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spiegate mossero furiosamente ad un luogo, che allora chiamavasi Ajrale de' Grassi, dove misero a sacco ogni cosa, e fecero altri mali più gravi; e ben più riprovevole sarebbe stato l'eccesso, se men vicino si fosse trovato il Principe, che potè ben presto sedar quel tumulto, ed impedire che il villaggio di Grugliasco fosse dai furiosi assalitori agguagliato al suolo. I delinquenti furono condannati a pagare la che, somma di quattrocento fiorini; che per altro non furono destinati a ristorare i Grugliaschini dei danni sofferti; perocchè si giudicò che tali danni fossero una punizione ripedre spondente all'audacia con cui avevano tentato di sottrarsi alla signoria di Torino.

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Frattanto il principe Amedeo d'Acaja vivamente bramava fig il possesso del greco principato di cui portava il nome, il conte Rosso mostravasi ben disposto a favorirlo; e tanto edi più accendevasi nell'animo del principe Amedeo una tal bramosia, in quanto che erano di fresco venuti a Torino Gioanni Lascaris, ed altri signori ragguardevoli dell'Acaja a pigiurargli fede, e a promettergli di fare ogni sforzo per ri

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cuperar que' paesi. Innanzi a tutto il principe Amedeo avvisò di ottenere come di fatto ottenne da Clemente VII una dichiarazione, che conteneva: non avere S. S. con la permissione data al re di Sicilia di poter vendere i principati dell'Acaja e della Morea, preteso di pregiudicare ai diritti pred alle ragioni, che spettar potessero ad Amedeo, ed anzi cassare ed annullare tal vendita. Ottenuta ch'ebbe Amedeo questa dichiarazione, già fatto certo di avere del suo partito Gioanni Lascaris, che signoreggiava la Grecia, si strinse in lega co' Veneziani in forza di un trattato del 7 luglio 1391, allo scopo di ricuperare la città di Argelli nella Morea, ch'era stata occupata dal despota Teodoro Paleologo: assi curato poi d'ogni loro assistenza da Nereo Rajolis, cavaliere fiorentino, e dal signor di Cosciuto de' primati del paese d'Acaja, spedì colà Pietro di Narbona, Umberto Provana, ed Umberto Favre, suoi ambasciatori, acciocchè vedessero, se per via di accordo, senza venire alle armi, si potevano riavere quegli stati pretesi: col maneggio di questi inviati si venne ad un trattato, che si stipulò in Venezia nella casa di' s. Antonio: lo sottoscrissero i deputati di Pietro di san

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Superano, governatore e reggente del principato d'Acaja, che furono Bartolomeo Bombino e Gioanni di Rostagno napoletani.

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Conteneva l'accordo che Amedeo sarebbe riconosciuto dagli stati di Acaja e di Morea per loro legittimo principe; che permetterebbe al Reggente di conservar quelle ville e quei beni che possedeva in feudo ligio per sè e suoi discendenti; con indulto generale sarebbero condonati i delitti di qualsivoglia natura; Nerèo Rajoli sarebbe confermato nella dignità di eastellano di Corinto; Amedeo sarebbe obbligato a condursi in Acaja entro il mese di marzo 1392, e frattanto a mandarvi un luogotenente generale, che a nome del Principe presterebbe giuramento nelle mani dei prelati e dei baroni del principato; e non si muterebbe cosa alcuna ne' privilegi del paese; e finalmente che nel seguente agosto dovesse Amedeo mandare cinquanta lancie e cinquecento fanti in Acaja a spese del principato. Dopo ciò il principe Amedeo si diede subito a comporre un esercito di molti suoi militi, ed il comune di Torino, e quello di Pinerolo ben volontieri lo fornirono di alcune agguerrite squadre; se non che un funesto avvenimento, accaduto indi a poco, obbligò il principe a sospendere l'impresa. Il conte Rosso, che bramava di sostener quella impresa, trovavasi a quel tempo in condizione molto prospera: l'imperatore Venceslao lo investiva de' suoi diritti su Chivasso, sul Nicese contado, sopra il luogo di Cuneo, e le valli di qua dal collo di Tenda; insomma su tutti i paesi già da lui acquistati, e gli abitatori dei medesimi gettavansi con gran confidenza nelle paterne sue braccia. Coronato di gloria, riverito ed amato da' sudditi suoi, avendo appena compito l'anno trentesimo dell'età sua, il conte Rosso sembrava promettere agli affezionati suoi popoli un regno lungo e felice. Era questo il voto di essi tutti: questo voto non fu esaudito. In occasione d'una caccia, ei cadde, in vicinanza di Tonone, dal suo cavallo, che fu spaventato alla vista d'un cinghiale che se gli avventava contro. Parve leggera una ferita che il conte ricevette nella sua caduta, ma da essa ei fu condotto alla tomba. Sinistri sospetti nacquero sull'innaspettata sua morte; il medico di lui, che era un

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Pietro di Stupinigi, fu accusato di averlo avvelenato; e a questo infelice fu mozzo il capo dal carnefice in Borgo in Bressa: la sua innocenza fu riconosciuta sotto il successore di Amedeo VII, il quale restituì per lo meno all'onore la memoria dell'infelice medico.

La precoce morte di Amedeo VII fece sospendere, come si accennò poc'anzi, la spedizione del principe d'Acaja; perocchè avendo quel conte nel suo testamento nominata tutrice del suo figlio pupillo, che appena trovavasi in età di otto anni, l'avola Bona di Borbone, in vece della madre. Bona di Bery, nacquero nella Savoja per l'una e per l'altra due fazioni, che obbligarono il principe d'Acaja a recarvisi e rimanervi, fintantochè le differenze furono composte colla generosa rinunzia alla tutela che ne fece la madre. Quando che il principe d'Acaja vide le cose ridotte alla massima tranquillità nella Savoja, ritornossene in Piemonte, ed avendovi ritrovato il vecchio marchese di Saluzzo Federico II per nulla disposto a prestare il dovuto omaggio al nuovo sabaudo conte Amedeo VIII, lo vinse in una battaglia, fece 22 prigioniero il di lui figliuolo Tommaso, lo condusse a Savigliano, ed indi a Torino. Il marchese Federico ottenne bensì una tregua da durare quattro anni, ma ricusando di pagare le spese della guerra, il suo figliuolo fu tenuto prigione sino alla morte del proprio genitore, avvenuta il 15 d'ottobre del 1596. Tommaso III che gli succedeva nel dominio della marca fu poi messo in libertà mediante lo sborso di ventidue mila cinquecento ducati d'oro.

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Il principe d'Acaja, dall'animo del quale non cadeva per anco la speranza d'irsene in Grecia, raccoglieva nuove soldatesche per la meditata impresa; ma facevale mantenere dai vicini stati, e principalmente dai monferrini paesi, a malgrado della pace che sussisteva tra lui e Teodoro II. Fu questo un gran torto, di cui i suoi sudditi ebbero a provare le più funeste conseguenze. Il marchese di Monferrato dopo varie inutili rimostranze e minacce, ruppe in un subito la guerra ad Amedeo d'Acaja nel dì 8 di maggio, e alle squadre di lui ne oppose altre, che sotto la scorta di Bonifacino o Facino Cane, cominciarono a devastare il territorio di Chieri. Allora il principe d'Acaja marciò colle sue

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truppe alla volta di Mondovì; si fece padrone di quella città e del suo territorio, e venne quindi ad occupare molte terre del Canavese e del Monferrato. Questa guerra fu una delle più disastrose che abbiano desolato il Piemonte. Facino Cane nel mese di novembre del 1396 venne fin sotto le mura di Torino; e poichè il torinese presidio si mostrò risoluto di fargli la più gagliarda resistenza, stette contento a devastarne il territorio, Ritornò furibondo nel mese di febbrajo del seguente anno, e mandò in fiamme i molini di questa città; e due mesi dopo si ricondusse nell'agro torinese, e vi commise orribili eccessi. Allora il presidio di questa piazza fece una vigorosa sortita; pose in fuga la terribile banda di Facino, e presso il ponte di Po fece prigionieri p parecchi dei fuggenti soldati, i quali furono poi calati nella torre di porta susína, dove col mezzo di una fune loro furono per alcuni giorni somministrati pane ed acqua, perchè non vi perissero della fame; ma siccome eran eglino ben piuttosto masnadieri, che soldati, da molti cittadini altamente si chiedeva che fossero presto commessi al carnefice; e già si erano piantate le forche a Pozzo di Strada, perchè vi fossero impiccati, quando venne da qualche sapiente della città proposto, che di que' scellerati militi si offerisse la restituzione a Facino Cane, purchè egli restituisse altrettanti prigionieri che erano nelle sue mani, e appartenevano a torinesi famiglie. Una tale proposta fu immantinente accettata, e posta in esecuzione; frattanto il terribile Facino Cane fu bensì respinto lunge da questa capitale; ma in altre regioni subalpine da lui percorse, metteva in fiamme le rustiche case, distruggeva le campagne, e ne conduceva prigionieri gl'infelici terrazzani, i quali per riscattarsi erano costretti a sborsargli esorbitanti somme di danaro. In così dolorosi frangenti il principe d'Acaja faceva quanto era in lui, affinchè i suoi popoli ricevessero il minor danno pos→ sibile dalle violente irruzioni delle monferrine squadre: ordinava che tutte le vittovaglie, e gli strumenti atti ai lavori campestri si riducessero nei fortilizi, affinchè ai nemici mancasse ogni allettativo di fermarsi nel nostro paese. Sgra ziatamente a questo tempo cominciò serpeggiare un'epidemia, che mietendo molte vite in Torino, e nei dintorni di questa

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città, infondeva negli animi il terrore; giacchè l'arte medica parea che non trovasse mezzi nè di guarirne gli assaliti, nè di attenuarne i perniciosi effetti; ma le pubbliche supplicazioni mossero il cielo a pietà; e presto cessò d'imperversare il morbo distruggitore. Le grandi spese, a cui il principe d'Acaja dovea soggiacere durante quella lotta terribile, lo avrebbero costretto ad aggravare di nuovi balzelli i suoi sudditi, s'egli non avesse amato piuttosto di alienare alcune sue possessioni per poter provvedere ai più urgenti bisogni. for Vendette adunque al comune di Pinerolo, mediante il prezzo di ottocento cinquanta fiorini d'oro, di soldi trentadue tem viennesi ciascuno, la metà di Buriasco inferiore, che eragli prpervenuta poco tempo innanzi (1599) in virtù di una percala muta fatta coi canonici della collegiata della SS. Trinità di elo Torino; ed oltre a questa vendita, fecene altre per avere in ua, pronto somme di danaro sufficienti a provvedere ai più présben santi affari. Nè ommetteva il nostro Principe di occuparsi della alpubblica amministrazione di Torino, ben conoscendo che fice: qualche migliore ordinamento richiedevasi nelle cose spetper tanti al consiglio civico. Già il conte Amedeo VII aveva fatta concessione alla città di Torino di erigere il consiglio a certo numero di consiglieri; ora il nostro principe Amedeo altre volle saviamente dare certe leggi, onde ne fossero gover enehati meglio che per l'addietro i pubblici negozii. Ciò fece le, con una patente data in Moncalieri l'anno 1589, il dì 12 le fa di novembre; la quale patente conservasi negli archivi di questa capitale. Stabilisce dunque il provvido Amedeo di Acaja, che questa città sia governata da quattro rettori da Con eleggersi fra tredici sapienti, e che il loro uffizio duri per quattro mesi; ordina che il maggior consiglio sia per allora composto di quarantadue sapienti, e che questo numero si possa aumentare per l'avvenire, secondochè lo credano opportuno i rettori, e il consiglio privato coll'assentimento del Principe; che ciascun consigliere debba intervenire alle adunanze del consiglio civico tranne il caso di legittimo impedimento; che nulla si possa proporre nel consiglio generale, se non v'intervengono almeno venticinque consiglieri; che non si possa congregare il consiglio pubblico o privato senza l'assistenza del vicario e del giudice, che se

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