ANTONIO CARACCIO Fra gl'illustri e chiari ingegni, che la Salentina Provin cia illustrarono non ultimo luogo si spetta al Barone Antonio Caraccio, nato in Nardò nel 1630 da Niccolò de' Baroni di Corano, e da Caterina Scorna. Di soli quattordici anni egli dette un altissima pruova dell'irresistibile forza che a far versi lo trascinava, poichè compose le Lagrime di Alcione Poemetto in ottava rima ch'è andato perduto per le ingiurie del tempo. Ci piace di rapportare qui tre stanze del suo poema l' Imperio Vendicato, poichè oltre all'essere vaghissime ci dan conto de' suoi primi studj. Là nella bella Italia i primi gridi Da non vil ceppo nato, o in rozzi nidi, De le mie case che si adorne foro, Benchè si tarpi o tenga al piè l'anello Di Napoli ove il padre avealo mandato ad apprendere la civile ragione egli tornò in patria ove diessi di proposito allo studio della Poesia, e in quell' età in cui la scuola de' classici era mezzo spenta dal gusto Marinesco egli seppe tenersi lontano dal falso gusto sì nello scrivere prose che versi, il candore degli antichi Scrittori fermamente seguendo, temprandolo con la vivezza dello stile di alcuni moderni. Le sue Rime ci sembrano il più delle volte di buona lega e dettate con rara filosofia. Serva di esempio il seguente Sonetto, fatto per la morte della sua virtuosa moglie. Non spente già di due leggiadre gote E di gran pianto degna e di gran duolo, Tornato in Napoli per continuare i suoi studj fece altissima comparsa nell' Accademia degl' Investiganti in casa del Marchese d'Arena, ove recitò dottissime dissertazioni su varie materie di gusto. Avendo risoluto quindi di portarsi a Roma fu Gentiluomo di molti illustri Porporati, e ne prese la protezione speciale il Cardinal Carrafa. Egli guadagnossi l'estimazione di tutti i dotti uomini che onoravano in quel tempo quella dominante. e di Allora pose l'animo ad una vasta impresa, tale da eccitare spavento ad ogni eccelso Poeta. Egli imprese ad intessere un Poema Epico a cui pose per titolo L'Imperio Vendicato, prendendo per argomento di esso le gesta de' Veneziani in Oriente nel medio Evo, quando spargendo il terrore in tutti i mari sostennero l'Impero Greco minacciato da' barbari, e liberarono Costantinopoli. Questo nobilissimo soggetto fu da lui trattato con mirabile magistero, ed arricchito di vaghissimi episodj, che bellamente giovano a far risaltare la macchina del Poema allegorie scientifiche bene ordite e connesse. Questo Poema debbe riporsi nel novero de' principali di second' ordine che come pianeti minori si aggirano intorno a' due Soli del nostro cielo poetico, e può venire agevolmente a contesa con quello del Conquisto di Granata, che scrisse il celebre Graziani. La verseggiatura è sempre facile, e tiene un giusto mezzo fra quella di Ariosto e di Tasso; anzi mi sembra che sotto questo rapporto l' Imperio Vendicato può servire di modello a' giovani poeti, che aspirano all' eccellenza nello scriver le ottave rime. Il nostro poeta ne pubblicò i primi venti canti in Roma nel 1670, quindi ne fece una seconda edizione nel 1694, aggiungendovi altri venti canti. Il Poema fu generalmente applaudito, ed il Senato Veneziano riconoscente alla gloria che veniva alla nazione Veneta per esser stata celebrata da un sì chiaro ingegno volle nominarlo per ciò Cavaliere di S. Marco nel 1679. L'Arcadia sorgeva allora in Roma, quell' adunanza spontanea che raccese la face del buon gusto in Italia, e ripose nel loro seggio vetusto le incorrotte Muse Toscane. Non tardò ad entrare in questa nobilissima palestra aperta agl' ingegni il nostro Caraccio, e fu annoverato tra i XII colleghi di quell'assemblea col nome di Lacone Cromizio. Nel 1694 pose a stampa il Corradino, Tragedia. Varj e discordi giudizj portarono i dotti su questo componimento. Il soggetto non è molto tragediabile, ma la maggior parte degl' intelligenti della scena si accordano a dire ch'ella è una delle più buone, e forse la migliore delle Tragedie che furono pubblicate nel secolo XVII. I Napolitani la considerano molto superiore a tutte le Tragedie che scrissero i loro nazionali dal rinascimento delle lettere fino al dì d'oggi, e non può con lei porsi in paragone nè la Penelope del Porta, nè il Torrismondo del Tasso, nè le più celebrate del Panzuti e del Marchese. Mori il Caraccio in Roma nel 1702 di anni 72 lasciando molte opere inedite. I suoi schietti costumi gli procurarono l'amore di un infinito numero di grandi, e di letterati. La sua morte destò un dolore universale. L'Arcadia dolente di questa perdita volle onorarne la memoria commettendo a Domenico de Angelis, chiarissimo letterato di scriverne l'elogio funebre (1); e molti gentili spiriti di quell'adunanza sparsero fiori poetici sopra la sua tomba. GIUSEPPE BOCCANERA DA MACERATA. (1) Quest' elogio si legge nelle Vite de' Letterati SALENTINI, opera in due volumi in 4.9 stampata in Napoli. |