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vidi in Inferno e che udii (1). Mi mancano le parole; e dal grande orrore, non so che, nè come mi dire. Fui morto, e per misericordia di Dio permessomi ritornare al corpo a far penitenza; il che come sia avvenuto, dirò quanto più breve posso. Dappoichè l'anima mia con incredibile pressura e dolore del cuor mio fu uscita, subito, non so come nè da chi condotta, si trovò presentata al giudizio divino, trista tanto e tanto abbattuta, che quella grandezza di mestizia il mondo tutto comprendere e intendere non potrebbe. Tutti i miei peccati, fin de' menomi pensieri, furono patenti e manifesti non a me solo, ma a tutti i presenti, dei quali infinito era il numero che parevano essi peccati parlare e profferire (2) sè medesimi tumultuariamente. Dio buono, quanta fu la confusione che allora mi ricoperse! Quanta calamità di dolore immenso me misero circondó! Ne posso dirlo, né senza immenso spavento del cuore ripensarlo in modo veruno. Le cose che mi furono dette e dal Giudice e dagli Angeli circostanti e da' demonii, perocchè sono affatto ineffabili, non le posso con alcuna proprietà di parole fare altrui manifeste. Or, dettando la divina giustizia, in men d'un momento (3) fui tratto al luogo delle pene e d'Inferno e di Purgatorio, dove tante anime in diversi luoghi e in modi diversi vidi essere tormentate, che tanto numero d' uomini non reputavo che fin qui fosse stato al mondo o che ci sarebbe per essere mai (4). Maravigliosa cosa, e ch'io stesso non saprei ammirare abbastanza, tutto che quella moltitudine eccedesse di gran lunga ogni numero; io non pertanto, senza che alcuno me lo svelasse, si propriamente conobbi ed intesi le nazioni di ciascheduno, le sette (5), i meriti e i nomi e le persone come se in tutta la vita mia con ciascheduno di loro fossi particolarmente convissuto e allevatomi seco.

» Di molti le anime vidi tormentarsi in Iuferno, della cui salvazione nessuno avrebbe in questa vita mortale dubitato per il loro istituto di vita apparentemente ivi buono, i cui segreti mancamenti solo Dio ha conosciuti. Poi vidi in Purgatorio essere di molti riserbati a salute, che pe' costumi palesi di vita loro, i temerarii giudizi de' mortali alle pene d'Inferno cacciavano (6): e

(1) Par., XXIII, t. 19, 20: Se mo sonasser tutte quelle lingue... Al millesmo del vero Non si verria... (2) Inf., XXIII, 1. 10: Venieno i tuoi pensier' tra' miei Con simil atto e con simile faccia. · (5) Purg., XXV, 1. 29: Senza restarsi, per sè stessa cade Mirabilmente. — (4) Inf., III, t. 19: Si lunga tratta Di gente, ch'i' non avrei mai creduto Che Morte tanta n'avesse disfatta.

(5) Par., III, t. 55: E promisi la via della sua sella. − (6) Par., XIII, t. ult. : Non creda Monna Berta e Ser Martino, Per vedere un furare, altro offerère, Vederli dentro al consiglio divino; Chè quel può surgere; quel può cadere.

conobbi essere grave peccato prof sui morti nella fede di Cristo; perchla faccia, ma nel cuore ci vede ldd dizii sono abisso profondo, nè debb essere profanati. L'ordine e la qua delle pene di Purgatorio e di qu sono diversi molto da quel che i tori le fanno, i quali non acconcia spirituali che passano in tutto il misurano per comparazione delle c bili cose (1). Imperocché io che, da to (2), vidi secondo l'intelletto del pene, e sperimentai e con pienezza presi in pensiero, così come ch m'apparvero; adesso, richiamato a porale, nulla a voi propriamente quelle, siccome sono, e quali sonsè stesse, nè con alcuna maniera darvelo a imaginare (3). Quanto i meno e gli è altrimenti; e neppur proprietà delle cose future delle Sogno è quanto il volgo ne va pochissimi sono a chi in questa m allumina l'interno occhio della m in parte possano intendere come s nima sciolta da' vincoli della car note a noi parlare di cose non debba andare rimoto dall'essenza p io credo che a tutti voi debba esse Maggiori sono i beni che promet ne' cieli, e più gravi i mali che a' paransi ne' tormenti, incomparab ch'altri non possa credere o inte le cose che voi altri predicate in C celesti, o delle pene infernali, con sono puerili e somiglianti a balocco Qual è fuoco dipinto sul muro aw ė, anzi meno, ciocchè della beati e de' tormenti d'Inferno pnò l'est pensare, se raffrontisi con la veri! Ne' tormenti ho veduto in Infe titudine di cristiani, non solo di s di preti e monaci e monache, e ra e maritate, de' quali conobbi allor i nomi e lo stato e la condizione vita: tra' quali notai parecchi de' cittadini nostri; ond' io avrei più gere che di parlare (5). Di tutti c= e anco le forme de' tormenti secon del merito, variano di molto (6).

D

(1) Par., XXIX. Contro i predicanti (2) Purg., XXV, t. 27: Solvesi dalla ce XV, t. 26: Che tutte simiglianze sono sẽ XXXIII, t. 56: Più corta mia favella... (5) Purg., XIV, t. 42: Mi diletta Tropp che di parlare. — (6) Inf., IX, t. 44 : più e men caldi. Purg., X, t. 46: Più = tratti.

menti di questo mondo che sono e che furono e che possonsi escogitare e figurare, se si riducessero in una pena tutti, comechessia compendiata, al menomo patimento d'Inferno non si potrebbero per veruna guisa di similitudine comparare (1). Rimane senza fine al continuo l'anima a que' tormenti dannata, rimane sempre agitata da ineffabile furore, sempre in sè stessa sconsolata di tristezza tremenda, sempre compagna a'demonii irrequieti, senza speranza, senza conforto, senza riposo (2), mestissima in sempiterno. Oh miseria sopra tutte miserissima! Varii sono i luoghi di Purgatorio, e le pene quivi differenti; dalle quali altri più presto, altri più tardi sono liberati, secondo la qualità della colpa commessa, e la durezza della penitenza che fecero in vita. Innumerabile moltitudine d'anime vidi affligersi in purgazione, delle quali talune per molti secoli conobbi esservi dimorate (3). Ogni di se ne liberano, e ogni di altre ne vengono. Della loro libertà tutte hanno speranza certa, ancorché non tutte del pari sappiano il termine della pena. Oh grave cruccio di quelle anime, oh lunghissimo tempo al patire, per breve che sia! dove pe' suoi demeriti l'anima dagl' incendii del suo fuoco è arsa e per la dilazione del bene sommo incommutabile è dal desiderio suo crucciata... E acciocchè conosciate quel che all'anime de' defunti più giova a migliorarne lo stato, dicovi un fatto arcano ch'io contemplai nella visione della spirituale intelligenza: nel momento del mio terribile appresentarmi al giudizio di Dio, tanta moltitudine d'anime bandita dal mondo per la morte della carne volò per essere giudicata, che in quel punto tutti gli uomini di tutto il mondo, chi nol sapesse, avrebbe creduto essere allora morti: i quali tutti, salvo dodici soli, ricevettero sentenza di dannazione. E di que' dodici, soli due senza la dilazione del Purgatorio ebbero il riposo del cielo. De' quali uno in questa vita fu monaco assai continente, della regola di S. Francesco: e l'altro lebbroso poverello mendico, ma ferventissimo nell'amore di Dio... » Interrogandolo il sacerdote se fosse stato presente al gaudio de' Santi, rispose: « Signore, molte cose vidi, ma tutte ineffabili a me, dacché, siccome non le ho vedute con gli occhi della carne, ma per mirabile e incomprensibile modo d'interna cogitazione, però non posso convenientemente spiegarlo a parole. »

E seguitando il narrare, più cose disse de' gaudii de' santi. Il prete di nuovo lo interrogò del

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l'Inferno e del Purgatorio, se vero sia quello che certe visioni ne narrano, come la visione di Tantalo (nel qual nome confondevasi la tradizione pagana con la cristiana); che dicono altri sospesi al cavalletto, altri sopra incudini schiacciati dal martello (1), altri da lance e pali (2) confitti a terra, altri messi a bollire (3), e altri puniti in diversi modi sul fare del modo umano e lacerati e consunti; rispose Goffredo: " Signore mio buono, voi sapete ch'io sono uomo semplice e senza dottrina; onde non potrete né dovrete aspettarvi che sieno dette di mio le cose occulte che io narro a voi del futuro. Dio che per sola sua misericordia mi diede che io vedessi cose che non sapevo, mi conferi insieme l'intelligenza: ma il modo della visione e dell' intendere mio spirituale, nè io già lo comprendo, nè a voi lo posso spiegare... Io vi parlerò del terribile giudizio divino per via di similitudini, come posso, note per il ministero de' sensi e per via delle parole usitate; sebbene io quelle cose non vedessi con questi occhi della carne; nè con orecchi carnali sentissi là o voce o grido o rumore; ma rimosso l'uffizio de' sensi, ogni cosa senza voce nè suono e senza somiglianza corporea vidi e udii spiritualmente in un punto (4): anzi, per meglio dire, nè vidi ne udii, ma sì intesi. Le cose spirituali alle spirituali, e le corporee alle corporee sono comparabili. Niente ivi è corporeo, niente che cada sotto l'imaginazione (5), niente conoscibile al sentimento uma

no. »

Dante riduce questo concetto, siccome egli ama, a dottrina; e per dire a Cacciaguida ch'e' non può esprimere l'affetto che sente, piglia il seguente giro che a chi non coglie l'intendimento di lui, dee parere strano. Dacchè, Dio prima e perfetta Uguaglianza, appari in cielo a voi, padre mio, il sentire e il pensare si fecero in voi di pari vigore; perchè a quel sole che v'illumina di verità e che v'accende d'amore, la concezione della verità o quella dell'amore si fanno tra loro uguali, così che nessuna idea di parità umana può rendere tale uguaglianza in modo adeguato. Ma negli uomini mortali il volere e l'intendere non vanno di volo si pari: e io, mortale, non potendo ritrovare concetti corrispondenti all'affetto, molto meno ho parole da tanto; e però non ringrazio se non col cuore. A distinguere le due cose qui usa le voci allumare e ardere, vista e caldo, voglia e argomento (6); siccome altrove argomento e volere (7),

(1) Inf., XI, t. 30: La divina Giustizia gli martelli. (2) Inf., XXIII, t. 57: Un, crocifisso in terra con tre pali. — (3) Inf., XXI, t. 45: Lessi dolenti. —(4) Par., I, t. 25: S'io era sol di me quel che creasti Novellamente, Amor che 'l ciel governi, Tu 'l sai. — (5) Par., XIX, t. 5: Non portò voce mai nè scrisse inchiostro, Nè fu per fantasia giammai compreso. (6) Terz. 26 e 27. - (7) Inf., XXXI, t. 19.

conoscenza e virtù (1); e molte e belle sono in tutto il poema le forme di questa distinzione essenziale alla filosofia teoretica e alla pratica, distinzione costantemente segnata nella Somma ed in tutti i grandi maestri cristiani, ma già anco da Aristotele chiaramente veduta (2); ancorché né egli nè alcun pensatore pagano o paganeggiante potesse trarne quelle conseguenze effettive che la verità cristiana ne trasse.

Alla sentenza soprarrecata di Dante questa d'Agostino, comecchè in senso inverso, è dichiarazione appropriata: L'intelletto vola innanzi, e tardo segue l'umano infermo affetto; ma in chi ha la grazia che lo rende grato a Dio l'affetto segue pronto per forza di carità (3). Nel passo del presente Canto accennasi alla sproporzione tra il sentimento e l'idea, facendo l'idea minore, il che è vero nel proposito di cui qui si parla, così come vero è nel proposito d'Agostino che al bene dalla mente veduto non sempre s'accompagna il volere efficace, non alla sproporzione tra l'idea e la parola, di che spessissimo è toccato, e direbbesi che troppo spesso, se dalla stessa impotenza del dire umano non traesse più volte il Poeta potenti modi di dire. E già nell' Inferno: Chi poria mai pur con parole sciolte Dicer del sangue e delle piaghe appieno, Ch'i' ora vidi, per narrar più volte? Ogni lingua per certo verria meno, Per lo nostro sermone (4), e per la mente, Ch' hanno a tanto comprender poco seno (5). S'i' avessi le rime e aspre e chiocce Come si converrebbe... I'premerei di mio concetto il suco Più pienamente (6). Ma nel Paradiso con più profondo intendimento: Appressando se al suo disire, Nostro intelletto si profonda tanto, Che retro la memoria non può ire (7). Non perch'io pur del mio parlar diffidi, Ma per la mente, che non può reddire Sovra sè tanto, s'altri non la guidi (8). In questo secondo è data la ragione, che ora direbbesi psicologica, del mancamento della memoria, cioè il non essersi potuta l'anima in quel primo atto riflettere sopra sé stessa, e rigirarsi in sè (9),

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(1) Inf., XXVI, t. 40. (2) Arist. de An., III: Nelle potenze dell'anima l'intelletto distinguesi per contrapposto alla volontà. (5) Aug., in Psal. CXVIII. (4) Inf., XXV, t. 48: E qui mi scusi La novità se for la lingua abborra. - XXXIV, t. 8: Nol dimandar, lettor: ch'i' non lo scrivo, Però ch' ogni parlar sarebbe poco. - (5) Inf., XXVIII, in princ. (6) Inf., XXXII, in princ. – (7) Par., I, t. 3. (8) Par., XVIII, t. 4. (9) Purg., XXV, t. 25.

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come dice altrove, ond'ella non può con la riflessione quell'atto medesimo richiamare. E lo dichiara laddove dice: La mente mia... Fatta più grande, di sè stessa uscio; E che si fêsse, rimembrar non sape (1). E altrove ancora, distinguendo tra la facoltà del potere imaginar le cose pensate e quella del dirle: chè l'immaginar nostro a colai pieghe, Non che 'l parlare, è troppo color vivo (3). E da ultimo più distintamente segnando i tr gradi della parola, della memoria imaginosa, e del concetto puro, egli canta: Oh quanto è corto 'l dire e come fioco Al mio concetto! E questo a quel ch'i' vidi È tanto che non basta a dicer poco (3). Omai sarà più corta mia favella Pure a quel ch'io ricordo, che d'infante Che bagni ancor la lingua alla mammella (4).

Un de' modi più potenti a dinotare le cose infffabili, e forse il più potente di tutto il Poem3, e ne' versi: Che dentro agli occhi suoi ardeva un ris Tal, ch' io pensai co'miei toccar lo fondo De mia grazia e del mio paradiso (5): appetto a quali paiono languidi quegli altri che pure son si potenti: Quella che 'mparadisa la mia mente él Ciò ch'io vedeva, mi sembrava un riso l'universo; perchè mia ebbrezza Entrava per l'sdire e per lo viso (7). E questi richiamano pli altri a Cacciaguida: Per tanti rivi s'empie (5. d'allegrezza La mente mia, che di sè fa letizás, Perche può sostener che non si spezza (9). La similitudine della mente che non cape in sé (17) Come fuoco di nube si disserra, Per dilatarsi '!! è vera, ma di men alta verità che quell'altra servazione della mente a cui la sua propria alk grezza è confine, e nel contentarla la contière: e diffonde fino agli ultimi limiti l'esuberanza dela vita, senza che però ne trabocchi e se ne perda una stilla.

(6) Par,, XXVII

(1) Par., XXIII, t. 45. - Ivi, t. 47: Io era come qur che si risente Di visione obblita, e che s'ingegna ladarno di riducerlasi a mente. - XXXIII, t. 20: Quale colui che sognando vede, E dopo 'l sonno la passion impressa Rimane, e l'altro alla mente non riede. — (2) Par., XXIV, t. 9. (3) Par., XXXIII, t. 41. (4) Ivi, t. 56. —(5) Par., XV, t. 12. t. 1. (7) Par., XXVII, t. 2. Repleti gaudio beatitudinis. (9) Par., XVI, 1, 7. — (10) Aug. Confess., 1, 6: Nec ego ipse capio totus ged sum. In senso più ampio. (41) Par., XXIII, t. 14. Del dilatarsi nella gioia, vedi Som., 2, 1, 3, 4. Boll., I, 194: Sit tantæ claritatis et certitudinis et dilstationis, quod nullum alium statum sentio appropquare ei.

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(8) Som. Sup., 71:

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CANTO XVI.

Argomento.

Cacciaguida ragiona ancora della propria famiglia e dell'antica Firenze. Deplora i nuovi cittadini venutile dal contado. Qui si dimostrano le politiche opinioni di Dante circa la civile uguaglianza. Le più grandi famiglie della città sono qui rammentate, e molte di loro, a'tempi di Dante, o senza eredi, o povere, o in esilio, o macchiale d'infamia. Spira da queste memorie tristezza profonda. Il tocco delle cilla che muoiono come gli uomini, è tanto più alto, quanto nelle parole più semplice. Molti nomina congiunti a lui di sangue, parecchi de' suoi nemici.

L' enumerazione procede con ischiettezza di storia, con epica dignità, con impeto lirico.

Nota le terzine 1, 3; 5 alla 12; 14, 15, 16, 20; 22 alla 30; 32, 34, 35, 37, 40, 41; 45 alla 48, coll'ultime due.

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1. (L) LANGUE: tiepido al vero bene.

(SL) NOBILTÀ, Nobiltà di sangue è anche nel Boccaccio, per distinguerla da ogni altra sorta di nobiltà (Vita di Dante, pag. 10-55; Pelli, pag. 96).

(F) NOBILTÀ. Boet., III: Quanto sia vuoto, quanto futile il titolo di nobiltà chi non vede? - LANGUE. L'affetto che diventa passione coll'eccesso si fa scemo. 3. (L) APPON Con meriti nuovi. FORCE: forbici, e

i fa mezzo ridicola.

(SL) FORCE. Arios., XV, 86.

(F) APPON. Boet. Se nella nobiltà è cosa buona, questa cred' io solamente, che tengasi a' gentili uomini Impasta necessità di non degenerare dalla virtù de' maggiori. En., VI: Virtutem extendere factis.

4. (L) DAL VOL: prima gli diede del tu, ora del voi. SOFFERIE: Soffri. MEN. Ironia. Roma persevera

nell'adulazione.

(SL) ROMA. Parlando a Cesare, perchè omnia Cœserat. Lucan., V: Namque omnes voces, per quas ja tempore tanto Mentimur dominis hære primum reperit atas. Fazio, I: Colui a cui 'l Roman prima Voi disse.

6. lo cominciai:

5. Onde Beatrice, ch'era un poco scevra,
Ridendo, parve quella che tossio
Al primo fallo scritto di Ginevra.
Voi siete 'l padre mio;
Voi mi date a parlar tutta baldezza;
Voi mi levate si ch'io son più ch'io.
7. Per tanti rivi s'empie d'allegrezza
La mente mia, che di sè fa letizia,
Perchè può sostener che non si spezza.
8. Ditemi dunque, cara mia primizia,
Quai son gli nostri antichi, e quai fûr gli anni
Che si segnaro in vostra puerizia.

9. Ditemi dell'ovil di san Giovanni,
Quant'era allora; e chi eran le genti
Tra esso degne di più alti scanni.

5. (L) SCEVRA: discosta.

(SL) RIDENDO dell' usar tali forme in Cielo, e del rispettare nell' avo suo la nobiltà della schiatta: però nel seguente ritorna al tu. GINEVRA. Nella Tavola Rotonda si narra come la cameriera della regina, dama di Malehault, s' accorgesse del fallo di lei con Lancillotto (Inf., V), cioè dell' essersi lasciata baciare. Ma quella tossi per approvarli: Beatrice al contrario: e ció tempera l'inconveniente dell' allusione, facendo quasi pensare che il vantarsi di cosa vana è un peccare contro la fedeltà debita al legittimo bene.

(F) SCEVRA. In questo colloquio la Teologia non ha parte.

7. (L) Di sÈ FA LETIZIA...: gode al pieno gaudio in sé, onde al gaudio regge.

(SL) SE. Non si riversa fuori invano.

8. (L) ANNI di Cristo.

(SL) ANTICHI. Malespini. Vill. I nostri antichi. 9. (L) SAN GIOVANNI, patrono di Firenze.

(SL) OVIL. Par., XXV, t. 2: Del bello ovile ov' io dormii agnello.

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(SL) Suo. Anon. Leone (secondo alcuni) era ascendente nella nativitade di M. Cacciaguida. Fuoco, En., III: Astrorum ignes. Conv. Marte dissecca e arde le cose. Æn., I: Incendia belli. Lucan., 1: Si sævum radiis Nemeœum, Phœbe, Leonem Nunc premeres, toto fluerent incendia mundo.

(F) PIANTA. Marte compie il suo giro in secento ottantasei giorni, ore 22 e minuti 29. Vitruvio gli dà secento ottantasei giorni circa (IX, 4). Ma gli Arabi e i Peripatetici del 1500 credevano il giro di Marte compiersi in circa due anni (Conv.). Se adottiamo il giro minore, conviene leggere trenta fiate,

14. (L) Da quEL CHE CORRE IL VOSTRO ANNUAL GIOCO : contando da dove si corre il palio.

(SL) ANTICH. Apon. ant.: Ottaviano li cui antichi furono di Velletri. Il Villani, di Dante: Onorevole antico cittadino di porta S. Piero. - SESTO. Era divisa la città in sei parti. Segno di antica nobiltà era aver casa nell' antica cerchia di Firenze; chè le famiglie venute poi di fuori si fermaron ne' borghi, e all'estremo della città: i Buondelmonti in Borgo S. Apostolo, perchè venivano da Montebuoni; i Cerchi a Porta S. Piero, perchè venivano da Acone. CORRE. Nel paJio di S. Giovanni nel giugno, i cavalli venivano fino a Porta S. Piero; e in certi palii vengono tuttavia. Le case di Dante erano allato all' arco trionfale. Correre il palio è modo vivo; ma qui il gioco pare caso retto. 15. (SL) UDIRNE. Il ne abbonda, come nella lingua parlata. ONESTO. Non vuol parlare di Roma origine della sua schiatta, e di Firenze (Vill., I, 38). Inf., IV, t. 35: Parlando cose che 'l tacere è bello, Si com'era 'l parlar colà dov' era. Quest' atto di modestia dopo le cose dette della sua nobiltà, non è strano in uomo che tanto si loda, e poi chiede scusa nel XXX del Purgatorio (t. 24) del rammentare il proprio nome. O forse perch'egli credeva discendere da' Frangipani di Roma (Pelli, p. 14), nol volle rammentare per tacere del tra

16. Tutti color ch'a quel tempo

Da potere arme, tra Marte Erano quinto di quei che 17. Ma la cittadinanza, ch'e or Di Campi e di Certaldo e d Pura vedeasi nell'ultimo ar 18. Oh quanto fora meglio esser Quelle genti ch'io dico, ed E a Trespiano aver vostro 19. Che averle dentro, e sostene Del villan d'Aguglion, di

Che già per barattare ha 1 20. Se la gente ch'al mondo più Non fosse stata a Cesare no Ma, come madre a suo figl

dimento che i Frangipani ordirono dolo in mano a Carlo d'Angiò che onorevole e bello; non onesto nel sen 16. (L) POTERE portar. — TRA MA tra Ponte-Vecchio e San Giovanni,

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(SL) POTERE. Elissi viva. di Marte sul Pontevecchio (Inf., XIII stero di S. Giovanni (Inf., XIX, t. 6 Villani (IV, 15): Oltr'Arno non era e il battistero rimaneva addosso alle città (Borg., Orig. di Firenze). — Qu renze faceva da settantamila anime tordicimila; ma non v'era, dice il contado.

17. (L) PURA: senza forestierume (SL) CAMPI. I Mazzinghi veni Rena e i Boccaccio da Certaldo, i Se (Dino, II, 126). Baldo d'Aguglione do.... che hanno distrutta Firenze Ott. Li uomini del contado... li qu disfacimenti vennero ad abitare lungo per sè non mescolati (si come non degné nè erano tratti agli onori, però che c poco amore vi vennero; e però abitav timamente edificato, chiamato Oltrarn De Arte poet.: Faber imus.

18. (L) FORA: sarebbe stato. dine. GENTI Campi e altre. - GA da Firenze. TRESPIANO: cinque. 19. (L) AGUGLION Castello in val (SL) Puzzo. Volg. Eloq.: Mori formitate præ cunctis fœtere. Fra i Ner annovera molti contadini. VILLA il 1300 congiurato contro il buon (Dino, p. 35). Priore nel 1311. Avv quattro o cinque sentenze. SIGNA giudice de' Mori Ubaldini. Dino, p. 8 Signa, il quale si riputava tanto Guel dea che nell'animo di niuno quella pe spenta. 113: Molti antichi Ghibello da' Neri in compagnia loro, solo pe quali... M. Baldo d'Aguglione, M. Fo. 20. (L) LA GENTE: i preti. NOVE (SL) TRALIGNA. Par., XII, t. 3 e che traligna. NOVERCA. Petrarca Roma noverca. Purg., VI, t. 51: Aki sti... lasciar seder Cesar nella sella. dice Federigo II in una lettera, la Cor III: Injusta noverca. — MADRE. Della narchia Sorretto da quella riverenza

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