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diritto di cittadinanza col mezzo di due scritture da lui medesimo inventate. Erano due donazioni del duca Carlo 1; l'una di trecento mila scudi ai predetti cantoni; l'altra di seicento mila agli otto cantoni delle leghe, e per cauzione le piazze migliori della Savoja. Quantunque fossero false quelle scritture, e non potessero gli stessi Elvetici ignorarne la falsità, il Duca s'indusse pure a promettere di pagarne una buona parte, per non venire con essi alle mani, come gli minacciavano se non pagava. Ma prima di obbligarsi formalmente se n'era doluto al Papa, all'Imperatore, a Margherita d'Austria, ai cui uffizii furono sordi gli Svizzeri.

In tanto per queste cagioni, e per le sciagurate vicende a cui soggiaceva il nostro paese, il pubblico erario ogni s dl più s'impoveriva. La città di Torino iva facendo donativi: di somme di danaro al Duca ogni volta che ne riceveva qualche rilevante concessione; ma quel danaro non era sufficiente che in parte a sostenere il decoro della casa del: Sovrano. Tra i favori che il Duca concedette si hanno a rammentare i decreti, con cui confermò questa città ne' suoi antichi privilegi e tolse gli abusi per cui era impedito il corso della giustizia, e quelli per cui facevansi con violenza le riscossioni fiscali: prima di lui venivano arrestati e SOstenuti in carcere tutti i consiglieri del comune, quando accadeva che non si pagassero ai debiti tempi le pubbliche imposizioni; e il Duca stabili che portassero la pena dell'indugio nell'adempiere questi obblighi solamente i sindaci e le altre persone destinate a riscuotere le tasse.

Più volte Carlo III si vide costretto a raunare l'assemblea degli Stati Generali, cioè i personaggi dei tre Stati, che si trovavano in Piemonte e nelle provincie ad esso di fresco unite, tranne la valle d'Aosta, che godea di speciali usi, ed aveva le sue particolari assemblee per provvedere ai bisogni di quel ducato. Sotto questo Duca quattro volte si tenne in Torino quell'assemblea, cioè negli anni 1509, 1514, 1518, e 1530; ed una volta si tenne in Vigone nel 1522; ma i sussidii che ne riceveva il Duca erano ben lontani dal metterlo in grado di riparare ai disastri ond'erano colpiti i suoi sudditi, e a sopperire ai crescenti bisogni dello stato.

In quel frattempo accadevano avvenimenti che celebra

vansi in questa capitale con tanta magnificenza, che faceva un singolare contrasto colla comune miseria. Stupende furono le feste che qui si fecero quando Francesco nell'agosto del 1515, avuta notizia dei vantaggi che le sue schiere riportavano in Piemonte, sen venne sino a Moncalieri, ove Carlo III lo ricevette, e condusselo quindi come in trionfo a Torino, ove dal comune, ed eziandio dai cittadini ebbe grandi dimostrazioni di ossequio. Più solenni ancora qui furono le feste per le nozze di Beatrice di Portogallo col duca Carlo III, il quale per questo maritaggio divenne cognato di Cesare. Il nostro Duca accolse l'augusta sposa nel modo il più splendido a Nizza marittima, e di là condussela a Torino, ove fece il suo festivissimo ingresso in marzo del 1522. Le principali persone del Piemonte riunite in Vigone facevano alla nuova Duchessa un donativo di cinquanta mila fiorini; e si fu in quell'occasione, che ivi si tenne la sopraccennata assemblea dei tre Stati.

Non molto tempo innanzi accadevano avvenimenti, per cui i Torinesi, quantunque oppressi da tante sciagure, pure aprivano per alcuni giorni i loro animi alla letizia. Il sommo pontefice Leone X, desideroso d'illustrare la sua famiglia quanto più potesse, appena salito al soglio papale, faceva domandare (1515) per moglie a Giuliano suo fratello, già creato duca di Sora la principessa Filiberta di Savoja, sorella del duca Carlo II. Questi sollecitato dall'Imperatore e dal re di Francia s'indusse ad accondiscendere alla dimanda di quel Papa. Le nozze si festeggiarono con istraordinaria splendidezza in Torino, e quasi allo stesso tempo in Firenze; ma le feste che Leon X ordinò in Roma per ricevere l'augusta sposa del suo fratello, furono oltremodo sontuose. Scrisse il Bembo, allora segretario di quel Pontefice, che vi si spesero ben cento e cinquanta mila ducati d'oro, somma grandissima se si considera che le più ricche doti che allora si davano alle principesse reali di Francia, non arriva vano mai a cinquanta mila ducati; e fu il primo saggio che diede quel sommo Pontefice del suo genio inclinatissimo alla magnificenza ed al fasto. Intanto per quel maritaggio Leone X vedeva la sua casa, i cui membri, venti lustri prima, si onoravano dell'unico titolo di banchieri della ro

mana corte, imparentarsi non solo con una delle più nobili d'Italia, ma eziandio col re di Francia; perciocchè la madre di Francesco 1 era anche sorella di Filiberto; onde Giuliano De Medici, fratello di quel Papa, mostrò di compiacersi di questo parentado, non altrimente che se lo avesse contratto con qual si fosse più gran Monarca.

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Leon X sommamente soddisfatto di queste nozze, e del modo con cui i Torinesi avevano accolto il suo fratello Giuliano, volle erigere la cattedrale di Torino a chiesa metropolitana, separandola affatto da ogni giurisdizione di quella di Milano, ed assoggettandole a comprovinciali i vescovati di Mondovì e d'Ivrea. Elesse intanto a primo arcivescovo di Torino Gioanni Francesco Della Rovere, nipote del torinese vescovo Gioanni Ludovico, a cui succedette in questa sede. Subito monsignor Gioanni Francesco Della Rovere dichiaravasi affatto esente da ogni giurisdizione ed autorità dell'arcivescovo di Milano; dichiaravasi ad un tempo soggetto unicamente alla S. S. con facoltà di portare nella propria chiesa e diocesi la croce inalberata, di usare del pallio nelle sacre funzioni, e di concedere in nome del romano Pontefice indulgenza plenaria nel giorno che avrebbe celebrato la prima messa nella sua chiesa cattedrale a tutti coloro, che in quel dì avessero visitato la chiesa medesima. La città di Torino non potè a meno di rallegrarsi di questi avvenimenti tanto più che il suo primo arcivescovo era in grandissima' stima non solamente presso il Papa, ma eziandio presso tutti i prelati di Roma. Per prendere possesso della sua sede, egli dipartivasi dalla città eterna, ed arrivato in Piemonte sul principiare di maggio del 1514, andava a soffermarsi in Vinovo, feudo di sua nobilissima prosapia, e di là notificava ai decurioni di questa capitale, che nel dì 29 di quel mese avrebbe fatto il solenne ingresso dalla porta di Susa. Ed infatti con luminosa pompa fu incontrato ed accolto così dal clero, come dagli ordini della città, le cui speranze che il di lui pontificato sarebbe riuscito di grande vantaggio a tutta la torinese diocesi, furono coronate di ottimo successo. Se non che, mentre queste cose intervenivano lietamente a Torino, parecchi feudatarii del Piemonte, ponendo in non cale la supremazia di Carlo III, che trovavasi in grandi imDizion. Geogr. ec. Vol. XXII.

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barazzi, trattavano in modo dispotico ed anzi tirannico i terrazzani soggetti alla loro feudale giurisdizione. Non segnaleremo tutti quei signorotti che allora abusando del proprio potere, facevansi abborrire dai loro sudditi; ma non possiam tacere di Riccardo IV, conte di Crescentino, della stirpe dei Tizzoni, il quale abbandonandosi alle sue infami passioni, eccitò colle sue scelleraggini e crudeltà il furore de'Crescentinesi, i quali addì 14 febbrajo del 1529 alle 3 ore di notte lo trucidarono, scannandone anche la consorte, i figliuoli, i famigli, e dopo averne saccheggiato il palazzo lo mandarono in fiamme.

Per le minaccie della Francia la duchessa di Savoja Beatrice, di troppo confidando nel patrocinio di Cesare, ne addimandò con istanza i più pronti soccorsi, e non ne ricevette che una lettera di condoglianza sulla perdita del di lei primogenito. Or dunque l'esercito francese, composto 'di venticinque mila uomini, alla cui testa si trovavano eccellenti condottieri, celeremente avanza vasi verso Torino. Il Duca, ik quale aveva sotto gli occhi i disastri sofferti da questa città e da tutte le terre subalpine manomesse ora dai Cesariani ed ora dagli Elvetici per aver egli abbracciato il partito, del Re, non avendo più cuore di vederle sacrificate al bellico furore, scrisse a tutte le provincie subalpine che si difendessero sino a tanto che paresse loro di poterlo fare utilmente; ma come si vedessero in pericolo di essere sopraffatte, cedessero alla forza riserbando a miglior tempo. al loro legittimo Principe l'affetto e la fede. Ciò fatto, raccomandò la stessa cosa al torinese municipio, partissene da questa città lasciando a governarla Ludovico di Savoja, conte di Pancalieri, e scortato da alcune schiere imperiali ricoverossi a Vercelli. Era il dì 25 di marzo quando il Duca partì; e nel dì 1.o del seguente aprile già si trovarono alle porte di Torino gli araldi del Re e l'esercito francese condotto dal marchese di Saluzzo, da Filippo Chabot, signor di Brione, e da Guglielmo conte di Fustemberga. Poco valse l'intrepidezza dei cittadini all'arrivo di oste così numerosa; non trovandosi la città sufficientemente munita di ripari, nè di popolo per ributtarne gli assalimenti. Ciò non di meno sentendosi minacciar fuoco e sangue dagli araldi del Re, se

tolta immantinente d'in sulle porte la croce bianca non vi mettevano i gigli d'oro, sdegnati anzi i cittadini dall'insoJenza, che atterriti dalle minaccie, deliberarono di porsi in difesa. Premevali con calde istanze ad obbedire ai voleri di Francesco il marchese di Saluzzo, antico avversario della casa di Savoja: ma i Torinesi, non sapendo risolversi di cedere così facilmente, lo andavano trattenendo con dilazioni; e frattanto il Duca, vedendo chiaro il pericolo in cui ulteriori indugi ponevano questa capitale, affrettossi a scrivere da s. Germano di Vercelli, ove ancor si trovava, ai sindaci ed ai consiglieri` di Torino affinchè provvedessero alla salute degli abitanti conforme agli ordini già da lui dati alle altre provincie. Allora il torinese municipio obbedi al Duca, protestando intrepidamente con pubblica scrittura del 3 d'aprile, che non intendeva con quell'atto di sommessione alla Francia, che i cittadini forzatamente facevano, nè per verun altro ch'ei far dovessero, di derogare menomamente ad alcuno dei privilegi della città, nè all'antico possesso dei principi di Savoja; ciò fatto ne uscì il conte di Pancalieri; e addì 4 di aprile l'ammiraglio Chabot pigliò per la Francia il formale possesso della città: i Francesi dapprima trattano da nemici i cittadini, ne oltraggiano parecchi e ne saccheggian le case. Francesco I munì di buon presidio questa città, ne diede il governo a Claudio Annebaldo dichiarandolo suo luogotenente generale, o vicerè di qua dai monti, e vi collocò il parlamento. Il marchese Francesco di Saluzzo, che aspirava a questa carica e se la prometteva dal Re, mirando l'esaltazione di Annebaldo, n'ebbe gran dispiacere, ma non ne diede per allora alcun segno. Fu allora un accorgimento del Re il non commettere tutto un paese al governo di un Principe, che ne possedeva una parte, della quale i suoi ascendenti già per varii secoli pretendevano di essere assoluti signori. D'altronde non era peranco spenta la memoria dei molti tentativi di quei marchesi, che aspiravano sempre alla sovranità di quel marchesato. Frattanto la più parte delle piazze subalpine cadde in mano dei capitani di Francia. Le terre e le castella del Piemonte si arrendevano con facilità sì perchè non avean mezzi sufficienti di opporsi alla violenza degli invasori, sì perchè il Duca nella sua debolezza

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