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331 Filiberto, duca di Savoja, tutto quello che aveva occupato al duca Carlo o altri dopo la mossa del Re Francesco, riservandosi Torino, Chieri, Pinerolo, Chivasso e Villanova d'Asti, con obbligarsi il Duca, come fosse rimesso nello stato suo, a dimenticarsi ogni offesa che, nel seguir le parti di Francia, da' suoi vassalli gli fosse venuta fatta, e di lasciarli nelle loro possessioni e beni; che il medesimo Duca Emanuele Filiberto sposasse Madama Margherita di Francia, sorella del Re, il quale matrimonio, poichè fosse consumato, il Re di Spagna fosse obbligato a restituire al Duca tutte le fortezze e terre del Piemonte che aveva in potere, con ritenere solamente Vercelli ed Asti tanto quanto il Re di Francia tardasse a rendere le cinque fortezze sovra nominate.

Per maggiore stabilità della pace, s' accordarono che il re Filippo prenderebbe per moglie madama Elisabetta, primogenita del re Enrico, e che questi facesse ratificare e confermare il trattato dalla Corte del parlamento di Parigi e da tutte le altre del suo

reame.

Quanto a Calais, che era stato un grande impedimento alla riconciliazione, e poco mancò che non l'impossibilitasse, fu stipulato con la regina Elisabetta d'Inghilterra che resterebbe per allora in potestà di Francia, con promessa però di rendergliela fra otto anni, volendo che la promessa fosse rata per un deposito in Anversa di cinquecento mila ducati, e di alcuni ostaggi francesi ricchi del doppio più.

Fra le condizioni della pace fu ancora che i due Re procurassero il Concilio universale per comporre le differenze di religione.

L'allegrezza della pace fu subitamente turbata da un accidente funestissimo. Il duca di Savoja se n'era andato a Parigi con molta pompa per far le nozze con madama Margherita, e Ruigomes, Spagnuolo, da parte del Re Cattolico a presentar le gioje a madama Elisabetta ogni cosa piena di feste con concorso di

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(1559) grandissimo numero di signori di Francia, di Fiandra e d'altronde. Tanto più si godeva della dolcezza della pace, quanto più si era sofferto dell' asprezza di si lunghe guerre, quando in una giostra, correndo il re Enrico una lancia contro il Conte di Mongomeri, quella dell'avversario venne rompendosi nella sua visiera, e trapassandone parecchie schegge inverso l'occhio destro, talmente offesero quelle vitali parti che in poco d'ora se ne morì. Successegli nel regno Francesco II, giovinetto di sedici anni.

Mandarono i due Re gli ordini opportuni per l'esecuzione del Trattato di pace in Piemonte ed in Toscana. Il Duca di Sessa, governatore di Milano, si conformava senza indugio alla volontà del suo principe; ma Brissac, contrario alla restituzione, andava procrastinando, talmente che convenne che una seconda volta gli si replicasse l'ordine, affinchè il mandasse ad effetto. Il Duca di Savoja mandava a pigliare possesso degli Stati restituiti il conte Amedeo Valperga di Masino pel Piemonte, il Maresciallo, conte di Challan per la Savoja, e Filiberto della Balma per la Bressa.

Come prima erano giunte in Piemonte le novelle della pace, da cui ne doveva seguitare la restituzione, in molti luoghi, ma principalmente in Torino, Moncalieri, Ivrea, e Savigliano, gridossi con allegrezza Savoja, Savoja! Chieri, pel contrario, diede non pochi segni di affezione per Francia, offerendo gli abitatori al Re persino le loro persone e le loro sostanze.

Rispetto a Montalcino, siccome quivi erano mescolati i fuorusciti sanesi, dai quali si poteva temere qualche ostinazione, il Re di Spagna ordinava a Chiappino Vitelli che, non volendo essi condiscendere al Trattato, fossero costretti all'obbedienza con le forze del Duca di Firenze.

Questi ordini, benchè veri, non erano creduti dai repubblicani di Montalcino, anzi stimavano che ciò si facesse per mettere loro paura, affinchè spontanea

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mente si rimettessero all'obbedienza del Re Cattolico e del Duca. Dava loro occasione a pensar queste cose qualche ambiguità che si notava rispetto a loro nel Trattato. Mandarono anche ambasciatori per raccomandarsi al Papa, dal quale ebbero per risposta che si rimettessero in tutto alla buona grazia del Re Cattolico e del Duca di Firenze, e che non pensassero ad altro che in ogni altra maniera erano mal consi1 gliati. Pareva loro pur troppo duro, ma contro la necessità non v'è consiglio. Ai quattro d'agosto, mese felicissimo pel duca Cosimo, don Giovanni di Ghevara consegnava Montalcino in nome del Re di Spagna ad Agnolo Nicolini, governatore di Siena, e Federigo da Montauto, che il ricevettero in quel del Duca di Firenze. Erangli venuti allo incontro gli ambasciatori dei fuorusciti sanesi, appresso ai quali seguitava una schiera di fanciulletti con rami d'ulivo in mano, gridando: Pace, puce, e palle, palle! Quest' erano dimostrazioni esteriori: i cuori tristi: la libertà si desidera anche, e più, quando è morta, ma si ammazza quando è viva. Fu fatta nel medesimo tempo la consegnazione delle altre terre sanesi ai ministri del Duca.

Una vita superba ed iraconda ora è per ispegnersi, e farà sorgere atti arrabbiati e barbari. Il pontefice Paolo IV, aggravato dall'età di ottanta quattro anni, e travagliato da disgrazie private e pubbliche, s'avvicinava doloroso a quel termine a cui tutti debbono arrivare ; perchè, oltre il cacciamento dei nipoti, la carestia affliggeva la città, e la Camera era esausta, e gli Spagnuoli gli si scoprivano avversi, e la morte di Enrico, re di Francia, terribile contro gli eretici e capace di tenerli in freno, aveva dato il trono ad un re debole d'età, ancor più debole di consiglio, Ferdinando titubava, e Cesare aveva confermato la pace di Passavia. Per la qual cosa, divenuto idropico, e struggendosi appoco appoco, mancò di vita il giorno decimo ottavo d'agosto. Sentendosi vicino al morire,

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(1559) chiamò a sè i cardinali, e con voce di moribondo, ma con facondia più che di moribondo, gli confortò alla concordia, ed a non avere nella elezione del nuovo pontefice altro rispetto che quello del servizio di Dio. Nè a ciò contento, raccomandò loro in quell' estremo punto la sua prediletta Inquisizione, la quale egli stimava potissimo propugnacolo contro le eresie. Bene ebbe effetto la Caraffesca raccomandazione, perchè in Ispagna e in Italia si accesero i roghi: le fiamme e le grida di coloro che ardevano, ricordavano il fero pontificato di Paolo IV.

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Non era ancora spirato il Papa, che un gran furore prendeva il Popolo romano. Levatosi improvvisamente in armi, corse a tutte le carceri, e rottele, ne traeva i prigioni, che furono da quattrocento. Poi andò impetuosamente a Ripetta, luogo delle carceri dell'Inquisizione, e feritovi un religioso domenicano che vi stava per commissario, e liberato i prigioni, fattigli prima giurar tutti di essere buoni cattolici, vi mise entro fuoco, ed arse con le finestre e gli usci, i processi degli inquisiti e le scritture che vi si guardavano. Quivi si volse al convento della Minerva, abitato dai medesimi religiosi, i quali, come adoperati specialmente dal Papa in quell' ufficio, erano più particolarmente bersaglio della rabbia popolare (gli chiamavano spie, e rivelatori di confessione), e l' avrebbe ridotto in cenere, se Giuliano Cesarini, autorevole persona, non l'avesse frenato. Gridavano: Viva la libertà; viva il popolo romano; muojano i Caraffa! Quest'ultimo grido sali a tale che, secondo ehe scrisse un vescovo di bell'umore citato dal Pallavicino, i minuti rivenditori di bicchieri e caraffe, che andavano gridando per le contrade, bicchieri, caraffe, non si ardivano più di profferire questo secondo nome, gridando in vece bicchieri, ampolle, per paura che il popolo gli mandasse per la peggio.

Saliti il medesimo giorno in Campidoglio, gittarono giù la statua di marmo del Pontefice, che pochi

335 mesi innanzi, quando aveva scacciato da sè i nipoti e levate le gravezze, vi avevano essi medesimi posta, e le troncarono il naso e un braccio. Due giorni appresso pubblicarono un bando, crescendo vie più la moltitudine e la rabbia, che per tutto il dì seguente ciascuno, (a pena d'essere riputato per traditore ed infame e da bruciarsegli la casa) dovesse abbattere e spezzare l'armi, che per avventura tenesse, della tanto nemica, come dicevano, a quel popolo e tirannica famiglia Caraffa. Il quale comandamento fu eseguito non senza grave danno delle belle arti, rompendosi e scancellandosi le insegne di molti sontuosi edifizj.

Nè più v'era freno alcuno. Ricordandosi di nuovo della statua del Papa, nè parendo loro di averla malconcia abbastanza, vi ritornarono a grida, come se a gran valentía andassero, e le mozzarono la testa. Poi permisero a maggiore scorno che un Ebreo vi ponesse per lungo tempo sopra la sua berretta gialla in vendetta dell'ordinazione fatta da Paolo che gli Ebrei, perchè potessero discernersi dai Cristiani, quel segnale portassero. Quindi continuando negli scherni, che sarebbero giuochi da ragazzi se non fossero enormità d'uomini vili, ruotolarono quella testa in mezzo ad infiniti schiamazzi per tutta Roma, e finalmente la gettarono in fiume. Bollivano loro le mani; guardando intorno a qual nuovo disordine e' dovessero darsi in preda, poco mancò che non andassero infuriati alle case dei mercatanti genovesi & fiorentini, dai quali, pel grano della Camera che avevano fatto distribuire, si tenevano molto gravati. Se alcune più moderate persone non s'intromettevano, i mercanti di grano avrebbero imparato che mal si guadagna a spese del popolo, e male si mercanteggia con la fame.

Ora, sfogata la rabbia contro ai sassi inanimati, nè vedendo più cosa contro cui voltare il furore potessero, le turbe sommosse incominciarono a pensare ai casi loro; perchè pensiero non avevano di ribellarsi o di cercare un altro governo, nè vedevano in niuna

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