est enim istorum oratio tam exquisita, quae sit anteponenda bene constitutae civitati publico iure et moribus? Equidem, quemadmodum urbes magnas atque imperiosas, ut appellat Ennius, viculis et castellis praeferendas puto; sic eos, qui his urbibus consilio atque auctoritate praesunt, his, qui omnis negotii publici expertes sint, longe duco sapientia ipsa esse anteponendos. Et quoniam maxime rapimur ad opes augendas ge

onestà dai filosofi si dice, che non derivi e si confermi per coloro dai quali fur prescritte leggi alle città. E in vero, d'onde a noi viene la pietà? d'onde la religione? onde il diritto delle genti, o questo stesso che appellasi civile ? onde la giustizia, la fede, l'equità? onde il pudore, la temperanza, l'odio della turpitudine, il desio della lode e della onestà? onde nei travagli e pericoli la fortezza? Certo da coloro che dopo aver queste cose con naturali documenti insegnate, alcune per consuetudini confermarono, altre per leggi sancirono. Anzi è fama che Senocrate, filosofo, tra i primi egregio, chiesto che cosa i suoi discepoli apparassero da lui, rispose: a fare liberamente ciò che per le leggi dovrebbono. Impertanto quel cittadino, il quale col comando e colla pena delle leggi tutti costringe a ciò che i filosofi ragionando appena persuader possono a pochi, eziandio fra coloro che queste cose disputano, è agli stessi dottori da anteporre. Avvegnachè qual'è il costor ragionamento cosi squisito, che debba preporsi ad una città per pubblico diritto e per costumi ben costituita? Per fermo, siccome le grandi città e imperiose, secondo l'espressione di Ennio, reputo che sieno da preferire alle umili borgate e alle castella; similmente coloro che ad esse città per consi

(1) La voce appetentia è qui adoperata in buon senso in contrario senso si adopera da Cicerone stesso altrove, come a cagion d'esempio, nel IV delle Tusculane, cap. 7...

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glio ed autorità presiedono, stimo che debbansi per lunga tratta preporre eziandio per sapienza a quelli che sono d'ogni pubblica faccenda ignari. E conciossiache siamo potentemente tratti ad augumentare le ricchezze dell' uman genere, e coi nostri ammonimenti e travagli ci proviamo render la vita degli uomini più sicura ed opulenta, e a così fatto appetito siamo per gli stimoli della stessa natura incitati, teniam quella via che sempre fu di ciascun ottimo; né diamo udienza a que' segnali che appellano a ritirata: cotal che eziandio coloro tornino indietro i quali già procederono nel cammi

no.

III. A queste ragioni, tanto certe e manifeste; oppongonsi da coloro che disputano in contrario, primamente le fatiche che nel difender la Repubblica è d'uopo sostenerė. Lieve impedimento per

(1) Questa espressione è dal greco 6105 avoрwπwv, ed equivale à genere umano. Il Villemain traslata existence humaine, e in nota aggiunge, essere considerabile il presente luogo; poichè il concetto di promuovere l'incivilimento di tutta l'umana famiglia a fine di elevarla a un grado più sublime di perfezione, è anzi singolare che raro appresso gli antichi scrittori.

(2) Altri, e il Mosero fra questi, legge voluntatem: e nota che nel caso presente sarebbe impropria la voce voluptas e però non degna di Cicerone, studiosissimo sovra tutti della proprietà della lingua. Ma, con buona pace di lui e degli altri che sentono con lui, a noi non sembra punto improprio tal vocabolo, si anzi di un significato filosoficamente vero e profondo. Gli è ben certo che quello noi procacciamo mediante il consiglio e la fatica, procede propriamente da volontà e non da voluttà: ma certo è puranche, che tali atti, ancora che spesso accompagnati da sforzi e travagli, contengono una tale soavissima dilettazione, della quale più partecipano quelli che del ben fare più hanno intelletto. E forsechè l'esercizio delle più ardue virtù costa pochi sacrifizi? Eppure, che sublime e purissima voluttà non è in tale esercizio! Laonde noi riteniamo la parola voluptatem come quella che inchiude un più nobile e degno concetto.

strio; neque solum in tantis rebus, sed etiam in mediocribus vel studiis, vel officiis, vel vero etiam negotiis contemnendum. Adiunguntur pericula vitae, turpisque ab his formido mortis fortibus viris opponitur: quibus magis id miserum videri solet, natura se consumi et senectute, quam sibi dari tempus, ut possint eam vitam, quae tamen esset reddenda naturae, pro patria potissimum reddere. Пllo vero se loco copiosos et disertos putant, quum calamitates clarissimorum virorum, iniuriasque iis ab ingratis impositas civibus colligunt. Hinc enim illa et apud Graecos exempla, Miltiadem victorem do mitoremque Persarum, nonduin sanatis vulneribus iis, quae corpore adverso in clarissima victoria accepisset, vitam, ex hostium telis servatam, in civium vinclis profudisse; et Themistoclem patria, quam liberavisset, pulsum atque proterritum, non in Graeciae portus per se servatos, sed in barbariae sinus confugisse, quam afflixerat. Nec vero levita tis Atheniensium crudelitatisque in amplissimos cives exempla deficiunt: quae nata et frequentata apud illos, etiam in gravissimam civitatem nostram dicuntur redundasse. Nam vel exsilium Camilli, vel offensio commemoratur Ahalae, vel invidia Nasicae, vel expulsio Laenatis, vel Opimii damnatio, vel fuga Metelli, vel acerbissima C. Marii clades, principum caedes, vel eorum multo rum pestes, quae paullo post se.

verità, ad uomo vigilante e industrioso: nè solo in cose di tanta importanza, ma eziandio ne' mediocri o studi o uffici od anche negozi contennendo. Aggiungonsi i pericoli della vita, e il vile timor della morte contrapponsi ai generosi uomini: a' quali più suole parer miserabile per natura e vecchiezza disfarsi, che tanto aver di tempo onde quella vita che pur converrebbe a natura rendere, possano singolarmente rendere alla patria. Colà poi credonsi splendidi ed eloquenti, dove raccolgono le calamità di chiarissimi uomini e le ingiurie onde fur carichi per opra d'ingrati cittadini. Perciocchè quindi que' tanti esempli eziandio appo i Greci; Milziade, vincitore e soggiogatore dei persiani, non peranco rimarginate quelle ferite che a traverso del corpo in una splendidissima vittoria avea ricevute, la vita dagli ostili dardi campata aver fra le catene dei cittadini finita: e Temistocle, cacciato e proscritto dal la patria che avea liberata, essersi rifugiato non già nei porti della Grecia da se conservati, ma in seno di que' barbari che aveva oppressi. Ne mancano esempli della levità e fierezza degli Ateniesi contro amplissimi cittadini: i quali esempi cominciati e frequenti appo lor divenuti, si narra che nella gravissima città nostra eziandio si diffondessero. Poichè rammentasi o l'esilio di Camillo, o l'offensione di Aala, o l'invidia di Nasica, o lo sbandeggiamento di Lenate, o la condanna di

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