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Dalla calata del re Ludovico XII
alla lega di Cambrai.

A. 1499-1459.

GLI ORSINI, I VITELLI, I COLONNESI-IL DUCA VALENTINO

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Avvenne a Ludovico Sforza rispetto alla calata di A. 1499 Carlo vni quel medesimo che ogni giorno avviene a certuni per troppo sottilizzare; cioè che dopo essersi molto acutamente aggiustato in mente ogni cosa nei suoi più minuti particolari, un impreveduto accidente svolga per altro verso la fortuna, e sovente la faccia riuscire affatto al contrario delle aspettative. Gran parte nella formazione di un disegno debb'essere abbandonata alla sorte. L'uomo savio studia le possibili circostanze e conseguenze del primo fatto a cui tende, ma non vi si appoggia sopra: bensì le abbraccia coll'animo, e pensa a ripararle o compierle, sia che realmente succedano, sia che nello escire in luce combininsi con altri accidenti e piglino altra forma.

Aveva lo Sforza così bene nella sua mente assettati tutti gli effetti di quella spedizione, che il re di Napoli, il papa, e Piero de' Medici ne dovevano rimanere abbattuti ma non distrutti, i Veneziani intimoriti, Carlo vi strettamente a lui obbligato, egli poi arbitro supremo dei destini d'Italia. Al contrario, in

conseguenza di que' casi che accelerarono la conquista di Napoli, e diedero origine alla Lega italiana ed alla cacciata dei Francesi, il suddetto Ludovico il Moro trovossi alla fine dei conti in inimicizia palese coi re di Francia e di Napoli, in sospetto e in odio a tutti gli altri principi italiani, coll'erario sminuito, e coll'Italia aperta agli stranieri: e per compenso di tanti svantaggi non gli restava che la sola speranza di conseguire Pisa, la quale nel medesimo tempo era guerreggiata dai Fiorentini, ambita dal duca di Milano, dai Veneziani e dal Triulzio, e trafficata dal re di Francia.

Dapprima Ludovico il Moro stabili di proteggere Pisa contro Firenze, e si confederò coi Veneziani : poscia, allorchè vide i Fiorentini stanchi e umiliati, e i Veneziani potenti ed ambiziosi, voltata insegna, si buttò a secondare Firenze contro Pisa e Venezia, non disperando a impresa finita di ottenere in premio dai nuovi suoi alleati Pisa istessa, o qualche altra cosa corrispondente. Questa risoluzione accese contra lui di incomparabile sdegno i Veneziani, e li indusse a chiamare in Italia il re di Francia per deprimere il duca di Milano, come già questi ve lo aveva chiamato per atterrare gli Stati vicini. Fatale politica, sorta in Italia ai tempi dei grandi vassalli, proseguita nel fervore delle fazioni, ed ultima rovina, e propria sciagura della patria comune!

Regnava in Francia fino dall'anno precedente Luigi xi, che nel salire al trono aveva aggiunto alle ragioni del suo predecessore sopra il regno di Napoli, quelle speciali che come duca d'Orleans ed erede di una Valentina Visconti avola sua, pretendeva sopra

Milano. Laonde non è a dire se porgesse facile orecchio alle instigazioni della incauta repubblica di Venezia. Chiese questa per prezzo della sua cooperazione, che le venissero confermate alcune città marittime testè acquistate nella Puglia, e che l'Adda segnasse il confine del suo dominio col ducato di Milano. A questo prezzo fu venduta la quiete dell'Italia. Tosto le operazioni della guerra tennero dietro ai maneggi della diplomazia. Un fiorito esercito calò a piccole squadre le Alpi per fare la massa in Asti. Nel medesimo tempo i Veneziani assaltavano il Cremonese.

Comandava i Francesi con autorità quasi regia Gian lacopo Triulzio, al quale dal re Carlo vi era stata donata la duchea di Melfi e il contado di Pezenasco, sia in premio del grande utile ricavatone nel suo ritorno da Napoli, sia per fare il contrapposto al duca di Milano, che avevagli per ciò appunto confiscato i beni paterni, datogli bando del capo, e fattolo dipingere per traditore. Comandava i Milanesi radunati ad Alessandria Galeazzo da Sanseverino, genero e famigliarissimo del duca Ludovico il Moro; ed a Galeazzo doveva unirsi il conte da Caiazzo fratel suo, colla maggior parte dell'esercito, che allora era occupato a fronte dei Veneziani. Così da tale copia di gente sarebbe stata custodita quella forte città, da infrangervi sotto le sua mura la prima foga degli invasori, non altrimenti che già nell'anno 1392 vi si erano infranti gli sforzi del duca Giovanni di Armagnac (1).

Tali almeno erano le speranze, nè sarebbe loro mancato un buon successo, se il duca di Milano, come

(1) V. part. III. cap. I. §. IV.

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aveva trovato il riparo contro alle armi dei nemici, avesse trovato un bastevole schermo contro alla viltà ed al tradimento dei suoi ministri. Infatti, non si erano ancora i due fratelli da Sanseverino accozzati insieme (e dissesi che indugiassero a farlo per causa del conte di Caiazzo, il quale non voleva a niun patto sottostare nel governo delle armi al fratello minore di sè per età e per esperienza), non avevano ancora i Francesi messo l'assedio ad Alessandria, che Galeazzo occultamente se ne fuggiva. Subito la città venne occupata dagli invasori; dell'esercito milanese parte fu svaligiata, parte si disperse, parte passò al nemico. Bentosto la presa di Mortara e di Pavia, le scorrerie dei Veneziani, e il tumultuare della plebe di Milano, persuasero il duca a porre in salvo, non che lo Stato, la vita propria. Quasi solo, lagrimando, maladetto uscì dalla città, che gli era costata infiniti travagli e delitti. Scontrollo presso le porte il conte da Caiazzo, già da lui ricolmato di onori e di ricchezze ; e sclamando, che ad un principe fuggitivo nessuna fede era più dovuta, gli innalberò in faccia le insegne di 6 7bre Francia. Così senza trarre colpo di spada, il ducato di Milano cadde in potere degli stranieri (1). Luigi xi rimunerò il Triulzio elevandolo al grado di maresciallo, e donandogli la città di Vigevano per compensarlo delle artiglierie trovate in Milano, che a lui, come a generale supremo, sarebbero di diritto appartenute (2).

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(2) Valutossi il loro prezzo in 150 mila scudi. V. Rosmini, Vita del Triulzio, VIII. 332.

Ma quelle medesime cagioni, che avevano rimosso A. 1500 il re Carlo vi da Napoli, non tardarono a manifestarsi in Milano contro Luigi xn, ed a generarvi un odio ineffabile delle presenti condizioni, ed un desiderio ardente delle passate. Nè somministravano leggiero fomento al mal umore dei Milanesi gli aspri e parziali modi del Triulzio, luogotenente del re, solito a usare nelle cose civili la crudezza delle guerresche, e per sopraggiunta concittadino; sopportando sempre mal volentieri gli uomini l'altrui supremazia, ma troppo più quella d'uomo già tenuto per uguale, già conculcato ed irriso. Accrebbero il malcontento alcuni dazii rimessi in piedi dal re contro il parere del Triulzio: dal malcontento nacque un tumulto: nel tumulto lo stesso Triulzio, sopraffatto dallo sdegno, uccise di sua mano, chi dice uno, chi parecchi uomini della minuta plebe. Allora quello che era nascosto desiderio di pochi, diventò generale e quasi pubblico intento: aprironsi trattative coll'antico signore Ludovico il Moro, il quale scese le Alpi con 8000 Svizzeri e 500 Borgognoni assoldati privatamente, e senza impedimento occupò Como, entrò in Milano, e ottenne a patti Novara. Gian Iacopo Triulzio raccolse a Mortara tutte le soldatesche regie, più disposto a ricuperare il ducato colle nuove genti aspettate di Francia, che a difenderlo colle poche che gli rimanevano.

Queste cose avvenivano nel febbraio del 1500: il mese dopo il maresciallo coi freschi soccorsi venutigli dalla Francia chiudeva Ludovico il Moro dentro Novara, e ve lo assediava. Era il costui nerbo, come dicemmo, di Svizzeri. Ma la tardanza dei pagamenti, e l'avere loro dinegato il sacco delle terre ricupe

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