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CAPO IV

In qual maniera gl' insegnatori delle scienze debbano usar lo splendore dell' elocuzione, la varietà delle figure, ed in genere lo stile adorno.

Passando allo splendor dell' elocuzione e alla varietà, e vivacità delle figure; per nome di splendore, in quanto distinguesi dagli altri ornamenti dello stile, voglio significare un lustro diffuso leggiadramente sopra le cose per mezzo delle parole nobili, e delle metafore prese da oggetti nobili non per altro fine, che di far arrivar all' animo del lettore i proposti concetti più signorilmente guerniti. Quali sien le parole nobili, mi serbo d'esaminar a disteso nel discorrer dell'eleganza. E quanto appartiene alle metafore, mi ristrinsi a quelle che adopransi per fine sol di nobilitare; però che gli altri usi delle metafore hanno rispetto ad altre doti dell' orazione.

ispecie convengono alle composizioni dottrinali, ma con parca misura. Lo splendore sia così temperato che non abbagli la vista, come quello del sole estivo nel mezzo giorno, il quale per esser soverchio gli è in vece di caligine per asconderlo. Le figure non arrechino un di. letto faticoso, e non sieno un ricamo, che non lasci apparir chiaramente il fondo del discorso. Nel lusso delle figure peccano molti scrittori, e i giovani specialmente usandole in cambio della favella diritta; non con altro pro se uon a fine, che appaja il loro stil figurato. Il che in ogni maniera di composizioni, ma nelle filosofiche sopra l'altre, le quali ricercano gravità e chiarezza, riesce vizioso. Che più? Nelle orazioni e nelle declamazioni medesime, che pur ammettono maggior gala, e maggior pompa; veggasi ciò che parve sopra l'uso delle figure ad un oratore, al quale Seneca il vecchio attribui dopo Cicerone le prime lodi. Questi fu Porzio Latrone, la cui sentenza in cotal materia io voglio qui registrare con quelle parole appunto con le quali ella è commemorata da si autorevole approvare. Pensano (dice Seneca di Latrone in proposito delle figure) che di questo pregio ei fosse manchevole, benchè in verità ne abbondò con l'ingegno; ma vi fu stretto col giudicio. Non gli piaceva di piegar la dicitura, nè di partirsi dal diritto sentiero, se non quando a ciò la necessità il forzasse, o grande utilità il persuadesse. Negava egli, che le figure fossero state ritrovate per bellezza, ma sol per ajuto; affinchè ciò che avrebbe of || fesi gli orecchi se palesemente si fosse detto, per via obliqua e furtiva s'insinuasse piace. volmente negli animi.

Per figure intendo quella maniera di parlare, e di porgere, che studievolmente si discosta dal mero linguaggio gramaticale, secondo la più comune usanza della favella, o sia nel. l'allungare, nell' accorciare, nel troncare, e nel ristringer le voci, o sia nel portar all'anima il pensamento con diverse, non comuni apparenze, il che lo stesso vocabolo, di figura n'accenna, or variando con sinonimi, or ripetendo ad arte la stessa voce; or ammirando, or interrogando, or con ironia significando il contrario di quel che suonano le parole; ed in somma (poichè l'annoverarle tutto è ufficio de' retori) tenendo sempre svegliato ed esercitato con varic guise d'inaspettati solletichi l'animo di chi legge, senza contentarsi di quella espressione, che sarebbe la più ordinaria de' parlatori, e che però non ha punto di curioso, o di riguar-che Lucrezio. Lucrezio coll' oscurità dello stil devole.

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Cosi dic' egli. E se a me si concede il proferir ciò che stimo de' più sublimi scrittori: nefl'uso di questi ed altri ornamenti parmi assai più lodevole Cicerone che l'altro Seneca, e

poetico (benchè ora in gran parte accresciuta dalla mutazione della favella) non solo veste il corpo della sentenza, ma spesso il viso, e la veste del viso non è tanto fregio che adorni, quanto maschera, che nasconda. Seneca a noi riesce più chiaro: ma quantunque nelle mate

E pensatamente io chiamai figura non tutto quello, che si diparte dalla prima formazion della lingua, ma dal più ordinario modo dei parlatori presenti. Imperocchè ciò che fu figura in un tempo, non riman poi figura quando è si accomunato dall' uso, che divien la più tri-rie naturali usi una dicitura assai schietta, e vial maniera del linguaggio usitato, dipendendo i linguaggi dall' arbitrio degli uomini, tanto nell'introdursi, quanto nell'alterarsi; ed essendo i gramatici non legislatori, come alcun pensa, ma compilatori di quelle leggi, che per avanti la signora dell'uso ha prescritte.

Or tra le figure quelle, che vicinamente si partono dall' usanza, e che talora sono in bocca eziandio del popolo, hanno perciò meno di riguardevole e di eccitante, e sono arredi della sorella minore, che si chiama Eleganza come appresso diremo. Le più gagliarde, e più insolite, come più dimostrantisi destano con più vivacità l'attenzione, e sono ornate della sorella maggiore nominata Eloquenza.

Presupposta una tal significazione dello splendore delle figure, io porto credenza, che l'ornamento in universale, e i due sopraddetti in

più tosto abbia povertà d'argomenti, che lusso d'ornamenti nelle morali, nondimeno profuma i suoi concetti con un' ambra di Spagna, che a lungo andare offende la testa: nel principio diletta, nel processo stanca. E di più compo. nendo egli l'orazione di periodi atomi, non lascia, che l'intelletto possa con uno sguardo contemplar un intero argomento, e darne giu. dicio, e lo costringe più tosto a compitare, che a leggere.

Ma Cicerone, degno d'esser chiamato dal più vecchio Seneca, quel solo ingegno, che il popolo romano ebbe pari al suo imperio, illumina le morali speculazioni con una luce temperata, che le fa essere non solo più splendide, ma più chiare. Le spruzza d'un'acqua d'angeli, che lusinga l'odorato, ed insieme conforta il cerebro. Or questa sorte d'abbellimenti, chi

tra l'oratore e filosofo secondo che appresso verrà palese. Voglio che sia un dolce, qual è quello del zucchero nelle vivande, che miglio ra, ma non muta gli altri sapori.

può dubitare, che non sfa lodevole negli insegnatori delle scienze? Onde il medesimo Tullio a gran ragione si pregia d'aver suscitata nel Lazio la giacente filosofia, la quale mal consideratamente certi scrittori assai rozzi avevano trattata, e soggiunge: può ben avvenire che ta luno intenda saggiamente, e poi non sappia con pulitezza esprimere ciò che intende: ma il consegnare alla scrittura i proprii concetti senza saperli o disporre o illustrare, o con qual-operanti richieggono maggior semplicità di fache giocondità allettar chi legge è un intemperantemente abusarsi e dell' ozio e della scrittura. E perciò (segue egli con senso pur troppo addattato all'età presente) leggono questi i libri loro solamente coi loro; nè alcuno gli apre se non chi vuol che gli sia permessa la licenza di scriver allo stesso modo.

E s'io m' appongo, non iscontrerò in questo parere altri contraddittori, che quelli i quali non vorrebbono, che si giudicasse ben fatto se non quanto da loro può esser fatto; e che,| siccome dice altrove il medesimo Cicerone gli stessi confini prefiggono a sè di sperare, ed a ciascuno di ben comporre.

Poichè il dire, che la verità è tanto bella per se medesima, che ogni estraneo liscio le imbratta, e non le adorna le guancie, che alla sua onestà disdicono tutti i belletti e mille simiglianti dettati, è un voler appunto imbel. lettar con metafore la bugia, perchè apparisca verità agl' ingegni di poca vista. Se gli uomini potessero come gli angeli manifestarsi immediatamente i loro concetti, soverchie sarebbero le parole. Ma giacchè a fine di palesarceli scambievolmente ci è necessario il dipingerli con qualche sensibil colore, perchè sceglier a ciò piuttosto la negrezza sordida d'un carbone, che le tinte più graziose d' oltremare? Già che fa mestieri di qualche vaso per trasportar questo liquore da una mente nell' altra; qual convenienza richiede, che il sugo più salutifero cioè gl'insegnamenti della sapienza, sia dato a bere in una ciotola sucida e puzzolente, che muova nausea; e non piuttosto in tazza d'oro tutta odorosa, che inviti ad accostarvi le labbra ? Qui certo ha luogo la famosa comparazione usata da Lucrezio del mele che si asperge d'intorno agli orli di que' vaselli in cui si porgono le medicine, acciocchè i fanciulli, lusingati da quel dolce, più prontamente si muovano ad assorbirle.

Non consento già che questo sia un dolce pestifero, il qual corrompa la virtù del medicamento: nel che per avventura non rimase innocente affatto quel grande, che trasportò nel nostro linguaggio la predetta comparazione. Riprovo parimente un dolce, per cui si tolga il natio sapore della dottrina, facendo mestieri, che l'intelletto sia sicuro d'ogni fraude, nè stia in rischio d'esser talora gabbato in abbe. verarsi d'un vino con la concia, dilettevole al gusto, ma nocivo allo stomaco. Per la qual ragione, e con la qual simiglianza ci ammonisce Aristotile che una troppo condita favella non è altresi acconcia per l'oratore, come sospetta agli uditori. Benchè in ciò sia dispari la causa

Voglio di più, che questo zucchero stesso quantunque innocente, e gustevole, sopra lo stile insegnativo sia sparso col pugno stretto, secondo il precetto de'gran maestri, i quali nelle parti delle orazioni più discorsive, e più vella: però che essendo elle bisognose d'intelletto non divertito, simigliano in ciò i più minuti caratteri, che deono scriversi in carta pura, non colorita, e senza vistosi tratti di penna, affinchè l'occhio più chiaramente, e più agevolmente gli discerna. Ma questa carta pura convien che sia fina, che sia candida: questi caratteri semplici è opportuno che sien graziosi, e maestrevolmente proporzionati fra loro, acciocchè si possan leggere, non solo con faciJità, ma eziandio con piacere. Volesse il cielo, che la nuda sapienza traesse con sì potente invito gli animi nostri, che siccome avvien delle stelle, o del sole, ogni veste a lei aggiunta ci paresse nuvola in suo paragone! Ma pur troppo si vede quanto la fatica dell'imparare sia ripudiata dal mondo, se oltre all'utile della dote non porta insieme la grazia, e la leggiadria del sembiante; non grazia e leggiadria di fanciulla, ma di grave e venerabile matrona: e tal è la grazia e la leggiadria, che abbiamo lodata nello stil filosofico di Cicerone, se dagl'ingrandimenti e talvolta dagli affetti ancor s'astenesse. E tale altresi era quella per avventura, che nel suo primo, e non corrotto originale fu adoperata da Aristotile ne' libri esoterici, se egli alcune volte non ci fosse stato troppo avaro delle parole. Ma chi avea proposto di dispensarle a tutti i più curiosi, e più mirabili problemi che possan sovvenire all' intelletto d'un uomo, forse non potea farne dovizia a ciascun problema particolare.

Concedo, che dee l'insegnator di scienze mostrarsi, ad essere spassionato verso ciascuna delle due contrarie opinioni, non amando altro che il vero dovunque egli il ritrovi: ma non cosi dee essere spassionato, che il suo libro sia letto o no; essendo questo il primiero fine delle scritture. E pur l'esperienza c'insegna, che la gentilezza dello scrivere (dico la gen tilezza, non l'affettazione) è una calamita che tira gli occhi alle carte, è un cedro che rende i libri immortali, e senza di cui malagevolmente sapremo annoverare veruno, che abbia potuto lungamente difendersi dalle tignuole del tempo. Anzi non solo può l'insegnator di scienze dimostrare senza disavvantaggio uno studioso desiderio d'esser letto, ma d'esser creduto. Nė solo ha da cercar egli d' addottrinare, ma, se unitamente il può, di piacere: ed in amendue queste parti si differenzia dall' oratore. L'ora. tore per non iscoprire quello studioso desiderio di ritrovar credenza, come ricordò Aristotile dianzi citato, dee schifar l'ornamento palese; e perchè intende solo di persuadere, nulla gli è in cura, secondo che notò lo stesso mac

e di maggior arte la buona architettura, che la vaga indoratura. Nelle stesse regole della favella io concedo loro, se non come laudabili, almen come lecite tutte quelle dispensazioni, che posseggono in virtù di consuetudine già prescritta. Godansi da loro le introdotte lar ghezze, non introducansi delle nuove. E nell'usar eziandio le già ricevute, s'imitino i buoni poeti, che non vaglionsi delle loro licenze, se non parcamente e con frutto. Così mostrerà lo scrittore d'usar siffatte larghezze non per ignoranza o per trascuraggine, ma per consiglio. Poichè nel resto una tal civiltà di stile, per così nominarla, fu ritenuta eziandio dal profondissimo san Tommaso, per quanto gli permise la rozzezza del secolo. Nè alcuno potrà negare, che la dicitura di lui non s'insinui dolcemente nell'animo più che quella di Roberto Olcot, o di Occamo. Ma tutto questo discorso intenderassi meglio dove parleremo dell' eleganza per professione.

stro, il dir acconcio in verso di sè, ma per ac cidente, posta la depravazione degli umani intelletti, che non lasciano persuadersi alla ragione esplicata se insieme non è condita. Dunque osservisi, che l'oratore volendo muovere gli ascoltanti ora ad una particolar decisione, o deliberazione, ora a sentir bene o male di alcuno, sempre cade in sospetto d'aver in ciò qualche interesse, che gli muova la lingua a falsar il cuore. Or questo sospetto s'accresce qualora egli palesa grande artifizio nel suo parlare, essendo consueto, che l'artificio grande siccome faticoso non si usi eccetto, che ove l'uomo ha interesse grande, ed ove gli fa bisogno di tale artificio per torre la luce al vero. Ma lo scrittor di scienze tratta di problemi universali, intorno a cui niente gli rilieva il persuadere più l' una parte che l'altra, salvo là dov' egli in ciò avesse ingaggiato qualche li tigio, o scrivesse a favor della sua religione. Onde fuori di questi due casi gli è lecito manifestar francamente lo studio di trarre i let- In contrario nelle dispute fisiche e nelle motori in una sentenza; non potendosi attribuir rali non veggio che una tale insipidezza di stile quello studio a fine d'ingannarli in ciò che è dinoti altro, che, o malattia di palato in chi sua utilità, ma solo d'ammaestrarli in ciò che | l'ama, o povertà di condimenti in chi l'usa. Con è loro profitto. E così veggiamo, che Aristotile fesso che in qualunque scienza colui, che ritrova forse per una simil ragione, concedè assai mag- gli ascosi tesori del vero, benchè gli additi angior cultura di stile all'istorico, che all' orato- cor mescolati col fango, è più benemerito della re. Appresso come l'insegnator di scienze scrive repubblica umana, che qualunque poi gli ripunon per suo pro, ma degli intelletti altrui, così lisce, e gli fa risplendere con vaghezza: conè ben oltra il suo debito, ma non fuori del fesso, che è più prezioso un diamante legato suo generale intento il produrre in essi, con in piombo, che un berillo legato in oro: che una vera cognizione per mezzo della dottrina, in somma il ben filosofare è pregio assai più anche un onesto piacere per opera della frase. sublime, che il ben parlare; e che i libri di Una sola eccezione io ammetto, cioè quando la Aristotile, quando ben fossero scritti nella più materia è sottile, e difficile in sommo grado. grossa lingua di Valtellina, dovrebbono esser Allora qualsiasi ornamento è vizioso, come no- preferiti a quanta beatitudine di comporre fiori civo al discorso, a cui egli ha debito di servire, negli anni d'Augusto. Ma diversa cosa è il di perciocchè ogni ornamento alletta a sè qualche re, ch' un principe ancor tra' cenci meriti più parte dell'attenzione; e pertanto è ladro e non riverenza, che un privato adorno di gemme; e servo qualora il discorso n'è bisognoso di tutta. il dire, che al principe meglio convenga il ve Cosi per mirare distintamente qualche oggetto stir di cenci, che l'adornarsi di gemme. pochissimo illuminato, convien levargli qualun que luce d'intorno, affinchè la virtù visiva in quel solo tutta s'impieghi. E l'esempio dei grandi conferma questo mio detto. Quando mai Euclide, o Archimede, o Appollonio smaltarono d'alcuna picciola amenità nello stile i loro acutissimi ritrovamenti di Geometria? Quando Aristotile, che de' geometri appunto notò quel che io dico, nella sovrumana invenzione della forma sillogistica miniò pure una sillaba con qualche leggiadro pensiero, de' quali pur egli altrove non si dimostrava infecondo? Lo stesso dunque vuol farsi qualunque volta si tratti la Erodoto e gli altri più antichi scrittori greci metafisica più severa, che regna oggidi nel li- non conobbero l'artificio del numero nella ceo. E però io non biasimo in questa parte gli prosa. Trasimaco e Gorgia ne furono gl' inven. scolastici moderni. Ne poco resta di faticare tori: ma in ciò imitarono il primo ritrovatore nell'esplicazione ad essi, quantunque assoluti del vino che nol bevè moderatamente ma s'inedall'obbligo d'adornarla. L'ordine, la chiarez-briò di quella nuova soavità. Isocrate poscia il za, la brevità sono pregi altrettanto malagevoli condusse a perfezione, temperando, e prima la e rari nel camminare per que' cicchi laberinti stucchevol dolcezza da que' due primi introdella più astratta filosofia, quanto lodevoli ed dotta, e poi con l'accorgimento dell'età più ammirabili in chi fornito di essi vi passeggia perita quel soverchio eziandio ch'egli ne avea con piè sicuro. Ricordisi ogu'uno in ciò esser ritenuto nella giocondità degli anni più balnegli edificii reali opera di maggior dispendio, danzosi. Cicerone, più d'Aristotile e degli altri

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Or dalle cose dette si può raccorre; che sia splendore, che sia figura, e fin a qual segno questi due abbellimenti, ed in genere il dire ornato, convenga all'insegnatore di professioni più o meno sottili.

CAPO V

Del numero in genere, e specialmente nell'idioma italiano: e qual numero convenga a'traltati di scienza.

maestri, ne trattò l'arte con sottigliezza e lun- reputo io che abbia origine quel piacere che ghezza nell'idea ch'egli forma del perfetto ora- si trae dall'adempimento delle leggi musicali, tore. Ivi riferisce l'opinione di certi, i quali | in quanto il suddetto piacere è distinto da pensarono che la favella sciolta non fosse caquello che ci è portato o dalla qualità dell'apace di numero per sua natura: e le condanna ria, o dal metallo della voce: e non meno a dicendo, esser ingiusta cosa il non voler noi ciò riferisco quel diletto che ormai tutte le conoscer quello che nel senso interviene, se non nazioni del mondo hanno preso della rima, si sappiamo rintracciar la cagione perchè inter-perchè tutto il proporzionato appar bello e venga. Giacchè nè altresì il verso ci fu dapri- | però giocondo, e scambievolmente tutto lo ma insegnato dalla ragione, ma dalla natura sproporzionato appar brutto e però nojoso alla e dal senso; al quale poi l'avvertenza delle misure fe' conoscer quel che avveniva: e così l'osservazione di ciò che facea sentir la natura, partori l'arte. Ma non entra poi egli ad esaminar filosoficamente per qual cagione un tal numero sia più caro agli orecchi che l'altro. Questo argomento richiederebbe operosa investigazione. Basterà qui abbozzare in picciolo ed in iscorcio sopra uno scaccolo di carta quello che se si dipingesse di giusta misura, ed in prospettiva, occuperebbe una gran facciata di

muro.

Noi abbiamo evidente esperienza non pur nell'udito, ma nella vista ed in tutti i sensi, ch'eglino da certi particolari mescolamenti dei loro oggetti ricevono consolazione, da certi of fesa. E nel vero, che l'oggetto veemente, come quello il quale fa concorrer al sensorio troppi spiriti vitali, che con la soverchia attività lo lacerano e lo corrompono, cagioni sen. sazione molesta, vedesi costituito con savia legge della natura, affin d'insegnar all'animale di schifar quell'oggetto per altro a lui pernicioso. Parimente si vede perchè l'oggetto tem. perato dovesse recar piacere, giovando egli ad attrarre una moderata schiera de' medesimi spiriti dal cervello al sensorio per concorrere agli uffici di quella sensazione, i quali spiriti co'lor continui viaggi servono per tener aperti i canali necessarj a questo commercio fra le potenze interne, e l'esterne: imperocchè i sopraddetti canali con la disusanza si riempirebbono d'umori grossi, nè sarebbono, per così dire, più navigabili.

Ma, perchè poi dove queste ragioni non hanno luogo, una tal proporzione, o di lineamenti, o di voci ricrei si potentemente gli occhi o gli orecchi, è difficile a indovinarlo. Io per me vo' sospicando che due sieno i fondamenti di tal piacere. Il primo, che appartiene al senso medesimo, penso che sia una giusta mescolanza d'esercizio e di riposo, che in va rie contigue particelle di tempo riceve l'udito da un tale oggetto; la qual mescolanza sia gio. vevole in qualche modo alla conservazione dello stesso sensorio. Il secondo, e maggiore, come quello che ha rispetto alla potenza più nobile, stimo che sia certa uniforme e regolata diffor mità, per cui si distinguono i lavori dell'arte ch'è formatrice del bello dall'opere del caso che suol produrre il deforme. Onde m'avviso, che la maggior dilettazione partorita dall' acconcio numero sopravvenga per la riflessione che occultamente fa l'intelletto intorno a quell'uniforme e ben regolata varietà che nell'oggetto si discerne. E da questa tacita riflessione

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cognizione sperimentale, come perchè è pro prio dell'umano intelletto per una tal occulta ambizione il compiacersi quando esercita l'innata perspicacità in accorgersi dell'arte, della proporzione, della corrispondenza; ed in som ma quando col suo, cioè col discorso, fa qualche novel guadagno di verità, come divinamente osserva Aristotile intorno alla dilettazione che arrecano i contrapposti.

In confermazione di che veggiamo che il numero de' periodi o la rima non partorisce verun piacere ne’bruti, come incapaci di riceverlo dal discorso; e la proporzione de' lineamenti ne porge loro pochissimo, ma pur qualche poco, siccome proviamo specialmente nei papagalli, perciocchè forse in questa si trova più fondamento di natural beneficio arrecato alle pupille, che non si trova nel numero verso le orecchie. La qual differenza pare che da noi ancora in qualunque maniera si sperimenti.

Vagliami per seconda confermazione a mostrare che il principal diletto del numero derivi dalla riflessione dell' intelletto, lo sperimentarsi, che lo stesso numero, in componimenti d'una materia ci piace, in altra mate ria no, perocchè non riconosciamo ivi la debita convenevolezza o di vago, o d'aspro, o di grave tra il suono e tra il sentimento delle parole.

Da contrarie cagioni procedono contrari ef|| fetti. Però è agevole ad argomentare dalle cose già dette l'origine della noja, onde il mal acconcio numero ne infastidisce l'orecchie. Ciò suole principalmente accadere, perchè egli con la sproporzione delle sue membra, e mostrasi aborto del caso, non figliuolo dell'arte, onde perciò ne appare sconcio e ingrato a sentirsi ; oltre a ciò in particelle uguali di tempo fa concorrere al sensorio copia molto disuguale di spiriti senza veruno stabil tenore, onde sempre o la veemenza, o la leggerezza della sensazione giunge inaspettata, e diversa da quello che la precedente sperienza pareva che promettesse e per tanto la virtù estimativa inte. riore si trova in ogni momento sopra di ciò ingannata da quel che presupponeva, e quasi se ne disdegna forse per una certa superbia, con cui ogni potenza conoscitiva ha in dispetto che fu cagione ch'ella cadesse in giudizio falso, quando ciò non le frutta qualche special godimento nell'acquisto che le sopravvenga improvviso d'una verità riguardevole. E fin a tal segno ne basti d'esserci innoltrati in un problema occultissimo, e nel quale ci è convenuto camminar senza scorta dell'orme altrui. Or di

scendiamo dalle verità speculative alle prati

che; le quali siccome phù necessarie ci furono meno ascose dalla natura.

tri vizj dallo stesso Tullio vietati al buon oratore ma per altro rispetto. Questi sono primieramente le parole disutili, quasi aggiunte per turar le fessure del numero; sì perchè l'agevolezza toglie la maraviglia e il diletto; si

Alle composizioni di dottrina dersi un numero nė altiero, nẻ vezzoso, non essendo ufficio di tal composizione o l'ingrandire o il lusingare. Ma vuol esser grave, e piacevole in-perchè tutto il superfluo, allungando senza pro, sieme, qual si conviene a serii discorsi d'amici nobili e costumati che parlino premeditata mente. Potrà nondimeno sollevarsi talora, nel provar la sentenza propria, o nel rifiutar la contraria: poichè questa parte anche ne' ragionamenti domnestici ha di sua natura più del contenzioso ed ammette maggior efficacia come nel suono della pronunzia, così nel numero del periodo. In somma ordinariamente la disposizione del numero in tali componimenti dee imitar quella degli occhiali, la quale allora è buona, quando il cristallo è posto in tal sito che fa veder con piacere gli oggetti, e non si lascia veder egli dall'occhio.

Fu propria de' sofisti (l'intento de' quali era solo il dilettare, non l'insegnare nè il persuadere) la trasposizione manifestamente ricercata delle parole per servire all' udito; siccome i pittori dispongono la varietà de' colori sopra la tela con palese artificio in grazia sol della vista. Ma è arte più malagevole, e però più mirabile e più laudabile, il dar a vedere che l'opera artificiosa sia fatta senz'arte, onde generalmente quella scrittura sarà più commendata, nella quale s'accoppino i vocaboli in guisa || che la soavità del numero paja esser venuta quivi non industriosamente chiamata dall' autore, ma naturalmente congiunta con le parole significatrici di quel concetto. Oltre a ciò la trasposizione è sempre nociva come nemica delle chiarezza, e per questo riprovata da Aristotile nell' oratore. Il che ha luogo assai più nel filosofo; i cui concetti, come per sè più sottili, e più profondi, così al fine d'esser manifestati hanno bisogno di comparire in maggior lume. Ne merita d'esser taciuto che la trasposizione per titolo speciale è apportatrice di più tenebre, e perciò è più viziosa nel nostro idioma, che nel latino o nel greco: ciò è per mancar ad esso il genere neutro e la va rietà de' casi ond'egli è soggetto a nojosissima ambiguità di significati, se la immediata unione dell'aggettivo col sostantivo, e del relativo coll'assoluto, e la precedenza immediata del caso retto al verbo non tien lungi qualsivoglia equi

vocazione.

Quindi è che pian piano la nostra lingua s'è divezzata da quel raggirato parlare che usò il Boccaccio, e che ad esempio di lui seguirono il Bembo ed altri suoi coetanei; i quali tutti rivolti all' imitazione di Tullio, non distinser o i pregi comuni d'ogni favella da quelli che sono propri sol di quel genere, in cui con. tiensi la natia lingua di Tullio; non altrimenti che un medico, il quale usasse in Italia tutte le medicine che Ippocrate usava in Grecia ; non discernendo quelle che sono acconce ad ogni uomo, da quelle che richieggono un determinato temperamento.

E non meno converrà sfuggire questi tre al

è spiacente alla curiosità di chi legge per imparare. In secondo luogo l'affettazion de' minuti incisi, che trincino e quasi slombino il sentimento, e però impediscano ch'egli arrivi all' intelletto con quella unità che gli dà insieme bellezza, e forza; in terzo luogo l'uniforme armonia d'una stessa maniera di numero non variata, che ove non è per necessaria ubbidienza a legge di verso dimostra povertà, e perciò cade in disprezzo. Del primo e del terzo neo non vanno forse incontaminati due politissimi istorici dell' età nostra, l'uno latino, l'altro italiano amendue maravigliosi per la soavità del periodo. Il latino è il nostro Orlandino tutto elegante, tutto leggiadro, tutto sonoro, ma si diligente amatore di quest'ultima prerogativa, che l'istoria di lui può sembrare anzi legata con metro, che sciolta in prosa: onde il suo numero piace meno, perche piace sempre. L'italiano è il cardinal Bentivoglio, che ha saputo illustrar la porpora con l'inchiostro, e a dispetto dell'età grave, della complession inferma, delle occupazioni pubbliche, de' travagli domestici, s'è acquistato un de' primi luoghi fra gli scrittori di questa lingua, si per coltura di stile, come per gravità di sentenza. Ma fu egli si geloso del numero sostenuto, e ripieno, che a fin d'appoggiarlo e di ricolmarlo non ricusò la spessezza d'alcune sue particelle per altro sterili e scioperate; le quali a guisa dell'acqua d'Arno, diffusa nella più generosa verdea di Toscana, smorzano alquanto la vivezza de' sentimenti, Ne alcuno mi giudichi, o temerario in chiamare alla mia censura penne sì chiare, o ingrato in additare i difetti di quegli autori ad un dei quali per unione di abito, all'altro per congiunzione di cuore sono specialmente obbliga. to, perciocchè gl'insegnatori dell'arti non deono menzionare le imperfezioni se non d'artefici segnalati, come più malagevoli ad esser conosciute, e più pericolose d'esser imitate, per l'autorità di quel nome, tra la cui luce quelle macchiette ancora quasi raggi risplendono: la quale autorità è di si gran forza per indorare i difetti, che potè cavar di bocca ad un gran filosofo, che anzi chiamerebbe virtuosa l'ubbriachezza, che vizioso Catone. Nel rimanente, chi ben osserva, non si può fare ad uomo il più desiderabil elogio che biasimarlo in poco, e lodarlo in molto. Ma tornando a' tre mentovati vizj. Nel secondo è reo fuor d'ogni perdono tra' filosofanti Seneca, la cui dicitura altro non ha di numero che l'esser composta di membra indivisibili, nel che appunto i filosofi distinguon il numero dal continuo. Ma nel seguito ch'egli ebbe, si scorge ciò che io accennava, minor attrattiva accrescersi alla calamita dall'unione con molto ferro, che al vizio dall' unione con molte virtù,

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