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Quelli ch'anticamente poetaro
L'età dell'oro e suo stato felice,
Forse in Parnaso esto loco sognaro.
Qui fu innocente l'umana radice;
Qui primavera sempre ed ogni frutto;
Nettare è questo di che ciascun dice.
Io mi rivolsi addietro allora tutto
A' miei Poeti, e vidi che con riso
Udito avevan l'ultimo costrutto:

Poi alla bella Donna tornai 'l viso.

CANTO VENTESIMONON 0.

ARGOMENTO.

Dice il Poeta, che andando con Matelda lungo le sponde del fiume Lete, vide nella foresta un lucentissimo splendore, e per l'acre udì una soave melodia, ed in oltre osservò una processione, in cui veniva un Grifone traente un carro trionfale, che giunto a lui dirimpetto si fermò con tutta la gente che lo accompagnava.

Cantando come donna innamorata,
Continuò col fin di sue parole:
Beati, quorum tecta sunt peccata.
E come ninfe che si givan sole

Per le selvatich'ombre disiando
Qual di fuggir, qual di veder lo Sole,

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Allor si mosse contra 'l fiume, andando
Su per la riva, ed io pari di lei,
Picciol passo con picciol seguitando.

Non eran cento tra' suoi passi e i miei,
Quando le ripe igualmente dier volta,
Per modo ch'a levante mi rendei.

Nè anche fu così nostra via molta,
Quando la Donna tutta a me si torse,
Dicendo: Frate mio, guarda ed ascolta.
Ed ecco un lustro subito trascorse
Da tutte parti per la gran foresta,
Tal che di balenar mi mise in forse.
Ma perchè'l balenar, come vien, resta,
E quel durando più e più splendeva,
Nel mio pensar dicea: Che cosa è questa?
Ed una melodia dolce correva

Per l'aer luminoso; onde buon zelo
Mi fe riprender l'ardimento d'Eva,

Che, là dove ubbidia la terra e il cielo,
Femmina sola, e pur testè formata,
Non sofferse di star sotto alcun velo;
Sotto 'l qual, se divota fosse stata,
Avrei quelle ineffabili delizie
Sentite prima, e poi lunga fiata.

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Mentr'io mandava tra tante primizie Dell'eterno piacer tutto sospeso,

E disioso ancora a più letizie,

Dinanzi a noi, tal quale un fuoco acceso,

Ci si fe l'aer, sotto i verdi rami,

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E il dolce suon per canto era già inteso.

O sacrosante Vergini, se fami,
Freddi, o vigilie mai per voi soffersi,
Cagion mi sprona ch'io mercè ne chiami.
Or convien ch' Elicona per me versi,
E Urania m'aiuti col suo coro,
Forti cose a pensar, mettere in versi.
Poco più oltre sette alberi d'oro
Falsava nel parere il lungo tratto
Del mezzo, ch'era ancor tra noi e loro;

Ma quando i' fui si presso di lor fatto,
Che l'obbietto comun, che'l senso inganna,
Non perdea per distanza alcun suo atto;
La virtù ch'a ragion discorso amman na
Siccom'egli eran candelabri apprese,
nelle voci del cantare, Osanna.
Di sopra fiammeggiava il bello arnese
Più chiaro assai, che luna per sereno
Di mezza notte nel suo mezzo mese.
lo mi rivolsi d'ammirazion pieno
Al buon Virgilio, ed esso mi rispose
Con vista carca di stupor non meno.
Indi rendei l'aspetto all'alte cose,
Che si movieno incontro a noi si tardi,
Che foran vinte da novelle spose.

La Donna mi sgridò: Perchè pur ardi

Si nell'affetto delle vive luci,

E ciò che vien diretro a lor non guardi?
Genti vidio allor, com'a lor duci,
Venire appresso vestite di bianco;
E tal candor giammai di qua non fuci.

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L'acqua splendeva dal sinistro fianco,
E rendea a me la mia sinistra costa,
S'io riguardava in lei, come specchio anco.
Quand' io dalla mia riva ebbi tal posta,
Che solo il fiume mi facea distante,
Per veder meglio a' passi diedi sosta;
E vidi le fiammelle andare avante,
Lasciando dietro a sè l'aer dipinto,
E di tratti pennelli avean sembiante,
Si che di sopra rimanea distinto
Di sette liste, tutte in quei colori,
Onde fa l'arco il Sole, e Delia il cinto.
Questi stendali dietro eran maggiori

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Che la mia vista; e, quanto a mio avviso,
Dieci passi distavan quei di fuori.

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Sotto così bel ciel, com' io diviso, Ventiquattro seniori, a due a due, Coronati venian di fiordaliso.

Tutti cantavan: Benedetta tue Nelle figlie d' Adamo, e benedette Sieno in eterno le bellezze tue.

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Poscia che i fiori e l'altre fresche erbette,

A rimpetto di me dall' altra sponda,

Libere fur da quelle genti elette,

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Sì come luce luce in ciel seconda,

Vennero appresso lor quattro animali,
Coronato ciascun di verde fronda.

Ognuno era pennuto di sei ali,

Le penne piene d'occhi; e gli occhi d'Argo, 95 Se fosser vivi, sarebber cotali.

A descriver lor forma più non spargo
Rime, lettor; ch' altra spesa mi strigne
Tanto, che in questa non posso esser largo.
Ma leggi Ezechiel, che li dipigne
Come li vide dalla fredda parte
Venir con vento, con nube e con igne;
E quali li troverai nelle sue carte,
Tali eran quivi, salvo ch' alle penne
Giovanni è meco, e da lui si diparte.

Lo spazio dentro a lor quattro contenne
Un carro, in su duo rote, trionfale,
Che al collo d' un grifon tirato venne.

Ed esso tendea su l'una e l'altr' ale
Tra la mezzana e le tre e tre liste,

Tanto salivan, che non eran viste;

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Si ch'a nulla, fendendo, facea male.

Le membra d'oro avea quanto era uccello,

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E bianche l'altre di vermiglio miste.
Non che Roma di carro così bello
Rallegrasse Africano, ovvero Augusto;
Ma quel del Sol saria pover con ello;
Quel del Sol che sviando fu combusto,
Per l'orazion della Terra devota,
Quando fu Giove arcanamente giusto.

Tre donne in giro dalla destra ruota,
Venian danzando; l'una tanto rossa,
Ch' a pena fora dentro al fuoco nota:
L'altra era, come se le carni e l'ossa
Fossero state di smeraldo fatte;
La terza parea neve testè mossa:

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