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e facendola rimanere con quelle notizie sole che nel tempo della vita i sensi le presentarono. Tale è la sentenza di rinomati peripatetici e di teologi chiari sopra lo stato che arebbe per vigor di natura e senza l'innalzamento della grazia soprannaturale l'anima disciolta dal corpo; se non quanto Iddio, come governatore della repubblica ragionevole, benchè non ci avesse graziosamente adottati e fatti capaci del suo cospetto, dovrebbe tuttavia non sol punire l'anime de' malvagi ma guiderdonare quelle dei buoni, nè con altra mercede più conveniente che con arricchire il lor peculio intellettuale oltre a quello che avesser fruttato i sensi nella brevità della vita. Nel resto io mi fo a cre. dere per l'accennate ragioni che le anime naturalmente arebbono men giojoso stato dopo il divorzio dal corpo che per l'innanzi. E mel conferma quell'orror naturale che tutti proviamo al morire; del quale orrore nessuna briglia più forte seppero ordire i legislatori per frenar la baldanza dell'anime scellerate da'misfatti più pestilenti alla pubblica felicità. A questa ebbe l'occhio, siccome io credo, quel perspicacissimo cieco allor che, rassembrandosi avanti ad Ulisse (1) per incanto di Circe l'anime defunte de' Greci, e fra loro come signoreggiante l'ombra d'Achille, cominciò Ulisse ad esaltar la sorte di quell' anima grande che dominava fra gli spiriti di tanti eroi. Ma con amaro viso Achille risposegli ch' ei torrebbe piuttosto di servir ad un mendico villano tra' vivi che regnare fra tutte l'ombre de' morti.

Già vedete cadere quel presupposto da voi portato, che la morte per natura converta gli uomini in angeli; poichè gli angeli, essendo intelligenze non ingombrate dal corpo, ricevono per altra via più spedita i simulacri delle cose e più vivaci e più belli che a noi non gli pinge il fangoso pennello del senso. Essi, non per breve giro d'anni, siccome noi, ma per quanto s'allarga l'eternità riscuotono uno stipendio opulento di nuove e nuove contezze dagli oggetti che sopravvengono, nè per gli occhi loro si cala il velo giammai di questa scena sì varia e si dilettosa, di cui all' uomo per breve ora è conceduto naturalmente il rimanere spet

tatore.

CAPO XXIX

Il mondo non è formato per gli angeli
ma per gli uomini.

Ma bench' io abbia mostrato, se non m'inganno, che gli angeli sieno più eccellenti dell'uomo, non mi persuado però che 'l mondo corporeo ad essi più principalmente che all'uomo fosse ordinato dalla natura.

A fine di mostrar ciò mi fa mestier di pro. vare due proposizioni. L'una che l'uomo stesso non è prodotto in beneficio degli angeli, onde ciò ch'è fabbricato per l'uomo possa dirsi in tal guisa fabbricato per loro come per fine più

(1) Hom. Odyss. 1. 12.

remoto e così primiero nella intenzione dell'artefice.

L'altra proposizione si è che nè meno immediate sieno i corpi irrazionali fabbricati più ad uopo degli angeli che degli uomini.

Comincio dalla prima e così discorro: Se l'uomo fosse creato per servigio dell'angelo, o ciò sarebbe per supplire con l'opera sua a qualche bisogno delle nature angeliche o per esser dilettevole oggetto alla loro intelligenza. Il primo non si verifica; mentre piuttosto gli angeli, secondo la famosa opinione, volgendo i cieli s'impiegano per le necessità dell' umana condizione. Ne meno il secondo par verisimile. Il provo così. È verisimile, quand' altro argomento non dimostra il contrario, che ciascuna cosa per intenzion di natura sia dirizzata, come a fine principale, al maggior bene ch' ella cagiona. Or è maggior bene l'innalzarsi di pianta dal nulla un animo ad eterna felicità che l'aggiugner la cognizione d'un tale oggetto ad un angelo, per altro già bastantemente felice: adunque il primo, cioè il beneficio dello stess' uomo, e non il secondo, cioè l'utilità dell'angelo, fu in ciò il massimo fine della natura. Consideriamone il paragone in qualche manifesto esempio. Ha un re due cavalieri nella sua corte disuguali di grado e così di stima presso il padrone. Onora egli l'inferiore d'una nuova dignità, della quale quei che vengono favoriti son tenuti di porgere un certo picciol regalo all'ufficio posseduto dall' altro maggior cavaliere. In tal caso al pro di cui ci parrà verisimile che nella predetta elezione il re in primo luogo intendesse? Certo non del più amato, non del più degno, ma dell' altro amato anch'esso, degno anch'esso ed assai più altamente beneficato in quella deliberazione dal principe. Così, benchè l'uomo sia men degno e men diletto dalla natura che l'angelo, tuttavia è degno e diletto anch'egli da lei; onde in quelle azioni che sono incomparabilmente più profit tevoli all'uomo, che all'angelo il primo più che il secondo vorrà credersi fine della natura.

Preparavasi il Saraceni ad aprir la bocca in sembiante di chi vuol contraddire, quando il Querengo: M' indovino ciò che intendete d'oppormi. Volete dire che nella creazione ancora de' bruti, e specialmente de' meno utili a noi, è maggiore il ben loro che il ben dell' uomo; e nondimeno dianzi affermai che al pro dell' uomo ebbe il primo rispetto quel gran maestro che gli compose.

Allora il Saraceni: Se così felice sarete nel rinvenir la risposta, come foste in avvisarvi la opposizione, prestamente io rimarrò soddisfatto.

Arete notato il mio discorso, continuò il Querengo, che la proposizione ond' io trassi che l'uomo non fosse creato in grazia dell' angelo in sostanza fu questa. Qualora due personaggi sono amendue meritevoli ed amendue diletti, benchè inegualmente, da un terzo, ed egli fa un'azione incomparabilmente migliore al manco meritevole ed al manco diletto che all'altro, deesi ereder fatta principalmente in grazia e ad uopo di quello. Ma nel caso che voi m' op

CAPO XXX

È ingiurioso a Dio l'affermare che le creature sien puri mezzi di cui egli sia il fine.

ponete mancano due delle sopraddette condizioni : l'una è che il giovamento deʼbruti, quando si generano, sia incomparabilmente maggior che dell'uomo. In ordine a quel tempo che i bruti vivono è forse ciò vero. Ma che? assag. gian essi un picciolo sorso di vita, là dove l'uomo gode la cognizione ch' egli ha di loro una volta per tutta l'eternità. Onde non può dirsi che quel breve maggior profitto eeceda incomparabilmente quest' altro eterno, benchè mi

nore.

La seconda circostanza che non si adatta al presente caso è l'esser meritevole e ben voluto dalla natura l'un di quei due paragonati fra loro il quale in fatti maggior beneficio raccoglie. Ama si la natura in qualche modo anche i bruti, come più volte si è detto, ma con si fredda affezione che per sè stessa rimarrebbe sempre infeconda. Or la mia proposizione ha luogo là dove sia un amor caldo e vigoroso. Dimostriamo ciò con gli esempj.

Si propongono il carnovale in Roma sontuosi palj a' più fortunati nel corso. Questi palj senza dubbio si espongono con utilità maggiore de' concorrenti e de'vincitori che degli spetta tori: gli uni e gli altri sono in qualche modo benvoluti dal principe, ch'è l'autor della festa; tuttavia nessuno dubiterà ch'ella non sia ordinata principalmente al diletto de' secondi. Per qual ragione? Perchè gli spettatori son tutto il popolo, il quale dal principe è stimato singoJarmente, essendo il principe stesso instituito per utilità del popolo, nè godendo egli il principato se non per voler del popolo; dove i vincitori o i concorrenti sono pochi uomini vili nè conosciuti determinatamente dal principe. Onde non è credibile che per loro rispetto la solennità di que' giuochi si destinasse.

Restami ora il mostrare l'altra parte che vi promisi, cioè che le fatture inferiori all'uomo non sieno immediatamente ordinate dall' autore del mondo a questo principal fine di far teatro dilettevole agli angeli. Ma per mostrarvi ciò non mi fa mestiero di cercar nuove ragioni. Bastami d'applicarvi quelle, onde poc' anzi mi | son valuto. Il mondo corporeo e necessario, non che utilissimo, agli uomini, e vedesi fab. bricato con arte immensa, tale appunto quale egli ad uso degli uomini si richiedeva. Gli angeli d'altra parte senza di esso potevano goder vita e felicità, nè a loro più questo che un altro mondo si confaceva. Chi dunque non crederà che il mondo dal suo grande architetto ad uopo degli uomini sia principalmente formato? Ne la forza che gli angeli hanno vie più che l'uomo di muover lui e tutte l'altre creature corporali, dimostra in essi un dominio supremo de'corpi, come a prima vista parrebbe secondo i principj già stabiliti: imperocchè veggiamo che l'uoino esercita bensi egli liberamente una tal potenza di muover le cose inferiori a suo gusto e profitto, ma gli angeli non si vagliono di questa virtù se non in que' moti che giovano all' uomo istesso. Onde possiamo inferire che dall'autor della natura fosse limitato agli angeli l'uso libero di tal potenza.

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Abbiamo fin qui preso lite con le creature: viene ora in giudicio il Creatore. Contra un tale avversario, come si potrà vincere? Anzi, come si potrà non vincere? Egli stesso cede volontariamente alla lite e stima suo pregiudicio il riportarne vittoria.

Pensò taluno che nessuna cosa creata passi i cancelli di puro mezzo in ordine a Dio. Egli è di tutte le cose l'ultimo fine; or quanto innanzi all' ultimo fine s'incontra, tutto esercita la servitù di mezzo; benchè avvenga in ciò come ad alcuni feudatarj, che, per esser lontani dal lor supremo, sono stimati principi liberi. Cosi alcuni mezzi, il cui fine è assai remoto nell'effetto e ignoto nell'apparenza, ostentano il nome e la perfezion di fine.

Così discorrono alcuni: tuttavia è certo che non pure il mondo non è mezzo rispetto a Dio, ma che alla grandezza istessa di Dio è ingiurioso l'affermarlo. Altro non è il mezzo che cagion del fine; adunque tanto è inferiore alla divina eccellenza l'esser termine Iddio di alcun mezzo, come l'esser effetto Iddio d' alcuna cagione.

Altri più avvedutamente affermarono che ogni creatura sia mezzo, non in ordine all'esser di Dio, ma in ordine al gaudio di Dio. Ciò nondimeno rifiutasi con la dottrina, più volte da noi confermata, che ogni gaudio debba trovare innanzi di sè un bene di cui si rallegri, e però avanti al gaudio di Dio convien che a Dio si rappresenti già posto in essere qualche suo bene. Onde non può un tal gandio aver per oggetti i semplici mezzi che non propriamente son bene, ma cagione del bene.

CAPO XXXI

Per veder se Dio sia unico fine al quale e'l mondo fine il quale, si considera se le cose esterne possono esser bene in ragion del fine e specialmente l'amor altrui.

Può restar dunque solamente quistione se Dio sia unico fine al quale di tutte le creature, non per altro create che per esser beni del Creatore. Dissi unico fine al quale; perciocchè esser egli fine al quale in alcuna maniera di ciò ch'ei fa non è controverso. Vogliono alcuni che nessuna cosa esteriore debba chiamarsi vero bene e vera perfezione altrui. E se ciò intendesi di quel bene che è parte essenzial della felicità, la proposizione sta salda e vien approvata da Aristotile (1). Ma se pren. diamo il nostro bene più largamente per tutto ciò che senza inganno d' intendimento s'appetisce, non può negarsi ch' egli anche fra le cose esteriori non diffonda. Varrommi a provarlo

(1) Eth. c. 8 et alibi saepe.

d'una regola sottile che 'l signor Cavaliere ne divisò l'altro giorno per trovar se la bellezza rispetto al vagheggiatore sia bene propriamente, cive in ragion di fine, o impropriamente, cioè come puro mezzo.

Quella cosa, diceva egli (1), è bene in ragion di fine senza cui l'animo non rimarrebbe pago, quantunque tutti gli effetti di lei altronde fossero cagionati: poichè un tal non appagarsi per tutto il resto mostra chiaro che quella cosa non in grazia de' suoi effetti, ma per suo pre. gio è desiderata.

Ora in due cose estrinseche io trovo una tal proprietà di fine, cioè nell' amore.

Non v' ha chi non ami d'esser amato, eziandio da coloro il cui amore non è fertile d'alcun frutto. Fu pazzia quella degli epicurei, che avvisaronsi consister tutto il bene dell'amicizia nell' utilità vicendevoli che gli amici ne traggono.

Propongasi a qualsivoglia di goder quelle medesime utilità, ma con sapere ch'ei non possiede con interna benivolenza il cuor di veruno; tosto gli diverranno insipide, nè consentirà d'annoverar sé medesimo nella schiera de' fortunati. È volgata l'istoria di quel regnante (2) che, veggendo il cordiale affetto de' due amici, ognun de' quali si mostrò pronto a morire per la salvezza dell' altro, bramò di poter cambiar la sua con la sorte loro, benchè per altro assai più scarsa di beni che la reale. Nè solamente ci aggrada l'esser oggetti d'amistà e di benevolenza, la quale il nostro bene ha per fine, ma quell' amore eziandio ne diletta il qual ama noi come bene dell' amadore. Lascio gli esempi troppo evidenti a pensarsi e poco decenti a dirsi che fra le creature ne abbiamo. Dio stesso gradisce e premia un si fatto amore interessato; anzi Durando (3) arrivò a concedergli l'eccellenza e l'efficacia di perfetta contrizione, il cui fuoco celeste, anche senza l'ajuto del sagramento attuale, purga ogni macchia delle scelleranze commesse. Benchè una tale opinione rifiutasi comunemente. E, per dire il vero, un si fatto amore è tanto imperfetto che per poco non merita il nome d'amore; onde acutamente Marziale rimproverò a Filomuso: Dilectas, Philomuse, non amaris (4).

CAPO XXXII

Come anche l'onore sia bene in ragion di fine.

L'onore altresì è idolo pur troppo adorato dai nostri cuori non solo per altri beni ch'egli ne porge, ma per sè stesso, giacchè a' suoi altari ciascun altro bene e la vita medesima prontamente sacrifichiamo. Intendo qui per onore non già la significazione più stretta di questa voce che lo distingue dalla fama e dalla gloria, ma più largamente voglio significare

(1) L. 1, c. 45.
(2) Dionisio siracus.
(3) In 4, dist. 174, 3.

(4) L. 7, ep. 62, apud. Raderum.

PALLAVICINO VOL. 1

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ogni altrui stima e riverenza interiore del no stro pregio (1). Il discorso fatto l'altieri sopra la gloria mi disobbliga dal provar con più diffuse ragioni, che un tale oggetto goda l'amabilità di fine (2). Non ci paja dunque strano che Seneca nelle sue Suasorie faccia disputar sopra questo problema: se, offerendosi a Cicerone assalito da' sicarj d'Antonio il sopravvivere col permetter egli che s' ardesse e si cancellasse dalla memoria degli uomini la divina Filippica, dovesse ricomperar lo scrittore la vita propria colla morte dell'opera più cospicua. Ne paja leggerezza al medesimo Cicerone che Demostene si compiacesse del susurro della feminella che, mentre portava l'acqua, diceva nell'orecchio della compagna: Questi è quel Demostene (3).

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E con gran senno e carità la natura ne invogliò dell' amore e della venerazione altrui per quelle ragioni appunto che dal signor Cavaliere furono divisate. Questi tesori non soggiacciono a violenze d'armi nè ad imposizioni di monar, chi. Le miniere ove nascono son la beneficenza e la virtù. Sicchè il desiderio d'esser amati alletta gli uomini a beneficarsi l'un l'altro, la vaghezza di venir onorati gli sprona a correre per le rupi scoscese della virtù.

CAPO XXXIII

Perchè à Dio piaccia l'esser amato ed onorato.

Ne Dio fu esente da questi medesimi affetti: non già in maniera ch'ei s'invogli per impeto naturale dell' amore o dell' onore con quella veemenza, la quale dicemmo che rende necessario l'oggetto all'animo e lo cruccia s'egli n'è privo; perciocchè Dio non può esser bisognoso per natura di cosa da se distinta, e gode pienissima libertà di rimaner solo e felice tra il nulla. Ha dunque Iddio naturalmente una soave e tranquilla inchinazione di esser amato ed onorato.

Disse allora il Saraceni: Cotesta inchinazione convenne a Dio, perchè, senza un tale incitamento, le creature tutte avrebbon dormito sempre mai negli abissi, mentre alla volontà onnipotente non si proponea motivo che la incitasse a collocarle nella luce dell'essere ; perocchè ogni operante convien che sia invitato all'operazione dal proprio bene, ed altro bene a Dio non potea risultare alla produzion delle crea ture che l'amore e l' onore.

Non è questa la ragion vera di ciò, il Querengo soggiunse. Essendo Iddio suprema regola dell'altre cose e natura universale del tutto, non ha le sue proprietà naturali misurate al bisogno altrui, ma il suo gusto e 'l suo bene è la misura dell'altrui proprietà in tutta l'ampiezza degli enti.

La ragione dunque onde fu opportuno in

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Dio quest' affetto e perchè Dio in altro modo rimarrebbe privo di potenza e di libertà e così di onestà e di lodevolezza, che dall'esercizio retto della libertà vengono a germinare.

non

Mancherebbe a Dio la potenza tosto che gli mancasse la libertà, perchè la divina potenza non ha per oggetto se non ciò che alla divina libertà è sottoposto, non potendo egli creare un oggetto il cui essere sia necessario e libero a Dio che'l produce; altrimenti verrebbe a creare un altro Dio. Che poi se Dio non avesse un cotal affetto ad esser onorato, fosse per mancargli la libertà il dimostro. Non si dà libertà per volere quello che non si conosce per bene. Ed avendo Iddio una dignità infi. nita, non può senza avvilimento volere il bene della sola creatura: chè, se ciò volesse, torrebbe a sè la prerogativa d'ultimo fine al quale e costituirebbe ultimo fine de' suoi affetti quella creatura al cui pro egli unicameute aspirasse. Però fu necessario che Dio, per aver potenza e libertà di creare, riconoscesse possibile qual

che suo bene fuor di sè stesso.

CAPO XXXIV

Se Dio abbia potuto crear sole cose insensate o sole cose irragionevoli.

Voltossi allora il Cardinale al Querengo con dire: I discorsi da voi fatti pare che vadano a conchiudere non essere stata in Dio libertà di crear sole cose insensante, nè pur sole irrazionali. Nelle sole insensate non appare alcun bene o di loro, come poc'anzi provaste, o di Dio, non essendo elle capaci di rendergli onore ed amore, unici suoi beni esteriori per vostro avviso. Nelle anime irrazionali ritrovasi veramente qualche ben loro, secondo che avete mostrato, ma nessun bene di Dio, se altro bene fuori di sè non ha egli che l'onore e l'amore di cui, non meno che i sassi e i tronchi, sono sterili a Dio le bestie, come inabili pur di conoscerlo. Laonde se Dio non può far ciò che nulla partecipa di suo bene, non potè nelle cose irragionevoli sole impiegar il suo braccio.

A queste parole il Querengo: Ciò che voi argomentate sarebbe da me ricevuto almeno come probabile, se non mi paresse temerità voler misurare l'immensa onnipotenza di Dio con la spanna corta del nostro basso discorso; poichè le altre perfezioni sono in ciò diverse dalla quantità corporea, che in questa dee la misura esser minore, in quelle maggiore del misurato. Certo è che Dio può quanto è desi derabile di potere, e che, s'alcun oggetto ei non può, non è difetto di forza in Dio, ma di perfezione in quell'oggetto che non merita di esser potuto. L'inoltrarmi col giudicio più avanti in ciò senza lume di fede parrebbemi un voler correr la posta per le grotte cimmerie.

CAPO XXXV

Come Dio solo sia l'ultimo fine del tutto s'egli ama le creature con amor d'amicizia ed opera per loro pro.

Seguendo pertanto l'incominciata mia tela, un nodo mi si propone al cui scioglimento chiedo l'ajuto del P. Andrea. Per una parte non può negarsi che Dio nelle operazioni esterne non abbia per fine il bene delle creature, altrimenti non eserciterebbe verso di loro affetto di benevolenza e d'amistà come pure affermato ne' Sacri Libri tante volte leggiamo. Nè per conseguenza dovrebbonsi grazie a Dio de' beneficj ottenuti; poichè non è creditore di giu sto ringraziamento colui che non ha operato per fine dell' altrui pro, ma del suo proprio

interesse.

Dall'altro canto, se Dio ha per fine in qualche maniera il bene delle creature, adunque non conviene a lui unicamente l'eccellenza e l'onore d' ultimo fine, pregio che da' filosofi e da' teologi è riconosciuto per tanto proprio della divina bontà, quanto l'esser primo principio è proprio della divina potenza.

Ciò detto rivolsesi al P. Andrea il Querengo in atto d'aspettar da lui la risposta.

Ed egli: Il dubbio, come sapete, non è nuovo, essendo ciò altrettanto difficile a sciorre quanto agevole a sovvenire. Dirovvi la più probabil risposta che dopo lunga speculazione mi abbia somministrata l'ingegno.

Non vi è nascosto che la parte desiderosa dell'animo, dopo essersi invaghita d'un fine, due sorti di mezzi può immediatamente impiegarri, cioè o le azioni esterne o alcune interne ope razioni di lei medesima. Il primo caso è più comune e palese, ma il secondo, ch'è meno frequente quello che serve all'intento mio. Prendiamone l'esempio trito. Cade trafitto un soldato nella battaglia e sta per esalar di momento in momento l'anima lorda di gravi colpe meritevoli dell'inferno. In costui accendesi desiderio di far pace con Dio avanti alla morte per non esser condannato all' eterne fiamme, nè per conseguire un tal fine gli sovviene altro mezzo che il cancellar con un alto di contrizione i pregiudicj ch'egli ha nella cancelleria del cielo. Elegge egli dunque si fatto mezzo, muore contrito e si salva. In questo caso la volontà d'usar il predetto mezzo chiamasi nelle scuole atto comandante; la contrizione che poi segue dicesi atto comandato. E spesso avviene (come appunto nell'esempio proposto) che nell'atto comandante amisi con amor di amicizia un fine e nell' atto comandato un altro diverso fine. Cosi quella brama d'evitar l'inferno, che sceglie a ciò per mezzo la contrizione, ha per fine al quale ed amato con affetto d'amistà lo stesso moribondo, in cui utilità ciò risulta, com'è palese: ma la contrizione da quell'atto comandata convien che, per esser mezzo efficace a cancellare i peccati, gli detesti per solo rispetto del diyino dispiacimen

to, e così ha ella per fine al quale, non il peccatore, ma Dio, verso cui ella è affetto d'ami. stà sincerissima.

per sè stessa quanto insulsa e negletta per quelle bocche il cui cibo saporoso eran soli i letterarj discorsi.

LIBRO TERZO

PARTE SECONDA

CAPO XXXVI

Ripigliasi il discorso. Proponsi per conclusione che solo l'essere, il conoscere, il dilettarsi sieno fini interni fisici: e la maniera di provar ciò.

Da questi universali principj confidomi di far nascere la luce che ricerchiamo nella perplessità del dubbio proposto. La dignità d'ultimo fine in questa università di cose e d'operazioni par che debba esser conferita da quell'atto di volontà ch'è il primo nell'animo del supremo e del più antico operante, cioè di Dio. Questi dunque nel primiero esercizio della sua libertà, solo amico del sommo amabile, cioè di sè stesso, bramò unicamente l'amore e l'onore ch' egli dalle creature potea ricevere, i quali sono gli unici suoi beni esterni, come dicemmo. Vide allora che a conseguir per sẻ questi beni facea mestiere il beneficar le creature con affetto di cordiale amistà che rimirasse come fine il bene di esse. Perciocchè in tal modo presentavasi loro un titolo e d'ardentissimo amore verso quell'infinita bontà che non isdegnava d'amarle, e di profondissima venerazione verso benignità si ammirabile esercitata da un Dio con alcune ombre impastate di nulla, quali noi siamo nel suo cospetto. Da un tal conoscimento fu mosso Iddio ad elegger questa amichevol benevolenza verso le creature, come acconcio mezzo alla gloria (per nome di gloria intendo,piamente. Trascorsa una giusta dimora, soprav conforme all'uso della scuola, tutto il bene esterno di Dio) la qual ei s' era prefisso di conseguire. Ecco da un lato come a Dio solo è custodita l' eccellenza d'ultimo fine, essendo egli lo scopo di questo primo volere che diede il moto a tutto l'essere contingente; e come dall' altro lato l'istesso Dio è vero benefattore delle creature, e queste son debitrici a lui di giustissima gratitudine, essendo elle poi da molti atti della divina volontà con ingenua benevolenza liberalmente favorite. Non nego io già che ciascun di questi atti non rimirasse unitamente alla gloria di Dio; ma non contamina il candore dell'amistà il prefiggersi per oggetto d'una medesima azione il ben proprio insieme col bene dell'amico, allorchè questi due beni concordemente s'accoppiano.

Dopo la mensa rimasero per brev' ora in soave conversazione, finchè fu condotto a riposare ciascuno in una camera particolare ove una tal villesca semplicità, indorata gentilmente di splendidezza signorile, al luogo insieme ed al padrone si confaceva, perciò dilettevole dop

venne con festevole domestichezza il Cardinale alla stanza di ciascheduno, e condottigli seco, fece accomodar le sedie in una loggia tutta guernita di statue e di pitture eccellenti che soggettava agli occhi una smisurata campagna. E perchè il congresso doveva durar lungamente, non tardò egli molto a far sedere il Cavaliere altresì, benchè in sedia alquanto più bassa e priva d'appoggio alle braccia, conforme all'uso de' grandi. Fra tanto pregò con benigno viso il Querengo che desse principio. Ed egli si pose a dire in questa sentenza:

lo, poichè s'e stabilito qual sia quel fine a cui è amica la natura, seguirò tracciare i beni a cotal fine desiderabili in quanto si distinguon dai mezzi, cioè da quello che non si brama perch' ei sia bene, ma perch'è gravido Gran senno io feci, disse il Querengo, a chia- di bene. Vostro poi sarà, P. Andrea, di coromarvi in ajuto, giacchè all' ingegno vostro le nar domani i nostri discorsi con insegnarci dove più orride balze delle difficoltà s'agevolano in sia posta la naturale felicità dell'uomo, cioè pianure, non pur molli per evidenza ma deli-l'ultimo centro della morale filosofia, il quale ziose per leggiadria.

Era già salito il sole a dominare sul mezzo cielo. E perchè il Cardinale aveva imposto allo scalco che all' ora solita imbandisse e, poste in tavola le vivande il chiamasse a desinare, lo scalco sopravvenne appunto in quest'ora colla salvietta in mano. Sicchè il Cardinale, facendo un tal atto d'improvviso rincrescimento. Udiremo, disse, oggi l'altra parte da Monsignore con più agio. Per ora lo scalco c'intima che la clepsidra dello stomaco è già calata e che però ci convien cessare. Così egli in compagnia de' due ospiti andarono a desinare in un leggiadro casino da lui fabbricato. E per esser luogo di villa, onorò il Cardinale quella mattina il cavalier Saraceni ancora, chiamandolo alla sua mensa, altrettanto esquisita e splendida

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dovrà parimente esser centro dove si fermino le nostre speculazioni.

Parlando pertanto de' beni fisici, come di quelli in cui fondasi poscia il bene morale secondo che jeri ci proponemmo, a tre cose e non più io concederei l' altissimo grado di fini nella serie degli oggetti desiderabili, come altre volte accennai. Queste sono l'essere, la scienza, il diletto. Intendo dei beni intrinseci al possessore ed essenziali a felicitarlo, poiché degli intrinseci già s'è conchiuso tra noi che sien l'onore e l'amore.

Il mio detto ha due parti, come vedete. L'una toglie ogni luogo, fuorchè di servo, nel regno dell'amabilità a qualunque oggetto che da questi tre si distingua: l'altra concede a questi tre beni lo scettro d'ogni appetito.

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