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<«< Due sono le leggi alle quali è sottoposta la umana generazione; la prima è quasi divina, e della natura; l'altra a similitudine di quella scritta ed approvata dagli uomini. Legge naturale è perfetta ragione nata in ciascuno, diffusa in tutti, vera, costante e sempiterna, la quale in ogni tempo, in ogni luogo, ed appresso qualunque gente è una sola, perpetua, immutabile e certa. Da questa hanno principio e si riferiscono tutte le buone leggi scritte. Da questa procede la religioné, le cerimonie e celebrità dei culti divini, le quali certo non sarebbono nel mondo da ogni nazione con tanta efficacia consecrate, se e'non fusse naturalmente insito negli animi nostri una superna essenza in divina unione eternalmente perfetta. Da questa sono gli obblighi della patria, la pietà de' parenti, la carità de' figliuoli, la benevolenza de' congiunti ed ultimamente l'universale legame e diffusa dilezione dell' umana moltitudine. Quinci derivano le commodità, i beneficii, le rimunerazioni e caritativi ministeri di liberalmente conferiti sussidi ; nel medesimo modo i meriti, gli onori, i premi, le vendicazioni, vituperi e pene hanno avuto la propria origine. Da simile principio si serva la dignità, la riputazione e stima degli antichi abbondanti di virtù, ed innanzi agli altri eccellenti e degni. Indi ancora è lá verità e la fede, costante, immota e ferma: e finalmente dalla naturale legge ogni nostro bene e con debito ordine di compiuta misura perfettamente conservato. Questa è donna ed imperadrice d'ogni altra virtù, ed è colei per cui l'umana specie, eccellente a tutte le cose che sono in terrà, da Dio nata e da lui è fatta tale che nessun difetto umano la sparge, o macula, ma senza tempo si conserva in sua essenza perfetta per isplendido esemplare, al quale si riferiscono tutte l'opere de'mortali. La seconda legge è scritta e composta dagli uomini, secondo è paruto sia eguale salute di tutti, ec. ». E si continua quindi a parlar della legge scritta o positiva, come dicono: ma noi ci siamo rimasti dal riferirne più parole, perciocchè meno conducenti all' uopo nostro. Del resto, volentieri abbiamo qui trascritto questo non brieve tratto della Vita Civile non solo per la saviezza delle massime, ma eziandio per la bontà della lingua e dello stile. Gli è ben vero che non è da cercare in Matteo

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Palmieri un insegnatore profondo di quella civil sapienza, onde il nostro secolo (se a dritto o a torto, altri giudichi) mena cotanta boria. Pur tuttavia, chi ami svolgere un libro di puro e gentil dettato e, che più importa massime ai tempi nostri, apprender l'arte di moderar le passioni politiche giusta le norme dell'ordine e del bene pubblico; certo non indarno si recherȧ alle mani questo trattato di un antico cittadino della fiorentina repubblica.

VIII.

Imperandi et serviendi sunt dissimilitudines cognoscendae. Cap. XIX.

Egli è certo conforme al naturale ordine delle cose, che i migliori tengano il dominio; gli altri stieno a obbedienza. Ecco perchè Dio, perfezione infinita, comanda all' uomo e alle cose universe; l'animo comanda al corpo, la ragione all' appetito, Regum timendorum (disse anche il romano Lirico) in proprios greges, reges in ipsos imperium est Iovis. E come no? Interroghiamo, dice un dotto moderno (1), l'oracolo dell' intimo senso : voi chiunque vi siate, che vi associate spontaneamente in un negozio, in una scuola, in un esercito, ditemi: da chi bramate voi che sien diretti gli affari del commercio, dal più abile o dal più incapace? da chi l'insegnamento; dal più dotto o dal più ignorante ? da chi le guerre, i combattimenti ; dal più valente capitano o dal più inetto? La risposta è chiara: cercherete il più valente. E non è men chiaro il motivo. A qual fine cercate voi un' autorità? affinchè abbracci nella sua unità i liberi individui, e ne contenga nella direzione sociale le forze. Ora a stringere a se tanti individui, ad infrenar tante forze, a volgerle rettamente, è necessaria una superiorità di volere; dunque volendo un'autorità voi la volete valente. Verissima è dunque quella tulliana sentenza: An non cernimus, optimo cuique dominatum ab ipsa natura cum summa utilitate infimorum datum?— Ma continuandoci col medesimo Tullio alle nostre osservazioni,

(1) Taparelli, Saggio di Dritto naturale, part. II, cap. 7.

diciamo esser d'uopo che dello imperare e dell' obbedire si distinguano i modi: dappoichè tra comando e comando gran differenza intercede. Di fatto l'animo si dice tenere a suggezione il corpo, e similmente si dice tenere a suggezione le cupidigie. Ma il corpo sta all' animo sottoposto, siccome al re i cittadini, siccome al padre i figli: laddove le cupidigie così denno obbedire all'animo, siccome i servi al padrone. E di tal modo i re, i capitani, i magistrati, l'ordine senatorio, i popoli tengono a se suggetti i cittadini e gli alleati, siccome l'animo tien suggetto il corpo i padroni poi siffattamente soprastanno a' servi, come la miglior parte dell' animo, cioè la sapienza, tiene a obbedienza le viziose qualità dell' animo istesso; le libidini dico, le iracondie e le altre perturbazioni. Sin qui il nostro filosofo ; il quale derivò queste dottrine intorno alle differenze dei comandi da Platone, nel terzo delle Leggi, e dai libri essoterici di Aristotele. Ma per chiaro e manifesto che ciò sia, pur non di meno nel fatto sembra che per taluni non voglia punto riconoscersi il divario che è, a cagion d'esempio, tra servo e suddito, tra padrone e superiore: tanto è lubrico a fallire, dove l'orgoglio usa il suo soperchio o nel comandare o nel non volere essere comandato.

Ma piace notare a questo proposito medesimezza d'insegnamento tra l'antica pagana filosofia e la cristiana moderna. Il sovraccitato autore (1), ragionando dei gradi dell' autorità, proprio all' intendimento di mettere in chiaro la diversità che passa tra servo e suddito, tra padrone e superiore, fattasi la dimanda, che vuol dir servire, di tal modo risponde. Se ben si mira, il vocabolo servire viene adoperato in senso di impiegare in altrui pro la propria esistenza; così diciamo servirsi di uno strumento l'impiegarlo in nostra utilità; servitù legale di un fondo il diritto o il dovere che incombe al padrone di farvi o soffrirvi al cuna cosa in altrui pro, ec. Or è ella cotesta la idea che noi abbiam del suddito? Certo che no; anzi noi distinguiamo continuamente nel linguaggio, famigliare l'esser suddito e l'esser servo: il militare, l'impiegato, il magistrato quando prendon il

(1) Taparelli, part. II, cap. 8.

loro impiego entrano a servizio del principe; dunque prima non servivano. Date pur dunque al selvaggio dei servi, non per questo sarà egli sovrano. Così sempre il Taparelli. - Adunque, anche per questo ragionamento apparisce manifesto il divario che è tra comando e comando, tra obbedienza e obbedienza. E non senza perchè fu la sentenza del nostro autore posta in fronte a questa osservazione: Imperandi et serviendi sunt dissimilitudines cognoscendae.

IX.

Ubi tyrannus est, ibi non vitiosam,... sed dicendum est
plane nullam esse rempublicam. Cap. XXIII.

Cicerone intese, come abbiam notato qualche altra volta, dimostrar difettive tutte e tre le forme di pubblico reggimento; dico il monarchico, l'aristocratico, il democratico; e ciò all' intendimento di concludere per ultimo, secondo la propria opinione, il miglior modo di governo essere il misto; val dire quello che di ciascuno dei tre sopra detti contenga la parte migliore. Allo stesso intendimento aveva, al capo XXVII del libro primo, allegati gli esempi de' Persiani sotto re Ciro, de' Marsigliesi retti a governo di ottimati, degli Ateniesi nello stato popolare: pe' quali esempli di popoli meglio governati secondo quella semplice e peculiare lor forma, risultavano i vizi come per necessità inerenti a ciascuna spezie di essi reggimenti. Ora in questo vigesimo terzo capo e nei due successivi, rintegrando l'autore il ragionamento sul proposito della giustizia, divisa mettere in chiaro con argomenti di ragione e di fatto, che nullo è il governo dove chi ne tiene la somma, sia ingiusto o, che è il medesimo, tiranno. Perciocchè (dice il filosofo standosi alle date definizioni) non è repubblica, cioè cosa del popolo, dove non è popolo; e popolo non è, dove non è consentimento ed egual vincolo di diritto. Laonde cotal sorta di governo non solo difettivo dee dirsi, ma nullo. Cosi nullo era il reggimento in Siracusa, regnando Dionisio; nullo in Agrigento, regnando Falaride; nullo in Atene sotto la dominazione dei trenta; nullo in Roma

sotto i decemviri: anzi nullo ancora, comechè ciò sembri men probabile, nullo è quando si dice che tutto sia in potere del popolo. Ed è anche da notare che nissun reggimento tiene meno della repubblica siccome questo, se vi manchi il consentimento e il vincolo del diritto: tolto il quale, tutto il popolo così riunito non è meno tiranno di quello possa essere un solo: anzi tanto più tetro e detestabile tiranno; perciocchè niuna belva è d'indole così rea e crudele, siccome questa che assume sembianze e nome di popolo.

Da quanto è discorso sin qui con Tullio, del quale noi non abbiam fatto che sporre i concetti, chiaro apparisce siccome d'ogni città, d'ogni stato e pubblico reggimento è base la giustizia, senza la quale ogni forza e qualunque munita e abbondante potenza conviene che in brieve tempo ruini. Per questa che è principale imperadrice di tutte le virtù, a tutto il corpo della repubblica provvedersi convenientemente, e la unione e concordia della civile moltitudine conseguirsi: questa costituire da se sola la bontà d'ogni governo; e, questa rimossa, prevaler tosto il suo contrario; si che ogni governo, qual che ne sia la forma, per la ingiustizia diventa malo anzi pessimo e, come in simile proposito si dice, tirannico: e la tirannide non è altrimenti governo, ma, come qui distesamente ragiona Tullio, è governo nullo, è negazione di governo.

L'altra cosa che in questo luogo cade opportuna a notare, si è che d'ogni tirannide la peggiore è la popolare. Quando dicesi che tutto faccia il popolo, e tutto sia nel potere di lui; quando la moltitudine opera a capriccio, toglie, malversa, disperde il pubblico tesoro; quando, vilipesa la dignità de' magistrati, vituperata la maestà de' templi, violati i cancelli dei domestici lari, non riverenza di leggi, non freno di religione, non santità di diritti, non libertà di assemblee ; quando una mano di turbolenti faziosi, concitati, aizzati, imbriacati dalla furiosa eloquenza di qualche ambizioso rimestatore, qua vuole, là disvuole violentemente, qua minaccia, là grida la morte ai tranquilli cittadini, e per ogni contrada lascia pieno ogni cosa di scompigli, di paure, di fughe, di morti... crederem noi, che questo sia civile reggimento, stato popolare, schietta democrazia? Si chiami

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