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pace: Firenze vivamente la desiderava: il Papa aveva spedito il cardinale di santa Croce per conchiuderla. Il prolungare le ostilità avrebbe giovato vieppiù alla repubblica di Venezia che non voleva la guerra se non per raccoglierne quasi intieramente il frutto. Amedeo, abilissimo politico, pesava ben bene ogni cosa. Non voleva nè esercitare il predominio in Italia, nè sofferire che altri lo esercitasse. Egli adunque ritiravasi dalla lega, quando la continuazione della guerra non aveva più alcun altro scopo che quello di dare un padrone alla penisola.

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Ciò che vuolsi notare si è che il trattato di Torino facilitò la pace, che il cardinale di s. Croce e il marchese Nicolò II d'Este trattavano in Ferrara tra lo stesso Visconti e le due repubbliche di Venezia e di Firenze ed altri collegati. Perocchè, quantunque il nostro Duca nel promettere al Visconti di aver per nemici proprii i nemici di lui, avesse eccettuato i Veneziani e i Fiorentini, nondimeno, cessando la guerra per parte sua, il Visconti avrebbe avuto forze sufficienti da poter reggere, sebbene con qualche svantaggio, agli assalti de' Veneziani. Adunque, prima che sei mesi fossero scorsi dall'accordo di Torino, fu dai ministri delle potenze interessate sottoscritta la pace in Ferrara; della qual pace l'articolo più importante fu questo, che il duca di Milano cedeva ai Veneziani Brescia e Bergamo. Si notevole acquisto fatto per li Veneziani non poteva a meno d'ingenerare in quella repubblica una grande speranza di dover per l'innanzi primeggiare in Italia. Ma come d'ordinario addiviene che la potenza è cagione d'invidia, e dall'invidia nascono gli ostacoli a maggiori avanzamenti; così nel tempo stesso che i Veneziani cominciavano a pigliar vantaggio nelle cose di terraferma, l'occhio geloso degli altri potentati, intenti per l'addietro ai soli Visconti, cominciò pure ad esser rivolto sopra Venezia. I Fiorentini specialmente, che gli anni addietro, per timore de' Visconti, erano stati sì cordialmente ristretti co' Veneziani, vedendo ora come l'immenso danaro, che da loro erasi speso in quest'ultima guerra, avea solo servito all'accrescimento del dominio veneto, nè altro avevano per loro stessi ottenuto ne' capitoli di Ferrara, tranne l'esenzione de' dazii nel porto di Genova, di cui Filippo

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Maria era signore, cominciarono a riguardare con altro animo le cose de' Veneziani, de' quali altresì, dopo l'acquisto di Pisa, avean concepito qualche rivalità in fatto di commercio. Vero è che essendo, tre anni dopo la pace di Ferrara, mancato di vita Martino V, e succedutogli col nome di Eugenio IV Francesco Condolmieri, i Veneziani sperarono che per l'aderenza di un Papa, loro concittadino, potessero agevolarsi la strada alla grandezza che meditavano. Ma il re Alfonso d'Aragona, che fu poi stabilito sul trono di Napoli, e la potenza pur di que' tempi, fatta maggiore in Italia, dei duchi di Savoja, mettevano grande peso nell'altra parte della bilancia; oltrecchè i Veneziani, col far tagliare la testa al conte Carmagnola, si privarono d'un valentissimo braccio che per quattro lustri avea sempre portato la superiorità a quella parte per cui combatteva. Gli sguardi dei principi italiani furono dunque rivolti non più sui Visconti, la cui abbattuta dinastia era presso ad estinguersi, ma sulla repubblica di Venezia, la cui possanza già metteva in apprensione gl'italici potentati; la quale apprensione vieppiù s'accrebbe all'arrivo dell'imperatore Sigismondo, che venne finalmente a ricevere la corona di ferro a Milano, e il diadema imperiale a Roma. Filippo Visconti lo provocò alla guerra contro Venezia, esagerando tutto ciò che da quella repubblica fu usurpato sull'impero. Anche il duca di Savoja ebbe l'invito di staccarsi dai Veneziani, e di unire contro di loro le sue forze a quelle dell'impero.

Ei raccoglie un buon nerbo di soldati per la più parte Torinesi, e li manda a titolo d'omaggio all'Imperatore; ne affida il comando al suo figliuolo Amedeo principe di Piemonte, il quale avea poco prima conchiuso il suo matrimonio con Anna figliuola del re di Cipro: muovendo questi per la concertata spedizione, aveva con sè i principi di Borgogna e di Berry, i quali erano anzi dediti ai piaceri che all'armi. Al contrario il giovine principe di Piemonte già era molto bene istrutto nelle cose guerresche; onde l'augusto suo genitore confidava che avrebbe dato prove di valentia e di bellico sapere; se non che il principe Amedeo fu sovrappreso da una malattia gravissima, per cui morì nel castello di Ciriè addì 11 d'agosto del 1451; e il suo cada35 Dizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

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vere venne trasportato con funebre corteggio in Pinerolo, ed ivi deposto nel coro della chiesa dei frati minori. Nessuna ulteriore sollecitazione più vale ad ottenere che il duca di Savoja continui gli atti ostili contro Venezia: egli addolorato della perdita del suo primogenito dichiara di volersi rimanere neutrale in quella lotta.

La precoce morte del principe di Piemonte fu pianta dai Torinesi, e da tutti gli altri popoli subalpini. Perocchè aveva egli già fatto concepire di se le più belle speranze. Quantunque giovanissimo già erasi mostrato capace di sostenere con vantaggio delle piemontesi popolazioni la dignità di luogotenente ducale. Furono ammirate le disposizioni da lui date a pro delle due città di Torino e di Pinerolo. In quest'ultima stabili da prima la sua residenza, e vi si occupò seriamente a ben reggere ogni ramo di pubblica amministrazione; e di fatto, appena scuoprì la non curanza di alcuri pubblici amministratori, e conobbe i tristi effetti che necessariamente ne derivavano, deputò commissarii, cui diede il carico d'indagare attentamente ogni cosa e di conoscere la radice di tanto male per poterla isvellere: quindi con sue lettere patenti date in Pinerolo nella sala del castello 'addì 22 dicembre del 1421 diede sicure norme per l'amministrazione del pubblico danaro; stabilì tutto ciò che si avesse ad eseguire dai pubblici impiegati, e diede insomma tutti i migliori provvedimenti che fossero atti a soffocare ogni seme di discordia.

Abbiam detto che Amedeo VIII, subito dopo la morte del dilettissimo suo primogenito, dichiarò di volersi rimanere neutrale nella guerra contro Venezia; ma il marchese di Monferrato Gian Giacomo non ebbe la stessa prudenza ; il desiderio di ricuperare alcune piazze che gli erano state tolte dal Visconti, lo spinse ad abbracciare la causa dei Veneziani; e ben presto se n'ebbe a pentire. Francesco Sforza, prode generale e genero di Filippo Visconti, mosse con buone truppe, e s'impadronì d'una gran parte delle terre del Monferrato, abbandonandole al sacco. In tanta sua disgrazia il marchese fu costretto a ricorrere al duca di Savoja, il quale, mentre lo Sforza meditava di sorprendere Asti, fece partire celeremente le milizie di Torino e di altri

comuni alla volta di quella città, che perciò non cadde in man del nemico. Filippo Visconti vedendo come il nostro Duca mostravasi risoluto e fermo di continuare le ostilità a pro del monferrino, pensò un'altra volta alla pace, che fu poi conchiusa mediante la solenne promessa di restituire le terre già tolte al marchese. Se non che una siffatta restituzione, a cui Filippo erasi obbligato stipulando l'accordo del 2 febbrajo 1434, fu malamente eseguita.

Intanto Amedeo non vedeva nemmeno compiersi da Gian Giacomo verso di lui la convenzione stipulata nel 1432, in forza della quale i luoghi di Chivasso, di Trino, e tutta la parte del Monferrato che giace alla sinistra del Po, dovean passare nel suo dominio; il perchè dopo varie inutili intimazioni, egli ricorse di bel nuovo alla forza delle armi: di ciò atterrito Gian Giacomo, si rivolse al Visconti per averne gli ajuti si venne allora ad un compromesso: si radunarono nel castello ducale di Torino gli ambasciadori di Filippo, e quelli del duca di Savoja e del marchese: ivi si stabilì per unanime consenso degli ambasciadori, che Gian Giacomo riconoscerebbe i suoi stati in feudo dal duca Amedeo, e gli cederebbe Chivasso, Settimo, Azeglio e Brandizzo, rinunziando anche ad ogni pretensione sul Canavese.

Siccome prima di quest'accordo sottoscritto nel 1435, Amedeo aveva già ottenuto dal marchese di Monferrato, verso il Tanaro, la Trinità, s. Albano, Piozzo, la Bastita e Rocca de' Baldi, così ciascun vede che per questi considerevoli acquisti, e per quelli ottenuti in virtù dell'anzidetto accordo, sempre più divenne migliore la condizione di Torino, capitale dello stato piemontese, a cui si unirono così importanti paesi. Della pace stipulata in questa capitale nel 1435, fu principal mediatore il vescovo di Torino Ajmone di Romagnano. Di questo prelato gioverà dare alcune brevi notizie. Ajmone, dell'illustre famiglia dei marchesi di Romagnano, fu promosso al vescovado della chiesa torinese dal papa Giovanni XXIII addì 13 luglio 1411. Sul finire di quest'anno fu consecrato da Francesco Il arcivescovo di Milano. Il suo zelo come pastore delle anime si riconosce da due sinodi da lui tenuti in questa chiesa metropolitana. La sua sollecitudine per le cose temporali si scorge da varie

liti vivamente da lui sostenute, e specialmente in una sua controversia contro l'abate di s. Mauro, il quale voleva esimersi dal dare in ogni anno al vescovo di Torino un toro, siccome avevano usato di fare gli abati suoi predecessori. I suoi accorgimenti politici si ravvisano abbastanza dai maneggi da lui adoperati, affinchè si conchiudesse in Torino il trattato di pace, del quale abbiam testè fatto cenno. Colla sua sagacità il vescovo Ajmone accrebbe notevolmente le rendite della sede arcivescovile di Torino. Dolendosi egli colla Santa Sede, che troppo scarsi, per cagion delle passate guerre, divenivano i proventi della vescovile sua mensa, ottenne da papa Martino V, che tutti i beni dell'abazia di s. Giacomo di Stura fossero applicati, come lo sono tuttora, a questo vescovado. Il decreto, con cui fu soppressa la badia di Stura ed incorporata alla mensa vescovile di Torino, è del 9 giugno 1422: una tale unione venne dappoi confermata dal concilio di Basilea nel 1457.

Il sagace duca Amedeo prevedendo la confusione che dovea nascere nello stato di Milano, quando Filippo, che già trovavasi molto avanzato negli anni, senza che gli rimanesse la speranza di aver prole, venisse a morte, stipulò addì 25 di settembre del 1437 un accordo col monferrino signore; in virtù del quale lo stato milanese fu da essi diviso per modo, che la parte cispadana al di là del Sesia ne dovesse appartenere alla casa di Monferrato, e la traspadana a quella di Savoja. Frattanto la pace più perfetta regnava in Torino e in tutto il Piemonte sotto il saggio governo di Amedeo VIII; pace che durò dal 1435 sino al 1447; nel qual anno morì il duca Filippo, ultimo de' Visconti.

A malgrado di questi prosperi avvenimenti, il nostro Duca non poteva non trovarsi in una profonda tristezza. La peste, orribile flagello, da cui i governi d'Europa seppero dappoi guarentire le popolazioni, avea fatto nel 1428 una così grande strage dei Torinesi, ch'egli si era risoluto di trasferire a Chieri l'università degli studi, fondata ventitre anni prima da Ludovico principe d'Acaja. A questo modo allontanò dal pericolo i giovani consecrati alle scienze, ed i loro professori, ma non gli venne fatto di sottrarne Maria di Borbone, sua consorte, che fu una delle infelici vittime dell'influenza

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